GARBOLI, Cesare
Nacque a Viareggio il 17 dicembre 1928, sesto figlio (dopo cinque sorelle) di Antonio, ingegnere nato a Intra, in Piemonte, ma di origini lombarde, e di Carolina D’Antoni, abruzzese.
All’inizio della seconda guerra mondiale, la famiglia si trasferì a Milano, rientrando in Toscana dopo l’8 settembre 1943 e vivendo tra Viareggio e Vado di Camaiore. Con il padre, Garboli raggiunse Roma nel 1944, risiedendo in viale Bruno Buozzi, nel quartiere Parioli, e frequentando gli ultimi due anni di liceo classico al «Dante Alighieri», in un altro quartiere della città, Prati.
Si iscrisse nel 1946 alla facoltà di lettere, orientandosi dapprima verso gli studi di letteratura greca e di glottologia ma decidendosi infine per letteratura italiana. Ebbe Natalino Sapegno come relatore per la tesi di laurea su «Problemi fondamentali per lo studio della genesi politica dell’Inferno di Dante», sulla cui scia curò poi La Divina Commedia. Le rime, i versi della Vita nuova e le canzoni del Convivio per il «Parnaso italiano», l’ampia antologia della poesia italiana diretta da Carlo Muscetta per «I Millenni» dell’editore Einaudi (Torino 1954). A Dante tornò negli ultimi mesi di vita: la revisione del commento alla Commedia si fermò all’Inferno (postumo, Torino 2004).
Visse in via Donizetti a Roma tornando frequentemente a Viareggio, frequentando nella città toscana scrittori e artisti ai quali in seguito dedicò vari scritti: Antonio Delfini, Mario Marcucci e Mario Tobino. Fu Tobino a permettergli di presentarsi a Niccolò Gallo, a lungo riferimento umano e culturale, col quale Garboli firmò poi una delle sue prime pubblicazioni, il commento ai Canti leopardiani (Roma 1959; poi Torino 1962, con numerose ristampe). Mentre maturavano le sue convinzioni politiche (fu comunista non iscritto al partito), cominciarono anche le prime pubblicazioni in rivista. Esordì nel 1950 con un articolo occasionato dalla scomparsa di Cesare Pavese, collaborando tra il 1950 e il 1953 a Società. Nel 1953 iniziò la collaborazione – non più interrotta – con la serie letteraria di Paragone, la rivista fondata e diretta da Roberto Longhi e da Anna Banti, di cui in seguito Garboli divenne prima redattore (1962) e infine direttore (1986).
L’ultimo tratto della formazione riguarda l’attività redazionale che Garboli svolse particolarmente per l’Enciclopedia dello spettacolo diretta da Silvio d’Amico.
Nel 1960, per il volume Teatro francese del grande secolo, presentato da Giovanni Macchia, Garboli tradusse in collaborazione con Vittorio Sermonti Anfitrione. Ebbe inizio così il suo lungo sodalizio con Molière, l’autore di tutta una vita. Nel 1968 apparve, quasi un pronostico, la segnatura o la spia di un lavoro in corso e da svolgere, la traduzione del terzo atto di Tartuffe su Paragone, con introduzione. Garboli lesse Molière ritrovandovi come in uno specchio tanti vizi della società italiana. Le traduzioni ma soprattutto i saggi di accompagnamento permettono di vedere nel corso del tempo una vera appropriazione di Molière da parte di Garboli: nella dedica sulla copia del volume Molière. Saggi e traduzioni di Cesare Garboli (Torino1976) appartenuta a Elsa Morante, racconta Carlo Cecchi (Postfazione a Garboli, Tartufo, Milano 2014, p. 149), Garboli aveva scritto: «A Elsa con l’amore di Cesare (e anche con quello di Molière di cui sono momentaneamente fiduciario su questa terra)». Gli scritti raccolti postumi in Tartufo (Milano 2014) costituiscono insieme un libro involontario e previsto. Il Tartuffe di Molière non è qui “studiato” da Garboli, ma è un personaggio o un tema preso dal magazzino dei miti e variamente manipolato, una figura che con Garboli vive e rivive in una decifrazione che lumeggia passato e presente. Per la precisione: il rapporto di Garboli con Molière è stato lungo e memorabile, ma il rapporto con Tartufo è stato qualcosa di più, portando a un punto di incandescenza e di autonoma visibilità quel campione di doppiezza. Dunque per Garboli far leggere Molière in Italia voleva dire aiutare a rimuovere una gigantesca rimozione, in qualche modo ancora maggiore rispetto a quella di Chateaubriand (a questo sentire va assegnato il progetto editoriale e l’introduzione per le Memorie d’oltretomba, Torino 1995); ma di Tartufo Garboli si servì per attraversare i costumi degli italiani, ritenendo ciò la sua migliore idea critica: un servitore che si fa padrone grazie alla propria sola scaltrezza, e dunque un impostore in continua recita.
Una chiave di lettura che, ad esempio, nel memorabile articolo partito come commento a fatti di cronaca riguardanti Armando Verdiglione (la Repubblica, 5 luglio 1986, poi in Ricordi tristi e civili, Torino 2001, pp. 27-30, infine in Tartufo, cit., pp. 105-108), attraversava il genio controverso di Jacques Lacan. «Proprio quando traducevo il Tartuffe, più o meno nel 1968, ebbi occasione d’incontrare Lacan e di frequentarlo […] e, a un tratto, ebbi davanti a me, inconfondibile, irriconoscibile, Tartuffe; non il Tartuffe col collarino, recitato da un attore filodrammatico, ma un Tartuffe mai visto, straordinario, fatto di sofferenza, di eleganza, di reticenza insolente e volgare. Pensai che Lacan fosse un impostore (dico che lo pensai, non che lo fosse)», e la sua impostura «sfuggente, misteriosa e quasi necessaria all’intelligenza, diventa in Verdiglione un imbroglio miserabile. Con Lacan Tartuffe andava in motoscafo e in jet; con Verdiglione, ritorna alle sue origini comiche, alla sua faccia italiota, e alla sua tonaca unta». Perché, poi, «un imbecille colto è più imbecille (è una citazione da Femmes savantes) di un imbecille analfabeta». Tartufo è un servo diventato padrone con l’esercizio salutare della politica; ma (Tartufo. L’impostore ha fatto scuola anche in Italia, intervista ad Antonio Gnoli, in la Repubblica, 17 febbraio 2000, poi in Tartufo, cit., p. 145) «se la salute è quella auspicata da Tartufo è meglio essere malati».
Per Il Giorno, tra 1960 e 1961, Garboli curò una rubrica di libri ritenuti fondamentali, redigendo le schede di cinquanta dei cento titoli previsti: l’altra metà fu affidata a Giorgio Manganelli, col quale si alternava nelle uscite.
Nel 1961 morì il padre. Nel 1963, su invito di Geno Pampaloni, iniziò la collaborazione con la casa editrice Vallecchi, occupandosi in particolare di narrativa. L’anno dopo, per volontà del direttore letterario della casa editrice, Vittorio Sereni, iniziò la collaborazione con la Mondadori, nella sede romana dove lavorava Niccolò Gallo. Nel 1965 iniziò la collaborazione letteraria con L’Espresso; nel 1967 con la Fiera letteraria. Nel 1966, l’idea di una collana di giovani narratori simile a quella varata per Vallecchi, venne ripresa presso Mondadori, casa editrice che lasciò nel 1967 approdando a Il Saggiatore di Alberto Mondadori. Qui curò un volume in memoria del direttore editoriale, Giacomo Debenedetti, scomparso a gennaio del 1967, seguendone poi la ristampa delle opere.
Nel 1968 si trasferì in un appartamento in via Borgognona. Nello stesso anno interpretò l’intervistatore nella scena iniziale di Teorema di Pier Paolo Pasolini.
Nel 1969 mori la madre. Durante l’anno, mentre svolgeva il suo lavoro presso Il Saggiatore – affiancando all’impegno per la narrativa quello per la saggistica –, Garboli iniziò a collaborare con Il Mondo, con scritti dedicati soprattutto all’arte. Nello stesso anno pubblicò da Mondadori il suo primo volume, una raccolta di saggi dal titolo La stanza separata. Garboli aveva quarantuno anni. Sarebbe passato un quindicennio prima che desse alle stampe un nuovo volume (Penna papers, 1984); già personaggio di primo piano e autore di culto, Garboli ora era un autore visibile. In copertina della edizione Mondadori stava una frase: «il libro involontario di un critico che scrive per capire»: e contava e non contava, dunque, che le pagine della Stanza fossero dedicate a Ginzburg, Penna, Morante, Soldati, Sereni, Cassola tra gli altri: la costellazione di riferimento per il Garboli a venire. Più che nella storia della critica, la Stanza trovava il suo miglior posto nella meditazione sui casi delle persone. Un critico della specie dei saggisti è fortunato anche per la qualità dei libri che incontra. Può andarli a cercare nel passato, ma resta legato all’arbitrio dei libri che il suo tempo gli propone. Garboli non fu sfortunato, ma, anche e più, seppe mettere a profitto le fortune che gli capitarono, accentuandone i tratti e creando nessi originali.
«Vocazione letteraria e metodo dello scienziato» – scrisse in un saggio su Roberto Longhi – «diventano due funzioni complementari: se manca l’una, manca anche l’altro. E come può la letteratura, che si fonda sull’originalità e sull’arbitrio, sulla fantasia e sul capriccio, coincidere con la scienza?» (Longhi scrittore, in Pianura proibita, Milano 2002, p. 13). È stato questo uno dei suoi grandi rovelli, e non per mera polemica. Le risposte, all’altezza della Stanza separata, furono rappresentate come si trattasse di un campo di battaglia o di un teatro della crudeltà.
Negli anni Sessanta, Garboli intrecciava la propria voce a quella di Giacomo Debenedetti (lo si è visto nelle iniziative per Il Saggiatore): a partire dal saggio su Pasternak e dalle pagine su Puccini (Debenedetti aveva affrontato lo scrittore russo nelle lezioni sul Romanzo e Puccini e la melodia stanca in un saggio del Personaggio uomo); poi, in particolare nei territori riguardanti Longhi, intrecciò le armi con Gianfranco Contini, il suo «antagonista segreto», così decretato fin dal titolo in un saggio di Carlo Ginzburg (Cesare Garboli e il suo antagonista segreto, poi in Garboli, Tartufo, cit., pp. 159-176). Ma, oltre Longhi, è il paesaggio del Novecento delineato da Contini nella Letteratura dell’Italia unita (1968) a essere quanto di più diverso e lontano si possa immaginare da quello sbozzato nella Stanza separata (libro in fitto rapporto con libri analoghi di autori della stessa generazione, per esempio Autobiografia letteraria di Enzo Siciliano). Dunque la definizione di Ginzburg di «antagonista segreto» va accolta, ma con l’avvertenza che un antagonista non ne esclude altri: è impossibile non pensare a Pasolini come antagonista leggendo le pagine di Garboli su Penna e su Pascoli o non pensare agli Scritti corsari leggendo Ricordi tristi e civili, arrivati dopo la cesura storica del caso Moro. L’antagonismo con Contini, come pure Ginzburg lascia credere, va visto, piuttosto che in intercapedini psichiche, nel conflitto di due modelli storiografici, se fare storiografia con documenti sovrabbondanti consiste nella scelta dei documenti da combinare. Opposto tra i due è il sentire che si fa motore dell’argomentare, e proprio sui fatti linguistici, da Garboli ritenuti non oggettivabili, e invece istituzionali per Contini. Se un senso c’è, nella critica, sta in tali diversità e lontananze che, nel momento in cui vengono proposte, vivono sulla persuasione di una loro verità: di una «scienza» che deborda in rapporto inquieto con chi pratica più o meno lo stesso mestiere.
Garboli continuò a seguire per la Mondadori vari autori italiani: tra questi, Mario Soldati per i romanzi L’attore (1970) e Lo smeraldo (1974). Con Soldati iniziò nel 1970 la collaborazione per la trasmissione televisiva A carte scoperte, che lo portò nel 1972 a Tokyo per la puntata Viaggio nella stanza di Soichiro Honda e ad Addis Abeba per un’intervista a Hailé Selassié. Quello con Soldati era un sodalizio importante, che si protrasse nel tempo in varie forme, nato nel 1962 (l’origine di quest’amicizia e di altre amicizie, come quelle con Gian Giacomo Feltrinelli e con Giovanni Agnelli, fu raccontata da Garboli in una memoria del 1985, Com’è nata un’amicizia, in Falbalas, Milano 1990, pp. 157-169).
Nel 1971 tradusse la parte di Molière per un adattamento da Bulgakov messo in scena per il Teatro stabile di Genova da Luigi Squarzina, Tartufo ovvero vita amori autocensura e morte in scena del signor di Molière nostro contemporaneo. Mentre continuavano varie collaborazioni a settimanali e quotidiani (L’Espresso, Il Mondo, Il Giorno), ottenuta la libera docenza, venne chiamato all’Università di Macerata, coprendo al contempo un incarico presso il Politecnico di Zurigo. Abbandonò l’incarico l’anno seguente per tornare alla Mondadori.
Nel 1972, in luglio, scrisse sei articoli da inviato per Il Giorno in Islanda in occasione dell’epocale sfida scacchistica tra Boris Spassky e Bobby Fischer. In un articolo scritto per la Repubblica, 17 dicembre 2008, Gianluigi Melega ha ricordato: «[Carlo Caracciolo] negli scacchi era convinto che, non essendoci possibilità di trucchi, fosse possibile arrivare ai vertici della specialità studiando a fondo la tecnica e i risultati dei grandi maestri. Lo aveva indotto a questo errore Cesare Garboli, altro appassionato scacchista, che cercò di conculcargli questa tesi quando, con Emanuele De Seta, prendemmo tutti un aereo per andare a Reykjavik, in Islanda, per la sfida mondiale tra Spasski e Bobby Fischer». Ma poi, «dopo tanto teorizzare, a un torneuccio per dilettanti organizzato lì per lì, Garboli venne sconfitto in poche mosse da un ragazzino adenoideo».
Il 1973 fu un anno dominato dagli interessi per Molière: su Paragone Garboli pubblicò Ipotesi sul Tartuffe (un saggio poi variamente riutilizzato) e per la Rai collaborò al festival Molière. Nell’Almanacco dello Specchio furono pubblicate le poesie sotto il titolo All’amarezza e alla maturità. Molière ancora nel 1974, quando tradusse per il festival dei Due Mondi Il malato immaginario. Collaborò intanto al settimanale culturale televisivo Settimo giorno, con frequenti interventi. Di e su Molière approdò quanto tradotto e scritto fin allora nel già citato volume del 1976: Molière. Saggi e traduzioni di Cesare Garboli. Nel 1976 tradusse Terra di nessuno di Harold Pinter per la compagnia di Romolo Valli, con la regia di Giorgio De Lullo. Per due anni (1976-77) scrisse cronache teatrali per le pagine romane del Corriere della sera, continuando poi su l’Unità. Tradusse nel 1978, ancora di Molière, Le intellettuali; e collaborò al Don Giovanni per la regia di Carlo Cecchi.
Il 1978 fu anno di svolta. Dopo il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, Garboli decise di abbandonare Roma, dove aveva vissuto più di tre decenni. Tornò nella casa di famiglia. In un articolo del 7 giugno 1980 scrisse: «Due anni fa, proprio dopo via Fani, ha cominciato a farsi strada dentro di me una strana ossessione. Due società di segno opposto, entrambe clandestine, unite da un mostruoso rapporto speculare, immagino che si combattano nel nostro Paese senza incontrarsi mai. Le vedo, qualche volta, quando s’incontrano, spargere inchiostro come due seppie che si dissolvano in una grande e unica macchia scura. Passata la cinquantina, si può anche vivere di incubi. Ho infatti abbandonato le mie amicizie e le mie abitudini, e mi sono ritirato in campagna. Vivo in un borgo della Versilia; un borgo di geografia lucchese, incassato fra i monti, con un pertugio che si imbuca verso il mare. Vivo qui senza vedere più in là della soglia di casa e della scodella del gatto» (Ricordi tristi e civili, pp. 25 s.). A Vado di Camaiore, concentrandosi sugli studi e sul lavoro, scrivendo un libro su Dom Juan (che apparve postumo), iniziò il lavoro su Pascoli, destinato a durare per anni. Ma le sollecitazioni di ciò che aveva abbandonato ritornavano: «Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un amico, il capogruppo dei consiglieri comunisti locali, uno da viso spianato e sorridente di vecchio togliattiano. È uno che appartiene a una terza società. Mi ha chiesto di candidarmi nelle liste comunali del Pci. Naturalmente mi sto chiedendo perché gli ho detto di no, no, e poi no, e poi sì» (Ricordi tristi e civili, p. 26). Nel 1980 si candidò dunque nelle liste del Partito comunista italiano (PCI) a Pietrasanta. Partecipò al Convegno internazionale su Roberto Longhi con un intervento intitolato Longhi lettore.
Preparò nel 1981 l’edizione dei Diari di Antonio Delfini che, accompagnata da un’ampia introduzione (una vera e propria sintesi del saggismo e della critica di Garboli per l’intreccio tra forma della vita e forma dell’opera), uscì nel 1982 da Einaudi. Seguirono in volume, da Garzanti, i saggi e i restauri filologici dedicati alla poesia di Sandro Penna, Penna Papers (Milano 1984), nonché, da Mondadori Poesie famigliari di Giovanni Pascoli (ibid. 1985). L’ampio apparato critico è preceduto da una dettagliata cronologia della vita del poeta: come nel caso di Delfini, anche con Pascoli, Garboli diagnostica l’opera per arrivare a leggere la vita: non contorno o causa, ma quasi opera a sé. Pagine da lasciarsi leggere anche con relativo disinteresse per l’oggetto trattato. Dunque: un critico-scrittore; definizione da Garboli aborrita, perché nella sua persuasione uno scrittore crea mondi, un critico no. Ma talvolta un critico crea mondi, quando, come Garboli, diventa incantatorio nell’argomentare e nel trattare. Solo che Garboli non voleva rischiare di essere confuso con quei critici che sono tanto scrittori da dimenticarsi d’essere critici e dunque di dover lavorare di prima mano sulle parole altrui, come fanno il filologo o il conoscitore: stato inziale, in Garboli, del critico. Affermò talvolta che mai si sarebbe sognato di far toccare da vicino biografia e opera. Proprio così, ciò avendo praticato con continuità, specialmente in Pascoli e in Delfini.
Anche qui, con una recisa asserzione, Garboli evitava il rischio del fraintendimento: escludendo rapporti meccanici di stampo positivistico, in lui era non la vita a dar forma all’opera ma l’opera alla vita. Una parola è ricorrente nei suoi scritti: «infetto», o «infezione». Con questa parola, Garboli voleva dire che, in letteratura, ogni cosa immaginata come fisiologica nasce da una patologia, della cui entità solo il testo sa parlarci: non il suo autore, al quale infine quella patologia va ricondotta, come forse una forma espressiva.
Nel 1986, su invito dell’antico maestro Natalino Sapegno, entrò a far parte della giuria del premio Viareggio, che abbandonò nel 1992. Su mandato del Comune, rifondò nel 1996 la giuria, della quale fu presidente fino alla scomparsa. Nel 1986 scrisse l’introduzione ai due volumi di Opere di Natalia Ginzburg, ordinate dall’autrice. Sempre nel 1986 iniziò a collaborare con la Repubblica e tradusse il Misantropo per la regia di Carlo Cecchi al Nicolini di Firenze. L’anno seguente scrisse su Carlo Cassola e su Franco Fortini e tradusse il Filottete di André Gide per la regia di Walter Pagliaro al Piccolo di Milano. Ancora Molière nel 1988: La scuola delle mogli per il Teatro di Genova. Nello stesso anno curò (in collab. con Cecchi) e introdusse i due volumi delle Opere di Elsa Morante; e pubblicò i versi di Nove poesie lontane di Cesare Garboli per undici carte gialle di Mario Marcucci (Firenze 1988).
Nel luglio del 1989 andò in scena l’Amleto tradotto per sollecitazione ancora di Cecchi. Nello stesso anno sei saggi costituirono il volume uscito per Einaudi dal titolo Scritti servili. Nella premessa Al lettore scrisse: «Tutti gli argomenti trattati in questo libro: la vita e il teatro di Molière; il destino di autodistruzione ilare e buffonesco, ma anche così tragico di Delfini; il genio istrionico di Longhi, e la sua esattezza nel fondere il reale e l’immaginario; la disumanità del desiderio e la perversione saturnina di Penna; la concordanza di pensiero e di viscere nella Ginzburg; le metamorfosi di Elsa Morante; tutto questo non è stato per me né un semplice argomento di studio né un invito a esercitarmi nella lettura. Tutt’altro. Ognuna di queste relazioni racconta una storia, o un evento, di seduzione. Strano per un critico, ma io non amo leggere; non amo i libri, anche se mi considero uno scrittore-lettore. Esistono, secondo me, gli scrittori-scrittori e gli scrittori-lettori. Lo scrittore-scrittore lancia le sue parole nello spazio, e queste parole cadono in un luogo sconosciuto. Lo scrittore-lettore va a prendere quelle parole e le riporta a casa, come Vespero le capre, facendole riappartenere al mondo che conosciamo. Non è la stessa distinzione che intercorre tra autori e critici. Questa distinzione è professionale, e riguarda i sindacati». E sul titolo: «Non so per quale ragione ho dato a queste storie di seduzione il titolo, tacitamente disapprovato dagli editori, di Scritti servili. Una certa suggestione l’ha prodotta, sicuramente, il gusto di provocare […]. “Servili” vale dunque: servizi resi a una committenza, scritti promossi da una servitù pratica, da una finalità editoriale. Oltre che scrittore-lettore, mi sento anche scrittore-editore» (Scritti servili, pp. VII-IX).
Seguì Falbalas. Immagini del Novecento (Milano 1990): una raccolta di scritti sulle arti e sulla letteratura: «Tra il 1969 e il 1979 ho esercitato su quotidiani e periodici un’attività continuativa (dice il fisco) di critico d’arte, cronista drammatico e recensore letterario. I resti di quest’attività formano oggi un mucchio di ritagli di giornale da cui ho estratto le prime cento pagine di questo libro. Le altre cento provengono da una selezione non meno drastica di quello che ho scritto dopo […]. Il titolo, Falbalas, l’ho tolto a un film poco noto di Becker (l’autore di Casque d’or) girato nel 1945 […]. A dare unità a queste pagine è solo il tempo, tenuto fermo su certe immagini: il volto di un amico, la leggenda di Longhi, il rovello intellettuale di Calvino, quello viscerale della Morante, i fantasmi di Macchia, il genio di Petrolini, le idee coatte di Testori, l’oscurità e la chiarezza di Fortini, la vita di Parise, la poesia di Montale, Bertolucci, Sereni, Raboni, ecc. ecc. Nel suo viaggio per l’effimero, il tempo incontra, di tanto in tanto, degli ostacoli, fa delle piccole grinze, e ciascuna di queste grinze è uno degli articoli (per me che li ho scritti) di Falbalas» (Falbalas, pp. 7 s.).
Nei primi anni Novanta Garboli lavorò ancora sui suoi autori: Molière, Pascoli e Penna. Nel 1991 curò per i «Classici Rizzoli» due volumi di opere di Soldati. Nello stesso anno acquistò un piccolo appartamento a Parigi, in Rue Mazarine, nel Quartiere Latino. Nel 1992, diede avvio per la casa editrice Adelphi alla ristampa di testi del passato marginali o malnoti, accompagnandoli con ampie introduzioni. Nel 1995, per Adelphi, raccolse suoi saggi su Elsa Morante in Il gioco segreto; nello stesso anno uscì l’edizione da lui curata delle Memorie d’oltretomba (I-II, Einaudi-Gallimard) di Chateaubriand.
Nel 1998, a Parigi, Garboli fu insignito del titolo di chevalier de l’ordre des arts et des lettres. Durante l’anno mise in vendita la casa di Vado e si trasferì a Firenze, prendendo in affitto un appartamento in Palazzo Capponi, sul Lungarno Torrigiani. Nel frattempo provvide a ristrutturare una sua casa a Viareggio, lungo la Fossa dell’Abate, dove ebbe residenza dal febbraio 2001. Sempre nel 1998 uscì, con un’ampia introduzione di Ferdinando Taviani, una raccolta di sue cronache teatrali, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, apparse nel Corriere della sera, l’Unità, Il Mondo.
Dopo molti premi e riconoscimenti che ne consacrarono la personalità, in occasione del conferimento del premio Latini, a Firenze nel 1999, Geno Pampaloni scrisse nella motivazione: «Saggista cólto ma non pedante, con una vena narrativa ironica ma non dissacrante, sa essere al tempo stesso oltranzista e terragno. Non ha dimenticato i buoni studi, ma non ne fa ostentazione. È, anzi, geloso dei suoi sentimenti profondi, delle sue passioni. Mi riesce difficile trovargli un omologo […]. È estroso ma senza alcuna smania di stupire il lettore, se non per l’acutezza dei suoi giudizi calibrati e succosi […]. La cosa che assolutamente gli manca è la mediocrità» (poi in Bibliografia di Cesare Garboli, p. VII).
Nell’ambito del progetto Memoria del Novecento promosso dalla Provincia di Lucca curò nel 1999 le manifestazioni su D’Annunzio, Alcyone e la Versilia e nel 2000 quelle su Pascoli e la Lucchesia.
Nel marzo 2001 gli fu conferita la laurea in lettere honoris causa dall’Università di Udine; in ottobre tenne la prolusione dal titolo Pianura proibita nella facoltà di architettura dell’Università di Parma. La prolusione diede il titolo, nel 2002, a una raccolta di saggi raccolti per Adelphi. Uscì nel 2001 da Einaudi la citata raccolta di interventi morali dal titolo Ricordi tristi e civili.
La pubblicazione, nel 2002, dei due tomi di Poesie e prose scelte di Pascoli nei «Meridiani» Mondadori segnò l’approdo definitivo dei suoi lunghi e innovativi studi sul poeta. L’organizzazione dell’opera portava forte il segno del curatore. Continuò invece l’impegno con Molière con altre due traduzioni: Il medico per forza per la Compagnia di Gianrico Tedeschi (2002), L’avaro per la regia di Gabriele Lavia (2003) e, a Roma, tra la clinica Quisisana, dove era ricoverato, e la casa del vecchio amico Carlo Caracciolo, che lo ospitava, Monsieur de Pourceaugnac, con Carlo Cecchi.
Morì a Roma, presso la Casa di cura Quisisana, nella notte tra il 10 e l’11 aprile del 2004.
Il catalogo delle opere è stato approntato da L. Desideri, in Bibliografia di C. G. (1950-2005), con una nota introduttiva di C. Ginzburg, Pisa 2007. I volumi di Garboli, raccolte di saggi e di articoli editi sparsamente, sono: La stanza separata, Milano 1969 (poi Milano 2008, con prefaz. di G. Leonelli); Penna papers, Milano 1984 (ed. ampl., Milano 1996); Scritti servili, Torino 1989; Falbalas: immagini del Novecento, Milano 1990; Il gioco segreto: nove immagini di Elsa Morante, Milano 1995; Penna, Montale e il desiderio, Milano 1996; Un po’ prima del piombo: il teatro in Italia negli anni Settanta, prefaz. di F. Taviani, Firenze 1998; Ricordi tristi e civili, Torino 2001; Pianura proibita, Milano 2002. Postumi ma preparati dall’autore: Storie di seduzione, Torino 2005 (che contiene anche Scritti servili e Penna, Montale e il desiderio); Il «Dom Juan» di Molière, Milano 2005, con nota e bibliogr. di L. Desideri. Postumi Occidente tra dubbi e paura, Firenze 2005; Tartufo, a cura di C. Cecchi e con un saggio di C. Ginzburg, Milano 2014; La gioia della partita. Scritti 1950-1977, a cura di L. Desideri - D. Scarpa, Milano 2016.
Alcune curatele andrebbero considerate a buon diritto opere di Garboli: i casi di maggior rilievo Molière. Saggi e traduzioni, Torino 1976, dove il nome dell’autore tradotto viene utilizzato nel titolo; e G. Pascoli, Poesie famigliari, a cura di C. Garboli, Milano 1985, poi C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Torino 1990 e infine rifusa nei due volumi di Opere di Pascoli (Milano 2002). Va ricordata in questa chiave anche la cura della serie di volumetti adelphiani: M. Manzoni, Journal, 1992; B. Berenson - R. Longhi, Lettere e scartafacci 1912-1957, in collab. con C. Montagnani e con uno scritto di G. Agosti, 1993; Anonimo del XVII secolo, La famosa attrice, 1993; Fr.-R. de Chateaubriand, Di Buonaparte e dei Borboni, 2000.
La Bibliografia di Cesare Garboli di L. Desideri, cit., alle pp. XIII-XXVI contiene una Cronologia essenziale della vita e degli scritti di riferimento. Alcune delle numerose interviste rilasciate da G. sono state raccolte in La critica impossibile. Conversazioni con C. G., a cura di S. Lutzoni, prefaz. di M. Onofri, Milano 2014.
Una testimonianza da angolazione «famigliare», è Cesare di R. Loy, Torino 2018; piuttosto che il capitolo di un romanzo, come vorrebbe il frontespizio, è una memoria-ritratto il capitolo intitolato Il grande critico in E. Trevi, Sogni e favole, Milano 2018.
Numerosi gli scritti critici su G., alcuni dei quali segnalati in P. Gervasi, Vita contro letteratura. C. G., un’idea della critica, Roma 2018.