certezza
Nella storia della filosofia si incontrano sostanzialmente due significati di c., uno soggettivo, come sicurezza da parte del soggetto della verità di una conoscenza acquisita, e uno oggettivo, come garanzia che quella data conoscenza è vera. Rispetto a questo secondo aspetto, la tradizione filosofica si differenzia nell’individuare la fonte della conoscenza. Chi privilegia le facoltà razionali come fonte di conoscenza ripone tutta la c. in queste ultime, chi, invece, privilegia le facoltà sensibili attribuisce a esse il potere di offrire una conoscenza certa.
Al primo significato si ricollegano le posizioni di esponenti della filosofia presocratica, come Pitagora, e poi soprattutto Platone, che riponeva la c. solo nella conoscenza di cose stabili, vale a dire le idee, e privilegiava a tale scopo gli strumenti matematici, la geometria in partic. (secondo una accreditata tradizione all’ingresso dell’Accademia platonica campeggiava la scritta «nessuno entri che sia digiuno di geometria»). Conseguentemente, in base al principio «solo la mente vede», i sensi non erano giudicati fonte di conoscenza, ma di errore. Questa dottrina caratterizzerà tutta la tradizione platonica successiva, dal neoplatonismo al platonismo medievale e rinascimentale. La posizione di Aristotele è più complessa. Da un lato, infatti, Aristotele fa risiedere la c. nel solo ragionamento apodittico, cioè nel sillogismo, ma non respinge affatto l’apporto della conoscenza sensibile, anzi sostiene che ciascun senso è affidabile limitatamente al suo campo di azione. Una posizione identica è assunta dagli stoici, che da un lato ripongono la c. nel valore assiomatico della nuova logica proposizionale, dall’altro nell’evidenza della rappresentazione catalettica che ci spinge all’assenso. Gli epicurei, invece, ripongono la c. unicamente nella percezione sensibile, che ci offre i simulacri degli oggetti esterni, mentre fanno mostra di scetticismo verso le facoltà razionali che, sovrapponendosi ai dati sensibili, sono giudicate la vera fonte dell’errore. Con l’avvento del cristianesimo entra in gioco un nuovo fattore, legato alla rivelazione e alla fede. Il principale argomento di Agostino a favore della c. dell’autocoscienza (argomento, peraltro, avanzato contro lo scetticismo accademico, che egli conosceva attraverso Cicerone), non è di natura religiosa, ma è basato sulla intuizione immediata di me stesso come essere pensante: «si fallor, sum» (La città di Dio, XI 26). L’argomento presuppone la platonica identità di pensare ed essere, e non a caso costituisce il precedente immediato del cogito cartesiano, con cui inizia la filosofia moderna, che si libera gradatamente da istanze di natura religiosa puntando decisamente sulle potenzialità del soggetto. Di natura più oggettiva, e ancorata alla rivelazione, di cui si tenta una sintesi con la ragione, è la posizione di Tommaso d’Aquino, che distingue una c. delle verità di fede, basata sull’accettazione volontaria dell’autorità di Dio che ce le rivela, e una c. delle verità di ragione, fondata sull’evidenza. Tommaso, peraltro, fedele alla tradizione aristotelica e critico del platonismo, anche di quello agostiniano, non ha mai svalutato l’apporto della conoscenza sensibile.
In epoca moderna Cartesio, fissando il criterio dell’evidenza (prima regola del Discorso sul metodo), fa della c. il principio stesso della verità e unifica gli aspetti soggettivo e oggettivo del concetto nella c. immediata del cogito («haec cognitio, ego cogito, ergo sum, est omnium prima et certissima», Principi della filosofia, I, 7). Fonte della verità e quindi della c. è lo spirito (esprit), la mente, ossia l’anima razionale, che ‘decifra’ per mezzo delle sue idee innate chiare e distinte il confuso contenuto informativo offerto dai sensi, comprendendo per mezzo della sola facoltà di giudicare, che risiede nella mente, ciò che credeva di vedere cogli occhi (Seconda meditazione). L’identità cartesiana di verità e c. permane in Locke, che vi aggiunge la distinzione fra una c. della verità, o adeguazione fra parole e idee, e una c. della conoscenza, come accordo o disaccordo tra le sole idee. Leibniz opera una distinzione fra c. assoluta, sostanzialmente comprensiva delle due specie distinte da Locke, e c. morale, conseguibile attraverso le prove delle verità religiose. Occorre precisare, tuttavia, che in Locke, come poi in Hume, le «idee» sono copie ‘illanguidite’ di sensazioni vivaci, e quindi la conoscenza fonte di c. poggia sui sensi. In Leibniz, al contrario, fonte della chiarezza e quindi della c. può essere solo l’intelletto, e quindi all’interno delle idee bisogna distinguere le idee chiare della ragione dalle idee confuse provenienti dai sensi. Non a caso la c. riguarda essenzialmente le ‘verità di ragione’, fondate sul principio di non contraddizione, e non le ‘verità di fatto’, perché il contrario di una verità di fatto è sempre concepibile (i due tipi di verità possono coincidere solo in Dio). Una distinzione analoga, ma di nuovo sulla base empiristica di Locke, si ritrova in Hume, per il quale la c. è offerta solo dalla logica e dalla matematica, fondate sul principio di non contraddizione. Tutto il resto, compresi gli stessi ‘ragionamenti sperimentali’ sulle materie di fatto, cade nel campo della probabilità. Meno che mai, secondo Hume, possiamo essere certi della corrispondenza delle nostre percezioni agli oggetti esterni. Su questo punto in partic. si appunterà la critica della scuola di senso comune di Reid, che fonderà la c. sulla distinzione fra sensazioni soggettive (odori, sapori, ecc., variabili da individuo a individuo) e percezioni, per le quali esiste sempre un riscontro oggettivo che possiamo indicare ostensivamente, e che ci dà la c. che non stiamo sognando o delirando.
La nuova fase nella storia della filosofia moderna è caratterizzata dal superamento dell’impostazione cartesiana, che avviene sotto un duplice profilo. Da un lato, una nuova impostazione del problema della c. si registra con la filosofia di Vico, che contro la cartesiana identificazione di c. e verità distingue il vero, identificato con il fatto, dal certo, fondato sull’autorità dell’umano arbitrio e legato alla sfera del probabile. Il vero e il fatto coincidono nella storia, che diverrà nell’idealismo classico tedesco il nuovo oggetto di interesse della filosofia. Dall’altro, il cogito cartesiano, ancora legato ai principi della logica formale classica, viene trasformato da Kant nell’Io penso, il soggetto e il centro propulsore della nuova logica trascendentale. Le condizioni della c. diventano in tal modo quelle dei fattori trascendentali della conoscenza, vale a dire le categorie. La caratteristica di questo nuovo tipo di c. è quella di essere solo una certezza ‘formale’, quale ci garantisce la conoscenza di una natura formaliter spectata, ossia considerata solo sotto l’aspetto formale. In altri termini, l’unica c. che abbiamo è che la natura agisce secondo la legge di causa ed effetto (e quindi secondo l’irreversibilità della ‘freccia del tempo’). L’accertamento delle reali connessioni causali e delle cause reali dei fenomeni è inevitabilmente soggetto a variazioni nel tempo, perché una conoscenza della natura nella sua totalità non è un dato acquisito per sempre, ma solo un ideale della ragione. Pensare il contrario significa accontentarsi di una falsa c., quella che Kant studia e critica nella Dialettica trascendentale e che consiste nelle idee di Anima, Mondo e Dio, altrettante ipostatizzazioni di funzioni logiche trascendentali, che a nulla approdano senza l’ausilio della sensibilità. Di questa ‘falsa c.’ andrà invece alla ricerca la filosofia dell’idealismo classico tedesco, Hegel in particolare, che non a caso costruisce tutto il suo sistema in opposizione a quello di Kant. Anche Hegel individua i limiti della filosofia prekantiana nell’uso esclusivo della logica formale, ma diversamente da Kant l’arricchimento non è costituito dalla logica trascendentale, ma dalla logica dialettica, cioè da una ‘teo-logica’, che attraverso una serie di categorie logiche in realtà espone Dio «nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito». L’apporto della sensibilità, diversamente da Kant, è rifiutato, e anzi il primo capitolo della Fenomenologia dello Spirito è espressamente dedicato alla ‘critica’ della c. sensibile, recuperando tutti i tropi dello scetticismo antico contro la stessa. E così, passo dopo passo, Hegel restaura tutti gli oggetti della vecchia metafisica prekantiana. L’elemento di novità è rappresentato dall’irruzione della storia, che tuttavia viene considerata, nel più puro spirito dell’agostinismo, un veicolo di salvezza, anche se intramondana.
Dopo Hegel il problema della c. sarà presente nella filosofia di Husserl, che vedrà nel concetto di Erlebnis (➔) la radice di una «scienza rigorosa» e l’unica cura contro la «crisi delle scienze europee». Husserl ha considerato il fenomeno della c. come originario e l’ha chiamato Urdoxa o Urglaube (Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, I, § 104). Heidegger, nel quale riemergono i temi principali della filosofia hegeliana, ha distinto due significati di c., che corrispondono a quello soggettivo e oggettivo, e cioè «l’essere certo come modo d’essere dell’Esserci» (ossia c. dell’uomo) e la c. dell’«ente di cui l’Esserci è certo», che è derivata dalla prima (Essere e tempo, § 52). Nella filosofia contemporanea, infine, il problema della c. è strettamente connesso alla definizione di conoscenza come credenza vera e giustificata (➔ verità).