CERUTTI (Ceruti, Cerruto)
Nati a Chieri da Gaspare e da una figlia del pittore Francesco Fea, i fratelli Antonio e Giovanni Francesco, data la consuetudine di lavoro nella bottega del nonno, venivano abitualmente indicati con i cognomi di C. o di Fea, come è ampiamente documentato nei pagamenti riportati in Schede Vesme (cui ci si riferisce se non diversamente indicato). Da un censimento del 1644 i due pittori, "Antonio e fratello Cerruti", sono indicati come abitanti ad Albuzzano, località della collina chierese, ed è precisata per Giovanni Francesco l'età di ventisette anni.
La loro attività in qualità di pittori della corte ducale a Torino è registrata fin dall'anno 1638 (ma probabilmente sono loro i "due lavoranti" di Francesco Fea del 1633) in documenti che si riferiscono a opere per buona parte perdute (per es., pagamenti del 1638-39 e 1643 per "pitture nella camera di S. A. R. nel castello di questa città" ovvero palazzo Madama). Dal confronto con il successivo intervento in palazzo reale a Torino, non è difficile ipotizzare che si trattasse di opere scenografiche decorative, inserite nella tradizione dell'ultimo manierismo, culminato nella decorazione per la grande galleria di Carlo Emanuele I, su programma di F. Zuccari, con la partecipazione del Moncalvo e dell'Arbasia, e in cui era appunto intervenuto anche il nonno Francesco Fea. La medesima cultura manieristica, dominata dai modi del Moncalvo, dell'Arbasia e dell'Alberini, è ancora fortemente evidente nell'unica tela superstite, firmata Antonio Fea del 1646, con l'Annunciazione, per l'altare maggiore dell'orfanotrofio di Chieri, da ricondursi per lo stile ai risultati perduranti di Francesco Fea. Sono perduti gli affreschi del 1647 nella volta dell'anticamera del castello di Moncalieri, ricostruito da Carlo Emanuele I su disegno di C. di Castellamonte e in seguito ristrutturato (ora sede del Comando dei carabinieri); così pure sono andati perduti gli interventi nella camera di parata, nella prima anticamera, nella camera grande dello stesso castello: dai pagamenti è dato rilevare che si trattava di un insieme notevole.
Un pagamento del 1649 riferisce di una pittura prospettica per un orologio, concordata con il padre Giuglaris, committente legato alla casa ducale. A questo stesso tipo di attività si connette il documento del 1652 in cui i fratelli C. ricordano a Carlo Emanuele II di aver sempre dipinto le armi del duca per le torciere di parata nelle chiese di Chieri, e auspicano nuove commissioni. Al 1657 risalgono lavori di cornici e "quadri di paesi" nella camera e alcova di Madama Reale, con soffitto a rose e gigli di Francia. A Chieri nel 1658 ricevettero la commissione di quadri per la cappella delle Grazie nel duomo, in ricordo della peste del 1630, su soggetto dettato da E. Tesauro.
La collocazione del C. è strettamente legata alle richieste della committenza ducale, e va inserita nei programmi organizzati dal Tesauro per i palazzi ducali a cui attendevano gli architetti Carlo e Amedeo di Castellamonte. In questo ambito rivestono preciso interesse anche le tele con scenografie e stemmi per i tornei e le giostre ducali in piazza Castello; e nel 1660 il disegno e la fattura di "archi trionfali" per le nozze della principessa Margherita.
La conoscenza della loro attività, perduti i lavori al castello di Racconigi e l'affresco con il Beato Amedeo nella chiesa della Consolata, distrutte le decorazioni nella vigna di Madama Reale (1658-59), quelle del 1664 al casino del Bastion Verde, si basa ora esclusivamente sugli affreschi superstiti del grande salone degli Svizzeri (salone d'ingresso) in palazzo reale a Torino (pagamenti dal 1660) con iconografie probabilmente affini a quelle dei perduti affreschi di Moncalieri, con riferimento a genealogie dinastiche ricavate dall'opera di E. F. Pingone. Lo stato di conservazione del salone degli Svizzeri, nonostante i restauri che si sono susseguiti nel 1716, nel 1842 e nel 1950 (con una pulitura essenzialmente conservativa), permette una piena leggibilità. L'opera risente ancora, sia pure attraverso svolgimenti barocchi, dei risvolti accademici del manierismo dello Zuccari, a cui si legava la grande galleria di Carlo Emanuele I, e dei lombardi attivi nei castelli tra Rivoli, Moncalieri, Torino.
La descrizione che di tali affreschi ci fornisce Rovere (1858) va integrata con quella di A. Tesauro (Inscriptiones..., Taurini 1666, pp. 142-148). Ancora una volta fondamentale testimonianza del rapporto intercorso tra il letterato, principe della retorica barocca, e le équipes dei pittori attivi alla decorazione delle residenze ducali, la diffusa descrizione si sofferma sui minimi particolari iconografici delle glorie sassoni a cui la storiografia seicentesca faceva risalire l'origine sabauda. Nella fascia i personaggi protagonisti sono individuati con gli stemmi relativi e con le relative iscrizioni latine, stese appunto dal Tesauro combinando citazioni erudite. Ogni riquadro è delimitato nell'affresco dalle figure allegoriche delle province cui si riferisce il dominio del personaggio raffigurato, mentre le due figure a cavallo rappresentano Vitulfo re degli Svevi e Federico, con le allegorie dei fiumi della Sassonia.
Il riferimento storico e critico a un disegno iniziale di mano dell'incisore ducale G. Boetto (che risulta dal contratto del 1660, pubblicato dal Vesme) può avere un senso, se rapportato alle tavole incise da questo con personaggi storici sabaudi destinati alle illustrazioni delle tesi di laurea (si veda l'incisione per la tesi di C. F. Nicolis di Robilant, 1634). Senonché nelle incisioni del Boetto la parte architettonica appare emergente rispetto a quella negli affreschi del C., per una insistenza illusiva di origine caravaggesca, mentre l'affresco in palazzo reale rivela unicamente la citata cultura tardomanieristica della tradizione degli Zuccari rinvigorita con il programma allegorico del Tesauro. Così hanno meno spicco i particolari nelle scene delle battaglie a sfondo delle singole figure, che sono nel Boetto dichiaratamente dedotti dai tipi del Callot; per mano del C. hanno per contro maggior risalto i cartigli retorici e i panneggi delle figure allegoriche. La celebrazione dinastica consona ad un programma ben organizzato culminava nel soffitto dipinto da C. C. Dauphin ora perduto (è stato sostituito nel 1835-40 su disegno di Pelagio Palagi).
Né va dimenticata una commissione importante che risale al 1661 e coinvolge i C. con il miniatore, calligrafo e grafico G. T. Borgonio per una pianta della città di Chieri da inserirsi nell'edizione di Amsterdam del Theatrum ... Sabaudiae (1682).
Dai documenti editi dal Vesme (Manoscritti Vernazza) si ricava che Antonio morì nell'anno 1665, mentre Giovanni Francesco era ancora attivo in palazzo reale nel 1679 - quando furono riparate le sale dopo un incendio - con Carlo Francesco, forse figlio di Antonio. "Carlo Francesco Ceruto Fea" era stato nominato nel 1663 aiutante di camera dal principe di Carignano. Probabilmente la sua opera è andata distrutta durante i rimaneggiamenti che videro attivo nel palazzo, al tempo di Guarini, il lombardo Stefano M. Legnani, detto il Legnanino.
Fonti e Bibl.: Schede Vesme, II, Torino 1966, pp. 458-61, sub voce Fea; G. Casalis, Diz. geografico ..., X, Torino 1840, pp. 519 s.; C. Rovere, Descriz. del Real Palazzo di Torino, Torino 1858, pp. 14. 21 s., 32 s., 93; A. Bosio, Memorie storico-religiose di belle arti del duomo e delle altre chiese di Chieri, Torino 1878, pp. 80 s.; M. Bernardi, Il palazzo reale di Torino, Torino 1959, pp. 44s.; A. Griseri, in Mostra del barocco piemontese, Torino 1963, II, Pittura, p.29; A. Peyrot-G. Sineo, Moncalieri nei secoli, Notizie stor. e iconografia, Torino 1969, pp. 63, 121; S. Caselle, La chiesa delle Orfane di Chieri, in Boll. della Soc. piem. di archeol. e belle arti, n. a., XXX-XXXI (1976-1977), pp. 102-112.