CAETANI, Cesare
Nacque da Antonio, signore di Filettino, e da Caterina Colonna, della potente famiglia romana, nell'ultimo ventennio del sec. XV. Piuttosto scarse e imprecise sono le notizie intorno al C., il quale è comunque personaggio da ricordare, poiché è con lui che comincia la decadenza del ramo di Filettino della famiglia Caetani. sino al tempo del C. influente per le sue relazioni di parentela con la consorteria colonnese e politicamente in vista come uno dei gruppi familiari più forti della fazione ghibellina nel basso Lazio.
Il C. ottenne, a quanto pare per primo nella sua famiglia (ma la data non è precisabile), il titolo di conte di Filettino. Durante il pontificato di Giulio II prese parte agli intrighi e ai tentativi insurrezionali della fazione ghibellina, capeggiata da Pompeo e Prospero Colonna. Nel 1511accorse a Roma per fiancheggiare con le sue milizie la rivolta fomentata contro il papa da Pompeo Colonna, il quale, durante una malattia apparentemente mortale di Giulio II, incitò dal Campidoglio il popolo a disfarsi del regime pontificio. Due anni dopo il C. era nell'esercito di Prospero Colonna, durante la guerra contro i Francesi; caduto prigioniero in combattimento, venne poi a lungo trattenuto nella fortezza di Pizzighettone. Pare che egli prendesse parte anche alle successive campagne di Prospero Colonna; nel 1515 al servizio del duca di Milano Massimiliano II contro i Francesi, nel 1521 ancora contro i Francesi nell'esercito imperiale.
Scarse notizie si hanno anche intorno a un suo contrasto con un altro capitano imperiale, Sciarra Colonna, figlio spurio di Fabrizio: durante questa contesa il C. si macchiò di delitti non meglio precisabili, tali comunque da guadagnargli una pesante condanna da parte di Leone X, che gli venne tuttavia condonata il 6 apr. 1521. Il conflitto tra Carlo V e Clemente VII riaccese gli spiriti antipapali del C. e dei suoi compagni della fazione ghibellina. Incoraggiato dalla nuova, straordinaria potenza dell'imperatore e dalla supposta volontà di Carlo V di sottomettere definitivamente il pontefice, il C. fu, assieme a Pompeo, Prospero e Vespasiano Colonna, a Mario Orsini, a Giambattista Conti e a Girolamo d'Estouteville, conte di Sarni, il maggiore protagonista dei rabbiosi tentativi ghibellini per impedire, con una minacciosa opposizione dall'interno dello Stato della Chiesa, la prosecuzione della politica filofrancese di Clemente VII, e uno dei promotori del progetto di impadronirsi del Medici manu militari, dichiarandolo quindi decaduto dal pontificato. Questo disegno ebbe un serio tentativo di attuazione nel settembre del 1526, allorché il C. si unì con le sue genti di Filettino alle milizie dei Colonnesi e fece irruzione in Roma. Se il papa poté sfuggire alla cattura rifugiandosi nel sicuro asilo di castel Sant'Angelo, la città dovette sopportare il sacco consentito dal C. e dai suoi compagni alle loro milizie, preannunzio di quello che i Romani avrebbero dovuto subire l'anno successivo ad opera dell'esercito imperiale.
Non si conosce la data della morte del C., il quale fece testamento il 29 ag. 1528.
Dal suo matrimonio con Elisabetta Conti, celebrato precedentemente al 1522, nacque nel febbraio del 1523 Antonio. A questo fu riservata una vita esemplarmente tranquilla, in netto contrasto con quella del padre, e che era tuttavia il segno di un ormai consumato esaurimento politico della famiglia.
Scomparse, con i pontificati di Paolo III e dei suoi successori, le ultime resistenze particolaristiche all'interno dello Stato della Chiesa, le antiche consorterie nobiliari romane che per il passato avevano fortemente condizionato il potere pontificio erano ora politicamente dissolte. Soltanto la potenza finanziaria consentiva ad alcuni nuclei aristocratici di conservare alla corte papale un residuo della antica influenza e del vecchio prestigio: questo non era il caso dei feudatari di Filettino, e fu un indubbio merito di Antonio quello di comprendere la situazione e starsene pago al ruolo del tutto marginale che le circostanze gli consentivano: aderì quindi senza resistenza al nuovo regime, adattandosi a trarne i modesti vantaggi che questo consentiva al suo ceto: esercitò pertanto alcune modeste cariche amministrative, tra le quali quella di podestà di Ferentino, e soltanto sul finire della vita ottenne quella, leggermente più prestigiosa, di castellano di Civitavecchia (1566), concessagli da Pio V. Nel 1541, 0 nell'anno successivo, aveva sposato Marzia Colonna, dei signori di Zagarolo. Morì il 13 ag. 1566.
Non si conosce la data di nascita del figlio di Antonio, Cesare, che comunque dovette essere precedente al 1545. Questi fu assai meno rassegnato del padre alla modestia della sua condizione sociale, e proprio per questo, d'altra parte, rappresentò con il suo temperamento violento e con gli esiti briganteschi della sua vicenda personale un'espressione estrema, ma in definitiva abbastanza tipica, della decadenza della minore nobiltà romana.
Nel 1565, ancora vivo il padre, Cesare venne processato e condannato per l'uccisione di tale Marcello Atracino. Non si conoscono gli estremi della condanna; risulta tuttavia che nel 1570 fu graziato. Era quindi in carcere nel 1566, al momento della morte di Antonio, incapace perciò di assumerne l'eredità: della situazione approfittò la Camera apostolica per acquistare da Marzia Colonna, per 80.000 scudi, i diritti feudali dei Caetani su Filettino, che concludeva così la propria storia come signoria autonoma.
Tornato in libertà, Cesare reagì alla disgrazia esasperando il suo isolamento dalla società romana e ricorrendo all'estrema risorsa del brigantaggio. Dalle sue terre di Filettino, di cui conservava la proprietà anche dopo la cessione dei diritti signorili, e dai suoi piccoli feudi di Trevi e di Vallepietra, situati in posizione strategica sulle vie di comunicazione tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, egli minacciò per più di un decennio la sicurezza dei viandanti e quella stessa dei personaggi ufficiali delle due corti che si avventuravano nel viaggio attraverso il Frusinate.
Perciò reiteratamente i viceré di Napoli - il Granvelle, il marchese di Mondéjar e lo Zuñiga - dovettero avanzare contro di lui rimostranze e richieste di estradizione alla corte romana, ma la tolleranza dei pontefici verso la nobiltà romana, e più ancora le difficoltà militari che si opponevano alla repressione del brigantaggio, fecero sempre cadere nel vuoto le proteste napoletane, fino a che, nel 1583, aggredito e svaligiato un corriere della Repubblica di Venezia, a Roma non si ritenne che Cesare Caetani avesse colmato la misura.
Gregorio XIII, infatti, tra, i meriti del quale non fu certamente un vigoroso atteggiamento contro il banditismo che infestava lo Stato ecclesiastico, fu costretto questa volta a intervenire energicamente dalle ripercussioni dell'incidente e dalle proteste congiunte della Repubblica veneta e del viceré di Napoli, duca d'Osuna. Il Caetani, convocato a Roma dal figlio del papa, Giacomo Boncompagni, governatore dell'armi pontificie, non avvertì la gravità della minaccia e confidando nella solidarietà della Curia e della aristocrazia romana, tradizionale in questi casi, si presentò al Boncompagni, il quale il 23 maggio del 1583 lo fece imprigionare in castel Sant'Angelo.
Subito intervennero in suo favore alcuni influenti personaggi, tra i quali, soprattutto, il cardinale Nicola Caetani, suo congiunto. Questi richiese al pontefice che nel processo intentato al Caetani non venissero riesumate contro di lui le accuse di antichi delitti e che non venissero confiscate le sue proprietà. Alla prima richiesta il pontefice sembrò aderire, alla seconda oppose un netto rifiuto, poiché i fortilizi del Caetani erano notoriamente "ricetti di tutti i tristi del Regno" (Caetani, Domus, p. 173). Così Gregorio XIII mostrava di volere in qualche modo compiacere il viceré di Napoli; non pare tuttavia che intendesse effettivamente arrivare a una decisione irreparabile, sia perché di natura accomodante, sia per l'assiduo prodigarsi dei protettori del Caetani: e infatti oppose un netto rifiuto al duca d'Osuna che richiedeva l'estradizione dei Caetani per sottoporlo a processo a Napoli, con conseguenze che era facile prevedere.
Fu lo stesso Caetani a compromettere la propria posizione con una iniziativa che gli inimicò definitivamente il papa: stanco di attendere una favorevole risoluzione del suo caso, dopo sei mesi di prigionia, la notte del 26 nov. 1583, corrompendo alcuni carcerieri, tentò la fuga da castel Sant'Angelo. Il tentativo fu scoperto, i complici individuati e impiccati e contro il Caetani il papa ordinò che si procedesse per via sommaria. Sottoposto alla tortura il Caetani confessò i più atroci delitti e il 29 novembre fu condannato alla decapitazione, sentenza subito eseguita, ad evitare gli ultimi tentativi dei suoi protettori presso il pontefice.
Dal matrimonio di Cesare con la gentildonna romana Vittoria Della Valle, avvenuto il 5 ott. 1573, nacquero Antonio, Pompeo, Scipione e Muzio. Ad eccezione di quest'ultimo, creato cavaliere gerosolimitano nel 1592 e morto ancora assai giovane nel 1595, i figli di Cesare emularono ampiamente le gesta paterne. Antonio e Scipione, asserendo di voler vendicare il padre, ne proseguirono l'opera sulla strade della Ciociaria. Arrestati nel 1592, furono sottoposti a processo e condannati il 9 novembre di quell'anno alla pena capitale e alla confisca dei beni come autori di molti omicidi. La condanna fu eseguita per Antonio, mentre le solite influenti protezioni intervennero a guadagnare la grazia a Scipione. Questi fu trattenuto in carcere sino al 20 maggio 1596, allorché fu liberato per l'intervento del cardinale Pietro Aldobrandini. Il 15 sett. 1597, inoltre, Clemente VIII gli restituì i beni confiscati. Visse da allora abbastanza tranquillo, coltivando studi di poesia. Morì il 21 maggio del 1611.
L'ultimo figlio di Cesare, Pompeo, che ebbe titolo di conte di Torre e Trevigliano, non fu inferiore alle tradizioni familiari. Ritenendosi offeso dal podestà di Veroli, nel 1594 fece saltare con una mina il palazzo comunale di questa cittadina, mentre era in corso una seduta del Consiglio. L'avversario del Caetani morì, e con lui due consiglieri del tutto estranei alla contesa; numerosissimi furono i feriti. Il popolo di Veroli, inferocito dalla strage, inseguì il Caetani sin sui monti che circondano Alatri e lo massacrò.
Fonti e Bibl.: G. F. Peranda, Lettere, Venezia 1601, p. 373; Lettere di Onorato Caetani…, a cura di G. B. Carinci, Roma 1893, p. 172; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medio evo, IV, Roma-Torino 1902, p. 694; G. Caetani, Domus Caietana, II, San Casciano Val di Pesa 1933, ad Indicem.