Cesare Beccaria è il principale esponente dell’Illuminismo italiano. Dalla frequentazione di casa Verri e degli autori della rivista «Il Caffè», nonché dalle letture intense di testi soprattutto francesi, nacque l’opera giovanile Dei delitti e delle pene (1764) che laicizzava il diritto penale separando il concetto di peccato da quello di reato e proponendo una trasformazione radicale degli equilibri politici e istituzionali dell’antico regime. L’opera ebbe immensa fortuna europea, e costituisce un caposaldo del pensiero giuridico penalistico, dando voce a una concezione utilitaria e umanitaria che comportava l’abolizione della tortura e della pena di morte.
Cesare Beccaria nacque a Milano il 15 marzo 1738 da Giovanni Saverio e Maria Visconti di Saliceto. Di famiglia nobile, ma non di antica prosapia, né imparentata con i Beccaria di Pavia, ebbe due fratelli, Francesco e Annibale (Balino), e una sorella, Maddalena, andata poi sposa al conte Giulio Cesare Isimbardi. La sua educazione si svolse prevalentemente presso il Collegio de' nobili di Parma, tenuto dai gesuiti e frequentato anche dal primogenito e dai cadetti di casa Verri. Figurano tra i suoi docenti Gian Battista Roberti e Saverio Bettinelli, che ne apprezzarono gli eccezionali talenti e la disposizione per le matematiche. Nel 1758 si laureò in utroque a Pavia, pur, come d’uso, senza frequentare corsi universitari.
Episodi salienti della sua giovinezza furono l’amore e il matrimonio con Teresa Blasco, di rango sociale inferiore, cui si opposero i suoi genitori e che trovò in Pietro Verri, futuro mentore e maieuta dei suoi studi, un riferimento autorevole e fraterno che consentì di appianare il contrasto. Come il conflitto generazionale con la famiglia, l’appassionato legame con Teresa segna la trasformazione nei rapporti tra coniugi, verso un modello ispirato alla prevalenza del senso e del sentimento, che relegava nel passato il modello aristocratico del matrimonio quale strumento di alleanza strategica e patrimoniale tra le famiglie. Lo attestano le missive alla moglie, redatte subito dopo la partenza per Parigi in compagnia di Alessandro Verri nel 1766, dove lo chiamava l’eco europea del Dei delitti e delle pene: il 12 ottobre di quell’anno, da Lione, Beccaria vergò una pagina commossa e breve rivolta alla «cara mia sposa», in cui si dichiarava disposto a tralasciare il progetto parigino pur di «rivolare nelle tue braccia» – se non incombessero il timore del ridicolo e il senso della ‘missione’, che l’École de Milan, «la belle colonie que nous avons là-bas» (Voltaire), gli aveva imposto (Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, diretta da L. Firpo, poi da G. Francioni, 4° vol., Carteggio, a cura di C. Capra, R. Pasta, F. Pino Pongolini, 1994, pp. 438-39). La chiusa della lettera, «non credevo di amarti tanto», suona epigrafe di un rapporto travagliato, spento nel 1774 dalla morte di lei, da cui erano nati due maschi e la figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni.
«Le Erinni della sua fantasia», come le chiamerà più tardi Pietro Verri, non impedirono a Beccaria di segnalarsi tra gli ingegni del Milanese, dapprima con il saggio Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762 (1762), brillante e contestata operetta fondata sui testi di Richard Cantillon e Gian Rinaldo Carli, criticata dal marchese Francesco Maria Carpani e abilmente difesa da Pietro e Alessandro Verri nell’almanacco «Il gran Zoroastro» (ed. del 1762) e nel Dialogo tra Fronimo e Simplicio (1762).
Seguirono sette articoli per «Il Caffè» (1764-1766), di cui si segnalano I piaceri dell’immaginazione (1765, t. II, foglio VII) e l’immaginifico Frammento sugli odori (1766, t. I, foglio IV); quindi il capolavoro, Dei delitti e delle pene, in gestazione dagli inizi del 1763 entro la cornice dell’Accademia dei Pugni, attentamente rivisto da Pietro Verri, che ebbe parte nella stesura del cap. XXVI, Dello spirito di famiglia. Beccaria poté giovarsi nel lavoro delle competenze giuridiche del giovane Protettore dei carcerati, Alessandro Verri, estensore dei più densi articoli della rivista in materia.
La breve esperienza parigina del 1766 consumò la rottura con i Verri; ma segnò anche la distanza, psicologica e ideologica, di Beccaria dal mondo dei philosophes e dei salotti, quell’universo dell’apparire che Jean-Jacques Rousseau andava anatemizzando, come l’autore del Dei delitti e delle pene non poteva dimenticare.
Il rientro, definitivo, a Milano non comporta una grande storia. Dal dicembre 1768 al 1771 Beccaria resse la cattedra di Scienze camerali alle Scuole palatine di Brera, pronunziandovi una Prolusione (9 gennaio 1769) presto tradotta in francese e inglese. Delle Lezioni di economia pubblica raccolte dagli ascoltatori si attende da tempo l’edizione critica nel quadro dell’Edizione nazionale.
Il 29 aprile 1771 Beccaria entrò nella carriera amministrativa, dove avrebbe speso il resto della vita, quale consigliere del nuovo Magistrato camerale, presieduto da Carli. Nel 1786 fu posto a capo del Terzo dipartimento del Consiglio di governo (con compiti concernenti l’agricoltura, il commercio, la produzione manifatturiera e industriale); tre anni dopo passò al Secondo dipartimento, tornando così ai problemi giurisdizionali e di polizia. Tutte le consulte e gli atti di governo da lui prodotti si trovano nei volumi dell’Edizione nazionale, e mostrano l’operare di un intelligente funzionario, giunto ai vertici dell’amministrazione teresiano-giuseppina, occupato, oltre che di economia, di problemi attinenti all’educazione e alla povertà, alla disoccupazione dei tessitori comaschi colpiti dalla crisi serica (1786-87), al tema della disuguaglianza tra ricchi e miseri, frutto di una dimensione umanitaria che aveva trovato nell’Illuminismo francese, ma anche in Rousseau, vita e alimento.
Nel 1774, poco dopo la morte di Teresa Blasco, Beccaria sposò Anna Barbò, oculata custode delle non floride finanze familiari, da cui ebbe il figlio Giulio (1775), che trasmise il lascito paterno all’Ottocento. Morì a Milano il 28 dicembre 1794.
La fortuna internazionale del Dei delitti e delle pene è nota, come pure le sue fonti in prevalenza francesi, dall’Encyclopédie e Montesquieu a Rousseau, Helvétius, Buffon, Condillac, da John Locke a David Hume. Tale opera sancì la definitiva scissione della nozione di delitto da quella di peccato, laicizzando il diritto criminale e avviandone la trasformazione in ciò che Mario Pagano chiamerà la «scienza sociale». Ma in quel condensato estremo, la cui rilevanza teorica e politica nella cultura italiana è forse paragonabile al solo De principatibus (scritto nel 1513) di Niccolò Machiavelli, le basi stesse della società d’antico regime erano erose e sconvolte, delineando in alternativa una strategia possibile di alleanza con l’assolutismo in grado di svellere la centralità del privilegio, dare spazio ai diritti soggettivi, liberalizzare gli scambi e l’economia, espellere la tradizione teologico-canonistica dal vivere associato, consegnato ormai a una complessa nozione di incivilimento su basi antropologiche naturaliste e illuministe.
Testimonianza esemplare e fondante del droit politique per i suoi molti e appassionati lettori, il Dei delitti e delle pene contribuì a fissare i cardini della civiltà giuridica europea (e americana). Criteri quali la proporzionalità fra delitto e punizione, la responsabilità personale del reo (che non ne coinvolge la famiglia), la prontezza, l’inderogabilità e la moderazione delle pene, la non interpretabilità della legge sovrana, rinnovano e trasmettono valori per noi indiscutibili, congiunti al rifiuto della tortura (cap. XVI) e della pena di morte (cap. XXVIII), sostituibile con i lavori forzati, anche a vita. Dalla repressione/punizione, concepita tradizionalmente come espiazione di colpe spesso morali e religiose, l’accento si disloca sulla prevenzione dei delitti (cap. XLI), sull’educazione, sulla certezza del diritto contrapposta all’arbitrarietà dei giudici, sulla chiarezza e trasparenza del disposto normativo-procedurale, lungo prospettive già in qualche misura suggerite da Ludovico Antonio Muratori, ma qui nutrite dalla meditazione della philosophie.
Al centro del quadro sta il tema dell’utile pubblico e comune, congiunto al grande mito settecentesco «della maggior felicità divisa per il maggior numero», e il conseguimento di una società «tranquilla e sicura» in grado di ridurre la distanza fra governanti e governati, retta da un principe assoluto ma votato al soddisfacimento degli interessi e dei bisogni di sudditi-cittadini, titolari di diritti inalienabili e compartecipi di un progetto unitario di incivilimento. Le grandi linee teoriche del «libriccino» (Manzoni) sono poi confortate da spunti innumerevoli di critica verso l’antico regime: dall’esigenza primaria dell’uguaglianza di fronte alla legge (cap. XXI) alla denuncia del privilegio nobiliare ed ecclesiastico e del diritto d’asilo (cap. XXXV), ormai sentito come lesivo della sovranità; dal rifiuto dei giuramenti (cap. XVIII) e delle accuse segrete (cap. XV) a quello delle grazie (cap. XLVI), che diversamente configurava una prerogativa del re-legislatore, non più modello di virtù cristiane e morali, ma garante dell’ordinato funzionamento di procedure formalizzate.
Ma ciò che più resta impressa nel lettore è la carica appassionata dell’opera, la suggestione di uno stile che «fa più viaggio di quel che suona», la tensione di una prosa che seppe trovare «un punto d’incontro tra il calcolo razionale ed utilitaristico e la comprensione profonda, umanitaria, sentimentale» (Venturi 1965, p. 461).
La sostanziale coerenza del pensiero di Beccaria riemerge nella grande consulta (Voto) del 1792 sulla pena di morte, in cui la relazione di minoranza, da lui vergata con Paolo Risi e Francesco Gallarati Scotti, ribadiva la contrarietà alla pena capitale, salvo il caso, eccezionale, di crimini in grado di rovesciare lo Stato. Posizione analoga a quanto già espresso nel Dei delitti e delle pene, cap. XVI, ove l’opposizione all’ultimo supplizio contemplava la sua applicazione nei casi di degenerazione anomica delle regole e degli istituti della convivenza e in quello, complementare, del singolo attore in grado di sovvertire per la sua qualità e potenza l’ordinamento politico.
A tali condizionamenti del rifiuto beccariano di spingere all’estremo il diritto di punire si riallacciarono quanti contribuirono in epoca fascista a reintrodurre la pena capitale nell’ordinamento. Ma la posizione di Beccaria va meglio chiarita e circoscritta: la minaccia del disordine assoluto, foriero del crollo della convivenza e della pace, riflette il timore della stasis, il collasso fazionario del conflitto civile, vivo nella politica greca e nella tradizione dell’antico regime. Come tale, l’eliminazione fisica del nemico esula dalla legge e attesta, piuttosto, il riemergere della violenza come unico nucleo della lotta per il potere, disvalore di sapore quasi hobbesiano. Quanto alla personalità pubblica in grado di distruggere lo Stato, e in quanto tale da sopprimere legalmente, essa è forse retaggio di letture machiavelliane diffuse nell’Illuminismo milanese e appartiene essa pure alla sfera dell’anomia, di segno opposto alla bene ordinata società, retta da principi e leggi ragionevoli, che in Beccaria acquista virtualità costituzionali: anche qui in sintonia con i percorsi dei lumi in Lombardia, come mostrano gli scritti politici del maturo e tardo Pietro Verri.
Il Beccaria alto funzionario appare diverso dall’anima irrequieta e giovane che fece di lui il «difensore dell’umanità», simbolo e mito dell’Illuminismo europeo. Dall’uneasiness che fu sua, dall’apatia e dal disincanto lo trassero in primis le Lettres persanes (1721) di Montesquieu, l’«immortale Presidente» che scisse ogni disamina di leggi e comportamenti sociali da dogmatismi e teologie. Accanto all’autore dell'Esprit des lois (1748), titolare di larghissima fortuna nella penisola, la celebre lettera al traduttore francese del Dei delitti e delle pene, André Morellet, del 26 gennaio 1766 (Edizione nazionale, 4° vol., cit., pp. 219-27) adunava tra le fonti ispiratrici gli spiriti magni della philosophie, da d’Alembert a d'Holbach e Denis Diderot, dal sensismo di Condillac e Buffon al grande Hume, a Claude-Adrien Hélvetius, dal cui libro De l'esprit (1758), presto condannato dall’Inquisizione e dalle autorità laiche parigine, Beccaria trasse linfe vitali, che ne plasmarono al contempo l’utilitarismo e la difesa dei diritti soggettivi, esito anche del giusnaturalismo di lingua francese, riassumibile nei nomi di Jean-Jacques Burlamaqui e dell’«umanissimo» Emmerich de Vattel.
Quella pagina autobiografica taceva, però, il nome di Rousseau, da almeno un decennio in rotta con il razionalismo postnewtoniano degli enciclopedisti. L’impronta del ginevrino fu profonda e incancellabile. Beccaria non accolse mai l’idea di un'alienazione totale dei singoli e dei popoli alla sovranità dello Stato, né la prospettiva di un declino dei costumi e della civiltà a partire dalle origini, che solo il riscatto tramite la politica avrebbe potuto invertire. Pure, egli apparve a uno dei più acuti tra i suoi confutatori, Ferdinando Facchinei, «il Rousseau degli Italiani», un «socialista», capace solo di distruggere l’ordinato sistema di gerarchie teologicamente sancite della tradizione. Facchinei coglieva il senso tutto politico dell’Illuminismo, e di quello di Beccaria in particolare.
Nella sua opera, Beccaria esitò tra ragione e sentimento, avvertì che a suo modo l’autore del Contrat social (1762) e della Nouvelle Heloïse (1761) apriva inedite vie all’esperienza umana, altre rispetto all’assolutismo riformatore, cui pure Beccaria contribuì fattivamente. Forse, tra Hélvetius e Rousseau egli non seppe compiutamente scegliere. E rattrista ripensare a quei suoi libri tanto amati, scelti e acquistati sistematicamente tra gli anni Sessanta e il 1771 e densi di titoli proibiti (da Ralph Cudworth a Thomas Hobbes, a Baruch Spinoza) rivenduti poi, l’11 luglio 1777, alla filiale milanese dei librai Reycends.
Beccaria non costruì un ‘sistema’; ma fu certo dotato di esprit systématique: tentò, cioè, di ricondurre a una tessitura unitaria le componenti disarmoniche del suo pensiero. Ne scaturirono le Ricerche sulla natura dello stile del 1770 (la seconda parte apparve postuma nel 1809), nonché la riflessione sull’incivilimento, affidata agli incompiuti Pensieri sopra la barbarie e coltura delle nazioni e ad altri frammenti, che ricomponevano filosofia e filologia in una sorta di incompleta, potenziale sociologia della convivenza: secondo la lezione di Locke, Montesquieu, Hélvetius, dello stesso d’Holbach – che con Beccaria corrispose –, ma anche delle risonanze della teoria stadiale di Adam Ferguson, mediate dal pensiero dei francesi.
Egli restò immune, però, dal mito ingenuo del ‘progresso’, contrapponendovi il senso drammatico della complessità del reale e delle sue dinamiche, «il luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre alla luce» (Dei delitti e delle pene, cap. XLII), il dubbio sulla legittimità del sacrificio della generazione presente al benessere e alla felicità delle future. Ritroviamo qui un nucleo di verità che riconduce di nuovo al centro dell’Illuminismo, alle cautele epistemologiche e di metodo del Discours preliminaire (1751) di d'Alembert per l’Enciclopedia, alle ragioni del dubbio, ai limiti e alla fallibilità della raison, il cui riconoscimento impone la tolleranza; accanto alle rivendicazioni rousseauiane dei diritti e della sanità del cuore, prossimo al tema della perfectibilité, ritroviamo i «passi lenti», storicamente determinati in assenza di ogni teleologia, con cui, già secondo Robert-Jacques Turgot, l’umanità migliora. Ma netta resta in Beccaria la convinzione che l’incivilimento sia cosa fragile, rischiosa, esposta a sfide che possono rivelarsi incontrollabili. È questo uno dei suoi lasciti più duraturi.
Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano nell’anno 1762, Lucca 1762.
Dei delitti e delle pene, Livorno 1764, Harlem [Livorno] 1766; si vedano inoltre le seguenti edizioni: Dei delitti e delle pene, in Illuministi italiani, a cura di F. Venturi, 3° vol., Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, pp. 1-211; Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Torino 1965.
Ricerche sulla natura dello stile, Milano 1770.
Opere, a cura di S. Romagnoli, 2 voll., Firenze 1958; si vedano in particolare: Prolusione letta il giorno 9 gennaio 1769 nell’apertura della nuova cattedra di scienze camerali nelle Scuole palatine di Milano, 1° vol., pp. 361-77; Elementi di economia pubblica, nel 1° vol., pp. 379-649; Voto degli infrascritti individui della Giunta delegata per la riforma del sistema criminale nella Lombardia austriaca riguardante la pena di morte (in collaborazione con T. Gallarati Scotti e P. Risi), 2° vol., pp. 735-41.
Edizione nazionale delle opere di Cesare Beccaria, diretta da L. Firpo, poi da G. Francioni, 15 voll., Milano 1984-2009; si veda, in particolare: Pensieri sopra la barbarie e la coltura delle nazioni, 2° vol., Scritti filosofici e letterari, a cura di L. Firpo, G. Francioni, G. Gaspari, 1984, pp. 282-92. All’Edizione nazionale mancano solo il 3° vol. (Scritti economici) e il volume degli indici.
C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze 1862.
M. Mirri, La cultura svizzera, Rousseau e Beccaria, in Atti del Convegno internazionale su Cesare Beccaria: Torino, 4-6 ottobre 1964, Torino 1966, pp. 33-239.
F. Venturi, Beccaria Cesare, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 47° vol., Roma 1970, ad vocem.
G. Barone, Etica e politica nell’utilitarismo di Cesare Beccaria, Napoli 1971.
Cesare Beccaria tra Milano e l’Europa, Atti del Convegno di studi per il 250° anniversario della nascita, Milano 1989, a cura di S. Romagnoli, G.D. Pisapia, Milano-Roma-Bari 1990.
P. Audegean, La philosophie de Beccaria. Savoir punir, savoir produire, Paris 2010.