CORTE, Cesare
Figlio primogenito di Valerio e della nobildonna genovese Ottavia Sofia (ma non se ne conosce il casato), nacque a Genova nel 1550, data controllata da C. G. Ratti sui libri battesimali della parrocchia di S. Maria delle Grazie (p. 100 n.). Di nobile famiglia (di origine pavese), versatile per natura ed educazione, tipico rappresentante di quella generazione di intellettuali di corte, il C. imparò lettere e matematiche dal padre, architettura militare da uno zio materno; si dedicò anche alla pittura, per inclinazione naturale, pure sotto la direzione del padre.
I suoi esordi ricalcano quelli paterni: stessa irrequietezza, stessa ambizione, con un girovagare internazionale in cerca di sistemazione. I ritratti gli aprirono le porte delle regge: Elisabetta d'Inghilterra, da lui effigiata, l'avrebbe voluto trattenere a corte. Protetto da Alberico Cibo Malaspina, principe di Massa, letterato e mecenate, con vaste relazioni internazionali, fu da questo presentato a Ferdinando d'Asburgo conte del Tirolo, che gli commissionò due ritratti già conservati nella Hofburg di Vienna. Sempre da Alberico fu presentato a Ferdinando I di Toscana, che lo assunse come architetto militare, in un ruolo certamente subordinato, di cui il C. si stancò presto. L'ambiente fiorentino non sembra essergli stato così favorevole come all'amico G. B. Paggi, pure lui pittore, letterato e architetto, esiliato per debiti penali. Ritornato a Genova, assistette il Paggi nella nota disputa con B. Castello e altri sulla nobiltà dell'arte. Alberico Cibo fu ancora suo committente, almeno per un'opera genovese, una S. Maria Maddalena portata dagli angeli in cielo per una cappella della distrutta chiesa di S. Francesco di Castelletto. Eseguì ritratti a personaggi illustri e cardinali, come Orazio Spinola, ed ottenne commissioni di tavole d'altare per le chiese. Elegante verseggiatore, più che di pittori il C. fu amico di letterati come G. Chiabrera e P. Foglietta. Il Chiabrera esaltò in un sonetto una sua piccola tela per Filippo Pallavicino che ritraeva i lussuriosi nell'etema tempesta del quinto canto dell'Inferno dantesco ("E sì dotto pennell'inganna i sensi, / che l'occhio scerne turbini funesti / tutta agitar la region profonda": cfr. Soprani-Ratti, p. 103). L'insolito soggetto è d'altronde assai indicativo delle propensioni letterarie dell'autore.
Difficile stabilire se la sua conversione alle teorie eretiche avvenne realmente nell'ultimo decennio della sua vita; il Ratti afferma di aver corretto le notizie del Soprani sulla base di documenti autentici, ma il racconto resta comunque molto romanzato (cfr. pp. 103 s.).
Certo il C. aveva viaggiato molto in gioventù, in Francia (avrebbe avuto i libri eretici da un amico lionese) e in Inghilterra; non è da trascurare, poi, quanto abbia potuto influire su di lui l'atmosfera familiare con la passione paterna per le dottrine esoteriche ed anche una certa inquietudine di pensiero religioso nell'ambiente degli intellettuali genovesi all'inizio del sec. XVII. Un suo commento all'Apocalisse, di contenuto apertamente eretico, lo fece denunciare al tribunale dell'Inquisizione.
Incarcerato il 30 dic. 1612, la sua resistenza al processo durò dieci giorni: l'11 ag. 1613 abiurò esemplarmente con concorso di popolo in S. Domenico. Fu condannato al carcere perpetuo che scontò per un breve periodo; morì infatti dì lì a poco.
Le sue tavole d'altare, S. Francesco stigmatizzato e S. Simone Stok per la chiesa di S. Maria del Carmine, un S. Pietro chiamato sulle acque a S. Pietro in Banchi, firmata e datata 1600, viste ancora dal Ratti, furono sostituite fra il sec. XVIII e il XIX con altre di medesimo soggetto e diverso autore. Resta la pala di Ognissanti che dipinse per i padri minimi della chiesa di Gesù e Maria o S. Francesco da Paola, singolare per il soggetto che sembra una disputa teologica cui partecipano padri domenicani e minimi disposti in due schiere ai lati della tela ai piedi della figura di Cristo circondato da angeli e santi. Per il resto l'opera non si distingue né per la composizione che è sovraffollata e confusa, né tantomeno per quelle qualità pittoriche che pure anche Ratti e Alizeri riconobbero al Corte. Potrebbe essere una spenta testimonianza dottrinale dell'ultimo suo anno di vita impostagli come atto di fede dall'Inquisizione, e la presenza dei domenicani nell'iconografia del quadro rafforzerebbe l'ipotesi. Questo potrebbe anche spiegare perché sia l'unica sua opera rimasta sugli altari genovesi.
Il C. sarebbe stato maestro di Bernardo Strozzi e, per i buoni uffizi del principe di Massa, di Luciano Borzone (Soprani, p. 104). L'apprendistato dello Strozzi non è però confermato nella sua vita; su quello del Borzone il Ratti (p. 244 n.) si mostra molto incredulo per la disparità di stile dei due pittori.
Davide, figlio del C., avviato alla pittura dal padre, era molto giovane quando questi morì. Proseguì l'apprendistato con D. Fiasella appena quel poco che gli fu sufficiente per servirsi abilmente dei pennelli per copiare. L'opera a cui ha legato il suo nome è appunto la copia della Cena in casa del fariseo da Paolo Veronese per G. F. Spinola, poi passata con l'originale nella quadreria del doge Marcello Durazzo e tuttora conservata nella Galleria nazionale di Palazzo reale di Genova. Recentemente è stata avanzata l'ipotesi attributiva (C. Montagni-L. Pessa, Palazzo Rocca..., Genova 1981, p. 16) per una copia dal Fiasella (1617, Genova, Galleria nazionale) della Cena in casa di Simone, conservata nella quadreria del palazzo Rocca di Chiavari. Davide morì a Genova durante la peste del 1657.
Bibl.: R. Soprani-C. G. Ratti, Delle vite de' pittori... genovesi, I,Genova 1768 (rist. anast., Bologna 1969), pp. 100-104, 126, 244; F. Alizeri, Guida artist. ... di Genova, II,Genova 1847, pp. 77, 300, 1187; A. Morassi, Capolavori della pitt. a Genova, Milano-Firenze 1951, p. 20; B. Suida Manning-W. Suida, L. Cambiaso, Milano 1958, p. 202; F. Caraceni Poleggi, La committenza borghese e il manierismo a Genova, in La pittura a Genova e in Liguria..., Genova 1971, pp. 241-319; P. L. Pancrazi-G. V. Castelnoni, La basilica di S. Francesco da Paola, Genova 1971, P. A; U. Thierne-F. Becker, Künstlerlex., VII, p. 479.