Borgia, Cesare
Nacque nel 1475, forse in settembre, da Rodrigo Borgia, allora cardinale, e Vannozza Catani. Da questa unione nacquero anche Lucrezia, Giovanni e Goffredo. Cesare venne destinato dal padre, allora vicecancelliere, alla carriera ecclesiastica, secondo la radicata tradizione di famiglia che risaliva al prozio Callisto III. Protonotario apostolico nel 1482, a soli sette anni, B. ottenne diversi benefici nei regni della corona d’Aragona e nel 1491 divenne vescovo di Pamplona. Studiò diritto canonico a Perugia e a Pisa, dove si trovava quando, l’11 agosto 1492, il padre venne eletto al soglio pontificio (→ Alessandro VI). Pochi giorni dopo B. ottenne la nomina ad arcivescovo di Valencia e nel 1493 il cappello cardinalizio, ma nonostante i molti benefici accumulati non riuscì ad affermare un vero primato politico in seno al collegio dei cardinali. Quando cominciò la campagna in Italia di Carlo VIII (1494), accompagnò il re a Napoli in veste di legato pontificio, ma in reale funzione di ostaggio:
E come e’ [Carlo VIII] fu passato nel Sanese, / non prezzando Alessandro la vergogna / si volse tutto contro al Ragonese; / ma il gallo, che passar securo agogna, / condusse seco del papa il figliuolo / non credendo alla fé di Catalogna (Decennale I, vv. 40-45).
Il 16 giugno 1497 il corpo senza vita di Giovanni, duca di Gandia, figlio prediletto di Alessandro VI, venne ritrovato nel Tevere. B., che nutriva rancori e invidia nei confronti del fratello, venne accusato dell’omicidio:
il suo carattere violento e vendicativo rendeva plausibile l’accusa. In ogni caso, morto Giovanni, Cesare rimaneva l’unico erede su cui Alessandro VI potesse contare per costruire un forte dominio familiare. A Roma era il personaggio più importante dopo il papa, conduceva una vita sfarzosa e libertina ed era ormai palese il suo desiderio di abbandonare l’abito ecclesiastico, senza però rinunciare alle ricche rendite che ne derivavano. Precluso per veti politici un futuro principesco in Spagna e in Francia, i Borgia si rivolsero al Regno aragonese di Napoli, ma il progetto fallì. Guardarono allora al nuovo sovrano francese, Luigi XII (→), che avanzava rivendicazioni sul Regno di Napoli e sul ducato di Milano: l’appoggio di una forte signoria, di cui fosse titolare il figlio del pontefice, poteva tornare utile ai suoi progetti.
In base agli accordi tra Alessandro VI e Luigi XII, B. otteneva quindi il titolo di duca del Valentinois, cospicue rendite e un contingente di oltre cento uomini d’arme.
Cesare abbandonò allora lo stato ecclesiastico e partì alla volta della corte francese:
Et avendo Alessandro carestia / di chi tenessi la sua insegna eretta, / per la morte e la rotta di Candia, / si volse al figlio che seguìa la setta / de’ gran chercuti e da quei lo rimosse / cambiandoli el cappello alla berretta (Decennale I, vv. 175-81).
Nel 1499 sposò Carlotta d’Albret, sorella del re di Navarra, e in luglio si unì a Luigi XII in vista dell’imminente campagna militare in Italia. Al Valentino, ormai vincolato al re di Francia, erano pertanto precluse tutte le zone che Luigi riteneva di proprio interesse, diretto o indiretto: il ducato di Milano, il Regno di Napoli, Venezia, le signorie di Firenze e Siena. Questi vincoli, con il desiderio di Alessandro VI di recuperare territori dove il potere pontificio era da tempo solo nominale, spinsero i Borgia a orientarsi verso la Romagna.
A fine 1499 B. avviò la sua campagna di conquista, espugnando prima Imola e poi (1500) Forlì, ma poco dopo venne richiamato da Luigi XII nell’Italia del Nord, perché Milano era tornata nelle mani di Ludovico il Moro. La reazione del francese fu pronta ed efficace:
Ma il gallo, più veloce ch’io non dico, / in men tempo che voi non diresti ‘ecco’, / si fece forte contro al suo nimico. / Volsono i galli di Romagna il becco / verso Milan per soccorrere e suoi / lasciando ’l papa e ’l Valentino in secco (vv. 253-58).
M. sottolinea così come le aspirazioni del papa e di Cesare fossero condizionate dalle decisioni di Luigi XII.
Nell’ottobre 1500 Cesare poteva lanciare una nuova campagna in Romagna. Mentre Alessandro VI appoggiava l’impresa avviando contatti diplomatici serrati con Venezia (Prima legazione in Francia, M. alla Signoria, 8 ott. 1500, LCSG, 1° t., pp. 485-87, in partic. p. 486), al Valentino era invece lasciato il comando strategico delle operazioni che puntavano a Rimini e a Pesaro:
il duca Valentin le vele sua / ridette a’ venti e verso ’l mar di sopra / della sua nave rivoltò la prua / e con sue genti fe’ mirabil opra / espugnando Faenza in tempo curto / e mandando Romagna sottosopra (Decennale I, vv. 289-95).
Poco dopo B. venne nominato dal pontefice duca di Romagna e vicario di Pesaro e Fano per dare copertura giuridica alle sue conquiste (1501).
Il 6 maggio del 1502 B. mosse contro Camerino. Ai primi di giugno, Arezzo e la Val di Chiana si ribellarono a Firenze, con l’aperto sostegno di Vitellozzo Vitelli e Giampaolo Baglioni e con la minacciosa connivenza del Valentino; soltanto l’intervento deciso del re di Francia avrebbe consentito ai fiorentini di recuperare Arezzo (27 agosto). B., con mossa fulminea e imprevista, attaccò Urbino (21 giugno) che cadde dopo breve resistenza. Camerino, attaccata il 27 giugno, si arrese il 20 luglio. Sull’onda del successo il duca pensò di poter stabilire un controllo su Firenze, eventualmente favorendo il rientro dei Medici: ma il disegno fu bloccato, ancora una volta, da Luigi XII.
Il forte potere dei Borgia suscitava molte invidie e grandi timori nei piccoli signori che ancora governavano alcune città dello Stato pontificio e negli stessi luogotenenti del Valentino che cominciarono a complottare contro di lui:
E, rivolti fra lor, questi serpenti / di velen pien cominciaro a ghermirsi / e con gli ugnoni a stracciarsi e co’ denti; / e mal possendo il Valentin fuggirsi / gli bisognò, per ischifare el rischio, / con lo scudo di Francia ricoprirsi (Decennale I, vv. 388-93).
I congiurati (alcuni esponenti della famiglia Orsini, Oliverotto da Fermo, Giampaolo Baglioni, rappresentanti del signore di Siena – Pandolfo Petrucci –, del signore di Bologna – Giovanni Bentivoglio – e del duca di Urbino) si riunirono alla Magione presso Perugia, un castello degli Orsini, e strinsero un patto con il quale si promettevano reciproco aiuto: «per la salvezza de tutti e per non essere a uno a uno devorati dal dragone [il Valentino] ne semo convenuti e collegati insieme» (così scriveva Giampaolo Baglioni al podestà di Firenze, Vincenzo dei conti di Monte Vibiano da Perugia: una missiva richiamata nella lettera di Marcello Adriani a M., 17 ott. 1502, LCSG, 2° t., pp. 369-70; cfr. l’annotazione di C. Vivanti, in N. Machiavelli, Opere, 2° vol., p. 1712).
Qualche giorno prima erano scoppiate rivolte contro B. a Urbino e a Camerino e sembrava che tutta la Romagna dovesse sollevarsi. Le risorse del duca, però, erano inesauribili, potendo contare sulle immense finanze del pontefice e sull’appoggio politico del re di Francia. Alla fine di ottobre veniva ratificato un accordo tra B. e i congiurati, che credevano così di avere ottenuto garanzie per uno status quo (Seconda legazione al Valentino, M. ai Dieci, 30 ott. 1502 e 2 dic. 1502, LCSG, 2° t., pp. 405-09 e 476-79).
Ma B. meditava la vendetta. Convinti i suoi condottieri a partecipare a una spedizione contro Senigallia (signoria dei Della Rovere), una volta conquistata la cittadina li riunì tutti e con l’inganno li fece arrestare e uccidere (31 dicembre). Il fatto fu poi dettagliatamente riferito da M. nel Modo che tenne il Duca Valentino (→).
Nei mesi successivi il re di Francia dovette preoccuparsi dell’accresciuto potere dei Borgia e del rischio che questi passassero a un’alleanza con la Spagna. In questa delicata situazione, il 18 agosto si diffondeva la notizia che il pontefice e Cesare erano gravemente ammalati. Alessandro VI moriva poco dopo, mentre Cesare, pur gravissimo, riusciva a riprendersi e a impossessarsi del tesoro di Alessandro VI, ma non a controllare Castel Sant’Angelo.
Alla notizia della morte del papa gli Orsini e i Colonna entrarono in armi a Roma contrastando le forze del Valentino, che giurava allora fedeltà ai cardinali riuniti per designare il successore di Alessandro VI. La scelta di un pontefice di transizione, il vecchio cardinale Francesco Todeschini che assunse il nome di Pio III (→), fu ininfluente. Lo Stato di Cesare si stava rapidamente dissolvendo. Gli erano rimaste fedeli solo Imola, Forlì, Cesena e Faenza, mentre Urbino, Piombino, Camerino, Pesaro e Rimini erano tornate agli antichi signori.
Il 1° novembre il nuovo conclave elesse papa, grazie anche ai voti di Cesare e dei cardinali spagnoli, Giuliano Della Rovere (Giulio II), accerrimo nemico dei Borgia. La sorte del Valentino era incerta. «Al duca Valentino, del quale e’ si è valuto più che di alcun altro, si dice che [il papa] li ha promesso reintegrarlo di tutto lo stato di Romagna, e li ha concesso Ostia per sua sicurtà» (Legazione presso la corte papale, M. ai Dieci, 4 nov. 1503, LCSG, 3° t., pp. 321-22, in partic. p. 322). Per contrastare i veneziani, Giulio II confermò a B. il vicariato sulla Romagna, titolo più formale che sostanziale, ma non lo nominò gonfaloniere della Chiesa. Anzi, alla fine di novembre lo fece arrestare per il rifiuto di consegnare le tre fortezze romagnole ancora ai suoi ordini (Legazione presso la corte papale, M. ai Dieci, 23 nov. 1503, LCSG, 3° t., pp. 399-402). Il 28 aprile del 1504 B. poté raggiungere Napoli, dove, a sorpresa, fu arrestato da Consalvo di Cordova per ordine dei re cattolici: Ferdinando il Cattolico lo considerava suo nemico per essere stato alleato dei francesi. Poco dopo fu inviato in Spagna; qui venne tenuto prigioniero a Medina del Campo. Rimaneva a Borgia solo il sostegno del cognato Giovanni d’Albret, presso il quale si rifugiò dopo la fuga da Medina del Campo (1506). Nominato capo delle truppe
navarresi, combatté per Giovanni d’Albret e trovò la morte in uno scontro presso il castello di Viana il 12 marzo 1507.
M. conobbe B. nel giugno del 1502 quando il governo fiorentino lo inviò, in veste di accompagnatore di Francesco Soderini, vescovo di Volterra, in legazione presso di lui. Pochi mesi dopo, in ottobre, ebbe modo di tornare alla corte del Valentino per una seconda legazione. Infine lo incontrò un’ultima volta a Roma, tra ottobre e dicembre 1503, in occasione del conclave che avrebbe poi eletto papa Giulio II.
Negli scritti ufficiali di M. si trovano riferimenti a B. fin dalla missiva ai Dieci del 12 agosto 1500 (LCSG, 1° t., p. 426). Oltre a questi, vanno ricordati passi delle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, fatto un po’ di proemio e di scusa; i brani conclusivi del discorso sul Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; alcuni versi del primo Decennale; Il modo che tenne il duca Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia; il cap. vii del Principe, e brevi citazioni in altri capitoli della stessa opera e in altre opere.
Nel luglio 1499 Biagio Buonaccorsi riferiva a M. le notizie che giungevano dalla corte francese: il sovrano era impaziente di dare inizio alla conquista di Milano, il Valentino desiderava tornare a Roma, «di che espetta resposta dal pontefice, ché li ha mandato uno suo a posta per questo» (B. Buonaccorsi a M., post 20 luglio 1499, Lettere, pp. 16-17). L’atteggiamento del Valentino è interessante perché, almeno in questa fase, traspare la sua dipendenza dal padre. M. offre una lettura del ruolo del duca non così autonoma dal pontefice, come alcune ricostruzioni storiche hanno poi invece suggerito.
Quando M. partì per la legazione in Francia (luglio 1500), B. aveva già realizzato le sue prime conquiste.
Quale fosse il ruolo di Alessandro VI e quale quello di Cesare nell’occupazione della Romagna appare da subito chiaro a M.:
Ritràsi, oltra di questo, che ’l Pontefice con ogni instantia ricerca da questa Maestà favore per la impresa di Faenza, per aggiungerla a Furlì e Imola per il suo Valentinese; a che non s’intende el Re essere molto volto parendoli averli fatto benifizio assai (Prima legazione in Francia, M. alla Signoria, 12 ag. 1500, LCSG, 1° t., pp. 422-28, in partic. p. 426).
Il protagonista in questa fase è dunque Alessandro VI che si muove «con ogni instantia» presso il sovrano francese, mentre Cesare appare marginale, quasi passivo. Che il ruolo del papa fosse determinante viene riconfermato da M. il 2 ottobre: «qui si ragiona assai delle cose di Italia, più che d’altro, et massime di questa impresa del papa»; e ulteriormente ribadito: «tutto è concesso al pontefice», è lui il motore dell’impresa (Prima legazione in Francia, M. alla Signoria, 2 ott. 1500, LCSG, 1° t., pp. 478-82, in partic. p. 481). Le imprese di B. si svolgevano in Romagna, ma il palcoscenico sul quale si giocava il futuro delle sue aspirazioni era la corte di Francia, per gli accordi tra il pontefice e Luigi XII. La valutazione di M. sul ruolo svolto dal papa sembra correggere la visione, spesso proposta, di un Alessandro contrario alla scelta ‘laica’ di Cesare e sfavorevole ai suoi disegni, ma incapace di resistere alle pressioni del figlio. Solo più tardi, e in modo più evidente a ridosso della congiura della Magione, M. registrerà la piena assunzione di responsabilità di B. e ne descriverà le energiche capacità strategiche e politiche.
Nel 1501 M. continua a seguire con attenzione le mosse del Valentino, formalmente amico di Firenze, ma tuttavia da tenere sotto stretto controllo. Nel maggio di quell’anno, infatti, B. era penetrato nei domini fiorentini minacciando la Repubblica. Anche da Roma giungevano notizie di un suo coinvolgimento nelle scorrerie di Vitellozzo in Toscana; scriveva infatti Agostino Vespucci: «Vedreno quello seguirà; e se il Valentino tornerà qui, che ce ne è varie opinioni […] avendo mandato Vitellozo a fare quello che vorria ragionevolmente poter fare presenzialmente da sé» (A. Vespucci a M., 25 ag. 1501, Lettere, p. 40). Nel 1503, di nuovo in un momento di grave pericolo per Firenze, M. avrebbe ripercorso le tappe delle scorrerie borgiane in un vivido resoconto (cfr. le Parole da dirle sopra la provvisione del danaio).
Nell’estate del 1502, come si è detto, B. riprese le operazioni militari in Italia centrale. È in questo contesto che si inserisce la prima legazione al Valentino del vescovo Soderini, affiancato da Machiavelli. Gli inviati fiorentini, raggiunti durante il viaggio dalla notizia della resa di Urbino, rimanevano colpiti dalla rapidità e incisività dell’azione del duca:
El modo di questa vittoria è tutto fondato su la prudenzia di questo signore el quale, essendo vicino a 7 miglia a Camerino, sanza mangiare o bere, s’appresentò a Cagli, che era discosto circa miglia 35, e nel medesimo tempo lasciò assediato Camerino e vi fece fare correrie; sì che notino vostre Signorie questo stratagemma e tanta celerità coniunta con una estrema felicità (Prima legazione al Valentino, M. alla Signoria, 22 giugno 1502, LCSG, 2° t. pp. 230-32, in partic. p. 232).
M. prende in esame ogni singolo aspetto del profilo del duca: la «prudenzia», cioè la saggezza, la forza fisica («sanza mangiare o bere»), l’astuzia («questo stratagemma»), la rapidità d’azione («tanta celerità»), e soprattutto «una estrema felicità», una straordinaria fortuna.
A quel giudizio si aggiunge, pochi giorni dopo, l’impatto con la magnetica personalità del Valentino:
Questo Signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non li paia piccola; e per gloria e per acquistare stato mai si riposa, né conosce fatica o periculo. Giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si leva; fassi benevolere a’ suoi soldati; ha cappati e’ migliori uomini d’Italia. Le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile aggiunto con una perpetua fortuna (Prima legazione al Valentino, M. ai Dieci, 26 giugno 1502, LCSG, 2° t., pp. 237-48, in partic. p. 247).
La congiura della Magione è il contesto della seconda legazione di M. a B., dal 5 ottobre 1502 al 21 gennaio 1503. Le sue lettere da Imola, Cesena, Senigallia, Corinaldo, Sassoferrato, Gualdo Tadino, Assisi, Torgiano, Castello della Pieve e Castiglione Aretino, le sue dettagliate relazioni sui colloqui avuti con il duca, sugli avvenimenti di quei concitati giorni costituiscono un’importante fonte per la ricostruzione storica di questa complessa e delicata fase della vita del Valentino. Saggezza, forza, fortuna, astuzia sono elementi fondamentali del successo di Cesare. A questi va aggiunta la segretezza, quale atteggiamento caratteristico della sua azione di governo: «in questa Corte le cose da tacere non ci si parlano mai e governansi con un segreto mirabile» (Seconda legazione al Valentino, M. ai Dieci, 20 ott. 1502, LCSG, 2° t., pp. 377-80, in partic. p. 379). E ancora: «questo signore è secretissimo: né credo quello si abbi a fare lo sappi altro che lui» (M. ai Dieci, 26 dic. 1502, LCSG, 2° t., pp. 519-21, in partic. p. 520). Quando scattò la trappola di Senigallia, M. era accanto al Valentino.
Lo stesso giorno dell’eccidio, a tarda ora, fortemente impressionato, informava sommariamente dell’accaduto i Dieci (M. ai Dieci, 31 dic. 1502, LCSG, 2° t., p. 524). Più diffusamente ne scriveva, sempre da Senigallia, il giorno dopo, dando conto della morte violenta nella notte di Vitellozzo e di Oliverotto da Fermo e della prigionia degli Orsini, le cui sorti erano legate a quelle della consorteria a Roma e alle iniziative che avrebbe assunto il pontefice (M. ai Dieci, 1° genn. 1503, LCSG, 2° t., pp. 525-28).
Nella lettera del 12 gennaio 1503, M. ripercorreva con efficacia tutte le concitate vicende degli ultimi giorni (M. ai Dieci, 12 genn. 1503, LCSG, 2° t., pp. 549-54). Con poche discordanze, i fatti saranno narrati, a distanza di anni, nella celebre ‘memoria’ sul Modo che tenne il duca Valentino (in SPM, pp. 597-606).
Una lucida analisi della politica del Valentino in Italia, le cui strategie minacciavano pesantemente la Toscana, si può leggere nel discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (luglio 1503):
Chi ha osservato il duca vede che lui, quanto al mantenere gli stati che egli ha, non ha mai disegnato fare fondamento in su amicizie italiane, avendo sempre stimato poco i Viniziani, e voi meno; il che, quando sia vero, conviene che e’ pensi di farsi tanto stato in Italia che lo faccia sicuro per sé medesimo e che faccia da un altro potentato l’amicizia sua desiderabile. [...] e che egli aspiri allo imperio di Toscana, come più propinquo e atto a farne un regno con li altri stati che tiene ‒ [...] si giudica di necessità, sì per le cose sopradette, e sì per la ambizione sua (SPM, p. 465).
Le possibili conseguenze per il Valentino alla morte del pontefice erano da tempo oggetto di riflessioni alla corte del duca, e M. ne riferiva ai Dieci: «Questo Signore [il Valentino] conosce molto bene che il papa può morire ogni dì, e che gli bisogna pensare di farsi, avanti la sua morte, qualche altro fondamento, volendosi mantenere gli stati che lui ha». E con riferimento al contesto romano aggiungeva «questo Duca è necessitato a salvare parte degli Orsini, perché, morendo il papa, gli bisogna pure avere in Roma qualche amico» (Seconda legazione al Valentino, M. ai Dieci, 8 nov. 1502, LCSG, 2° t., pp. 426-30, in partic. pp. 427 e 429). Nel cap. vii del Principe sarebbe tornato ad analizzare i «modi» che B. aveva messo in atto per affrontare tale eventualità. Ne individuava quattro: «spegnere tutti e sangui di quelli Signori che lui aveva spogliati per tòrre al papa quella occasione», «guadagnarsi tutti e gentili uomini di Roma […] per potere con quelli tenere il papa in freno», «ridurre il Collegio più suo ch’ e’ poteva», «acquistare tanto imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto» (§§ 32-33). L’analisi è lucida: quelli erano i veri nodi politici che il Valentino avrebbe dovuto sciogliere prima della scomparsa del padre; ma è forse troppo unilaterale la conclusione che «solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia» (§ 42).
La morte improvvisa di Pio III, la convocazione di un nuovo conclave, ma soprattutto l’incerto destino della Romagna spingevano Firenze a inviare M. nuovamente a Roma. Apparivano già lontani i tempi nei quali tutta la politica ruotava intorno alle campagne del Valentino, i tempi delle sue conquiste fulminee e lontanissimi i momenti drammatici, feroci ma esaltanti dell’inganno di Senigallia. In attesa del nuovo conclave, M. restava colpito dall’immobilismo del Valentino («El duca si sta in Castello»), dalla sua incapacità di incidere sugli eventi e dal suo affidarsi alle speranze («e lui vive con questa speranza di essere favorito da el Pontefice nuovo»; Legazione presso la corte papale, M. ai Dieci, 30 ott. 1503, LCSG, 3° t., pp. 306-09, in partic. p. 308). M. non ha dubbi sull’esito del conclave: il candidato favorito era Giuliano Della Rovere. B. aveva un prezioso pacchetto di voti, quelli dei cardinali spagnoli: «el duca Valentino è intrattenuto forte da chi desidera esser papa, rispetto ad e’ cardinali spagnoli suoi favoriti […] tale che si crede che el papa che sarà, arà obbligo seco» (pp. 307-08). Poco prima dell’ingresso in conclave le probabilità a favore di Della Rovere erano ulteriormente cresciute, «perché s’intese dua nimici che lui aveva, ch’erano atti a torgliene, essere placati; e questi erano Roano e questi cardinali spagnoli amici del duca, che si erano al tutto gittati in suo benifizio» (M. ai Dieci, 1° nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 311). Nel Principe, M. stigmatizzerà l’allineamento di Cesare a Della Rovere: avrebbe potuto impedire l’elezione dell’eterno nemico dei Borgia e invece aveva commesso il fatale errore di offrirgli i voti dei cardinali spagnoli.
Ma già nelle lettere del 1503 M. aveva delineato con chiarezza l’imprevidenza di B., che incautamente si era fidato di Giuliano Della Rovere: «el duca si lascia trasportare da quella sua animosa confidenzia e crede che le parole d’altri sieno per essere più ferme che non sono sute le sue» (M. ai Dieci, 4 nov. 1503, LCSG, 3° t., pp. 321-24, in partic. p. 322). Il 6 novembre M. ebbe un incontro drammatico con il duca:
li comunicai questi avvisi, parendo così a proposito per vedere meglio dove lui si ritrovava e che temere o sperare si poteva di lui; e in summa, udita lui la nuova del castellano d’Imola e lo assalto de’ Vinitiani intorno a Faenza, si turbò sopra a modo e cominciò a dolersi cordialissimamente di vostre Signorie, dicendo che voi gli eri stati sempre inimici e che si ha da dolere di voi e non de’ Vinitiani […] e poiché Imola è persa, non vuole più mettere gente insieme né perdere el resto per riavere quello ha perso, e non vuole più essere uccellato da voi (M. ai Dieci, 6 nov. 1503, LCSG, 3° t., pp. 328-31, in partic. pp. 329-30).
La trasformazione di B., il suo atteggiamento rinunciatario colpiscono M. che, per sottrarsi a un colloquio divenuto penoso, prende rapidamente commiato dal duca. «A me non mancava materia da risponderli […] pure presi partito di andarlo addolcendo e più destramente che io posse’ mi spiccai da lui, che mi parve mill’anni» (M. ai Dieci, 6 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 330). Le prospettive del Valentino si andavano facendo, giorno dopo giorno, sempre più funeste: «Resta pertanto el duca così, e per i savi si fa di lui cattiva coniettura, che alla fine e’ non capiti male» (M. ai Dieci, 10 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 336). La sua credibilità era ormai irrimediabilmente crollata: «tale che ciascuno qui si ride de’ casi sua» (M. ai Dieci, 20 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 383). M. registrava tutto questo in modo distaccato, «perché queste cose del duca, poi che io fui qui, hanno fatto mille mutazioni; vero è che le sono sempre ite alla ingiù» (M. ai Dieci, 30 nov. 1503, LCSG, 3° t., p. 427).
Il suggello di una parabola che si chiudeva definitivamente veniva posto da M. il 3 dicembre: «e così pare che questo duca a poco a poco sdruccioli nello avello» (M. ai Dieci, 3 dic. 1503, LCSG, 3° t., p. 440), scivoli nell’oblio della morte.
M. lasciava Roma il 16 dicembre. Nelle sue ultime lettere la parabola del duca era ormai un corollario. Il Valentino, definitivamente emarginato dalla scena politica, usciva dunque anche dal raggio di interessi di Machiavelli. Sarebbe tornato prepotentemente solo molti anni dopo nelle sue opere maggiori. M. subì fortemente il fascino della personalità di B., senza però rinunciare a esprimere giudizi anche molto severi nei suoi confronti. Nondimeno lo prese a modello per il suo ‘principe nuovo’, fondatore o rifondatore di Stati, nel Principe (cap. vii) e nella corrispondenza: «Il duca Valentino, l’opere del quale io imiterei sempre quando io fossi principe nuovo» (M. a Francesco Vettori, 31 genn. 1515, Lettere, p. 350).
Bibliografia: Fonti ed edizioni critiche: Dispacci di Antonio Giustinian: ambasciatore veneto a Roma dal 1502 al 1505, a cura di P. Villari, 3 voll., Firenze 1876; M. Sanudo, I Diari di Marino Sanuto, a cura di F. Stefani et al., 1°-6° voll., Venezia 1879-1881; J. Burckard, Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII usque ad annum MDVI, a cura di E. Celani, in RIS2, 32.1, 1907-1910; De València a Roma. Cartes triades dels Borja, a cura di M. Batllori, prefazione di M. Prats, Barcelona 1998; G. Fantaguzzi, Caos, a cura di M.A. Pistocchi, Roma 2012.
Per gli studi critici si vedano: E. Alvisi, Cesare Borgia, duca di Romagna. Notizie e documenti, Imola 1878; L. von Pastor, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, 3° vol., Roma 19125, pp. 277-519; W.H. Woodward, Cesare Borgia. A biography, London 1913 (ed. in catalano Cèsar Borja, a cura di M. Toldrà e con prefazione di J. Benavent, València 2005); G. Sacerdote, Cesare Borgia. La sua vita, la sua famiglia, i suoi tempi, Milano 1950; G. Sasso, Machiavelli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma 1966; C. Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto, «Rivista storica italiana», 1967, 79, pp. 960-75, poi in Id., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 3-24; J.-J. Marchand, L’évolution de la figure de César Borgia dans la pensée de Machiavel, «Revue suisse d’histoire», 1969, 19, pp. 327-55; G. Sasso, Ancora su Machiavelli e Cesare Borgia, «La cultura», 1969, 7, pp. 1-36, poi in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 57-117; F. Gilbert, Borgia Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 12° vol., Roma 1970, ad vocem; E. Gusberti, Cesare Borgia in Machiavelli, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo», 1975, 85, pp. 179-230; Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, Atti del Convegno, Città del Vaticano 1999, a cura di M. Chiabò, S. Maddalo, M. Miglio et al., 3 voll., Roma 2001; Principato ecclesiastico e riuso dei classici. Gli umanisti e Alessandro VI, Atti del Convegno, Bari-Monte Sant’Angelo 2000, a cura di D. Canfora, M. Chiabò, M. de Nichilo, Roma 2002; Alessandro VI e lo Stato della Chiesa, Atti del Convegno, Perugia 2000, a cura di C. Frova, M.G. Nico Ottaviani, Roma 2003; Il Lazio e Alessandro VI. Civita Castellana, Cori, Nepi, Orte, Sermoneta, a cura di G. Pesiri, Roma 2003; Leonardo, Machiavelli, Cesare Borgia. Arte storia e scienza in Romagna 1500-1503, catalogo della mostra, Rimini, Castel Sismondo, Roma 2003; Le rocche alessandrine e la rocca di Civita Castellana, Atti del Convegno, Viterbo 2001, a cura di M. Chiabò, M. Gargano, Roma 2003; Cesare Borgia di Francia. Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa (1498-1503). Conquiste effimere e progettualità statale, Atti del Convegno di studi, Urbino 2003, a cura di M. Bonvini Mazzanti, M. Miretti, Ancona 2005; La fortuna dei Borgia, Atti del Convegno, Bologna 2000, a cura di O. Capitani, M. Chiabò, M.C. De Matteis et al., Roma 2005; Els fills del Senyor Papa. Cinquè centenari de la mort de Cèsar Borja (1507-2007), Actes del II Simposi internacional sobre els Borja, Valencia 2007, a cura di M. Toldrà, «Revista Borja. Revista de l’Institut internacional d’estudis borgians», 2008-2009, 2, nr. monografico; Á. Fernández de Córdova Miralles, J. Arrizabalaga, M. Toldrà, Cèsar Borja, cinc-cents anys després (1507-2007), València 2009.