DANDINI, Cesare
Fratello maggiore del pittore Vincenzo e zio di Pietro anch'egli pittore, nacque a Firenze nel 1596. Allievo successivamente, al dire del primo biografo Filippo Baldinucci (16811728), di Francesco Curradi, Cristofano Allori e Domenico Cresti detto il Passignano ebbe un inizio pittorico faticoso, come dimostra il suo più antico quadro noto, il Compianto di Cristo, datato 1625, nella chiesa della Ss. Annunziata di Firenze.
Del suo primo periodo il biografo annota di soggiorni a Pisa, al seguito del Passignano prima e poi a fianco di Gian Battista Lupicini, e antiche guide indicano come del D. una Predica di s. Vincenzo Ferreri nella chiesa pisana di S. Caterina, tuttora in loco. Un'altra pala d'altare riferita al D. ancor giovane, datata 1631 (Paatz, 1940), nella Ss. Annunziata a Firenze, con Madonna e santi, pur nei rigidi schemi compositivi desunti dal Passignano, rivela nelle teste dei santi Iacopo e Rocco, con certi effetti luministici, le prime scintille di quell'immaginazione pittorica che distinguerà il D. tra i pittori fiorentini coevi, da Cristofano Allori, cui egli deve tuttavia il modello di bellezza femminile - dalla Giuditta celeberrima -, come da Francesco Furini, il solo artista con il quale, negli anni successivi, può confrontarsi per affinità di scelte tematiche ed insistenza nel privilegiare il motivo della bellezza femminile, o efebica, quale che sia la figurazione.
Col Furini egli fu infatti confuso in un caso clamoroso, quello che riguarda il dipinto, oggi agli Uffizi, con La Pittura e la Poesia, firmato e datato 1626 dal Furini, e che a fine Settecento fu riprodotto come capolavoro del D. nella Etruria pittrice di M. Lastri (Firenze 1795, II, tav. LXXXXII; cfr. Cantelli, 1972).
Ma nel 1631 il D. persisteva a dipingere in quel color verde bronzeo che non passò inosservato ai suoi biografi. Quell'anno infatti egli fu pagato per la tela con Zerbino e Isabella dal principe Lorenzo de' Medici, suo protettore sin dal 1626, per il quale produsse un gruppo di opere oggi nei depositi degli Uffizi, in origine collocate nella villa medicea della Petraia (Borea, 1975 e 1977).
Il dipinto ariostesco è stilisticamente affine alla pala coeva nella chiesa dell'Annunziata, per la gamma stilistica scura, fumosa, ma prelude nel drammatico nodo delle figure, teatralmente atteggiate sul torbido paesaggio, all'esagitazione che caratterizza il Rinaldo e Armida dipinto per il cardinal Carlo de' Medici (oggi nella villa della Petraia), un balletto quasi isterico di coloratissimi eroi da palcoscenico.
Al culmine di questo modo originale di concepire la rappresentazione di una scena drammatica si pone la straordinaria Caduta di s. Paolo nel convento di Vallombrosa, documentata nel 1646-1647 (Del Bravo, 1966), e in cui si è intravista una rimeditazione su Rubens nell'empito dei moti esagitati, colti nell'acme dell'azione, di tutt'altro accento rispetto al vaporoso barocco romano dell'epoca, e semmai raffrontabile, per i vigorosi effetti luministici, a modelli di Orazio Riminaldi (Gregori, 1965 e 1972), con il quale il D. poté avere contatti, se non a Roma - dove tuttavia si ipotizza egli sia andato - a Pisa durante i soggiorni evocati dal Baldinucci. Certo è che nel suo quadro più classico - nel senso di più ordinato secondo una metrica interna alla rappresentazione di una "istoria" complessa, a più figure -, ossia il Mosè e le figlie di Jetro, noto al Baldinucci, oggi a Dublino, National Gallery of Ireland (Wynne, 1974), il D. immagina e racconta concentrando l'azione in gesti e sguardi sottesi di inquietudine, proponendo il più bel contraltare al classicismo dei bolognesi e dei francesi. Purtroppo sono disperse molte altre "istorie" da lui dipinte secondo la testimonianza del biografo: un'Arianna abbandonata per il marchese Riccardi, una Galatea nel mare per don Lorenzo de' Medici (questa documentata nel 1637: Borea, 1977), Mosè che fa scaturire l'acqua per il principe Corsini. Quest'ultimo quadro sarebbe rimasto incompiuto per la sopravvenuta morte dell'autore, e sarebbe stato finito da Pietro Dandini, il nipote; ai tempi del Lanzi (1795-96) era a Poggio Imperiale.
Lo svolgimento stilistico del D. è assai difficile da precisarsi, per scarsezza di punti di riferimento nei documenti. È un fatto tuttavia che, operando almeno sino al 1637 per don Lorenzo de' Medici, in alcuni dipinti già alla Petraia, presumibilmente riferibili a quel periodo, egli manifesta quella maniera chiara, levigata, fredda che caratterizza la sua pittura migliore, raggiungendo i culmini nella già citata opera Rinaldo e Armida, oggi alla Petraia, nel Mosè e le figlie di Jetro di Dublino, e in una serie straordinaria di mezze figure, in prevalenza femminili, di presenza inquietante, malgrado l'assenza di individualità nei soggetti rappresentati, il cui involucro formale - che poi si ripete nei volti degli efebi più volte ritratti con la stessa astrazione - richiama la perfezione immobile dei volti del Bronzino, ma con il tocco sanguigno, quasi uno sfregio in tanto gelida bellezza, delle bocche turgide, semichiuse. Si narra, per inciso, che anche il D. stesso, da giovane, fosse di singolare bellezza e la grazia del suo aspetto è tramandata da un'incisione di G.B. Cecchi derivata da un autoritratto (Serie degli uomini..., 1774, p. 114).
Quasi tutte quelle mezze figure - spesso in ovale - si ornano di attributi eroici o morali, più raramente religiosi, che spesso hanno il valore di lucide nature morte: come la maschera e il libro nella Commedia già alla Petraia ora nei depositi degli Uffizi (elementi cari al pittore come risulta dalla ricomparsa in molti quadri allegorici dello stesso soggetto, anche a più figure, che gli si attribuiscono sul mercato), o vasellame prezioso, come nella Artemisia della Galleria Corsini a Firenze, o nella Carità del Metropolitan Museum a New York. Talvolta un significato allegorico non è suggerito da nessun attributo, e in tal caso il pittore indulge, ad esempio nella Bettona, ritratto di donna, già alla Petraia (Borea, 1977), o nella Figura femminile conservata nella raccolta Gregori a Firenze (Gregori, 1969) sulla preziosità della seta bianca o azzurra della camicia scivolata dall'eburnea spalla, o dei pizzi neri o bianchi, o su di un fiocco rosso nei capelli neri, punti magici di una pittorica seduzione; e così conferma una fredda acutezza intellettuale di fronte al dato naturalistico, che non lo interessa per se stesso, ma come acine di una immagine stilisticamente trasfigurata, rispetto al modello visto in una realtà contingente.
La data 1639 si legge nella Diana del Museo di Copenaghen. Documenti datano nel 1641 la mediocre Pentecoste di Sovigliana (Vinci) forse compiuta da G.D. Ferretti (Del Bravo, 1966), nel 1646-47 la già citata Caduta di s. Paolo di Vallombrosa; infine la data 1649 si legge nella S. Caterina della parrocchiale di Compiobbi. Altri elementi non si hanno per la biografia del D. sino alla morte avvenuta a Firenze nel febbraio 1656 (Del Bravo, 1966).
Scarseggiano sue opere importanti in luoghi pubblici - ma pale d'altare ascritte a lui sono in chiese di Toscana, a Sovigliana, Volterra, Pontorme (Empoli), oltre che a Pisa e, in ogni caso, esse si presentarono presto mai conservate, data la tendenza a iscurirsi propria della maggior parte della pittura dandiniana, come rilevava già il Baldinucci, e prima di lui il Franchi (1660 ca): ne conseguì che, malgrado l'alta qualità delle sue invenzioni, egli non si acquistò grande fama, ed anzi finì con l'essere pressoché dimenticato - salvo la ricostruzione da parte dell'anonimo biografo del 1774, che trae le notizie da schede sui Dandini redatte dal celebre erudito e amatore Giovanni Targioni Tozzetti (p. 115) - sino ai recenti anni Sessanta, quando, nell'ambito del processo di rivalutazione della pittura fiorentina seicentesca, fu reindividuata la singolarità del suo stile quale si esprime soprattutto nelle mezze figure. Sgomberato il campo dalle attribuzioni errate - il D. fu confuso più volte con Sigismondo Coccapani (Gregori, Del Bravo, Cusinano), pittore per altro assai diverso come oggi si riconosce (Borea, Cantelli) - e prescindendo dall'arbitrario inserimento nel suo catalogo di copie o imitazioni che abbondano sul mercato, la figura del D. risulta quella di un artista intellettuale, riflessivo, aristocratico, che pur operando nella tradizione toscana, naturalmente la più sofisticata, che va dal Bronzino ad Alessandro e Cristofano Allori sino al miglior Carlo Dolci, si mantenne piuttosto isolato, non partecipando sentimentalmente alla gran parata di estasi e di devozioni che si svolgeva al tempo suo nei chiostri e nelle cappelle del Granducato. Tra le sue opere religiose più importanti, e forse unica fuori di Toscana, merita particolare menzione, anche per fare giustizia del silenzio pressoché totale delle fonti e della critica al riguardo, l'imponente, difficile a datarsi, pala d'altare nella chiesa del SS. Sacramento in Ancona con i SS. Carlo Borromeo, Lorenzo e Apollonia (ubicazione ignota: Cantelli, 1983).
Dei suoi studi giovanili sulle stampe di Dürer, cui egli si sarebbe interessato anche come collezionista, al dire dei Baldinucci, non è traccia se non in certi disegni conservati nell'Art Institute di Chicago (Thiem, Florentiner Zeichner..., 1977), che gli si attribuiscono.Non risulta si costituisse una famiglia. Insegnò l'arte al fratello Vincenzo, ad Alessandro Rosi, ad Antonio Giusti.
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