Cerimoniali
Come in epoca precedente, anche fra Seicento e Settecento a Venezia le principali feste pubbliche definiscono con forza le forme e i limiti della coesione e del dialogo fra le componenti cittadine così come tali forme e limiti sono desiderati dagli ideali del potere politico. Le cerimonie mantengono, da una parte, una grande capacità non solo spettacolare ma concretamente sociale di agire verso la convivenza armonica della popolazione, e dall’altra il contro-bilanciamento delle tensioni che possono nascere al suo interno. La dialettica fra mantenimento della tradizione e assorbimento di nuove istanze — dialettica tipica della festa rinascimentale veneziana — è mantenuta con efficacia, garantendo alle cerimonie pubbliche la dinamicità necessaria a contenere e assorbire le conseguenze del trascorrere storico.
È certamente vero che mancano grandi spinte simili a quelle che in epoca precedente hanno caratterizzato, per esempio, le cerimonie del doge, fin dai tempi del nascere del comune, del definirsi del rapporto con la basilica di San Marco e del gioco contrastato con gli esempi bizantini. Si pensi inoltre al Cinquecento, periodo nel quale alle tentate riforme cerimoniali e architettoniche del doge Andrea Gritti ha fatto seguito un notevole assestamento dei riti dei dogi e del controllo su di essi. Ma il rigurgito di fasto caratteristico dell’ambiente dogale nella seconda metà dello stesso secolo non resterà senza traccia nella tradizione festiva successiva, come vedremo. E nel Seicento pure sopravvivono elementi peculiari dei grandi cortei civici dei secoli precedenti, come l’incontro fra valori religiosi e potere aristocratico, e il rapporto fra spazio e processionalità e fra ordine processionale e gerarchie comunitarie.
Vi sono poi le accoglienze agli ospiti stranieri, un tipo di cerimonialità al quale si dona crescente attenzione nel corso del Cinquecento, ma che aumenta ancor più nel secolo successivo. Ad esempio, dai primi anni del secolo XVII lo spazio dedicato nei libri cerimoniali a tali ricevimenti diventa preponderante rispetto a quello di altri rituali, a indicare, come si vedrà, un continuo, spasmodico e puntiglioso desiderio di confronto con inviati di culture «altre».
C’è infine la festa dell’Ascensione, una festa dai contenuti molteplici e complessi, retaggio di riti propiziatori primaverili, ispirata a un concetto di spazio territoriale comunale e medievale che indica nel mare il vero limes cittadino, condizionata da ancestrali usanze pagane e bizantine, e accompagnata da una fiera che crea la possibilità di una fusione fra istanze festive propagandistiche e istanze mercantili. Una festa però condizionata, a partire dall’età moderna, soprattutto dall’elemento politico, cioè dalla sua capacità di esprimere il possesso della Repubblica veneziana sul mare Adriatico, e di costituirsi come possibile strumento polemico contro altri poteri che rivendicano lo stesso possesso, cioè il papato e gli Asburgo (1).
Su queste caratteristiche festive ereditate dal passato, e oggetto talvolta di amplificazioni ulteriori, nel periodo che osserveremo (1630-1720) si innestano nuove scosse e lenti adeguamenti, grandi avvenimenti effimeri e cambiamenti duraturi, tutti fenomeni che costringono lo storico ad avvicinarsi con cautela alle continuità e discontinuità provocate dal dialogo fra il tempo e la volontà degli uomini di trovare eccezionali momenti d’incontro nello scenario urbano.
Una delle grandi eredità della tradizione festiva di Venezia è l’esteso calendario civico e le processioni che accompagnano ogni scadenza. Le giornate osservate nei decenni iniziali del Seicento sono il 1º febbraio (andata dogale a Santa Maria Formosa in ricordo della festa delle Marie), i riti pasquali (in particolare l’andata a San Zaccaria il giorno di Pasqua), l’ottava di Pasqua (visita a San Gemignano, a causa di un antichissimo obbligo contratto dal doge verso il papa), il Corpus Domini, il 15 giugno (andata a San Vio in ricordo della congiura di Baiamonte Tiepolo), il 17 luglio (visita a Santa Marina in ricordo della riconquista di Padova nel 1512), la terza domenica di luglio e il 16 agosto (visite al Redentore e a San Rocco in ringraziamento della fine della peste del 1576), il 7 ottobre (visita a Santa Giustina per celebrare la vittoria di Lepanto), e il 25-26 dicembre (visita a San Giorgio in ricordo dell’arrivo a Venezia del corpo di santo Stefano).
L’epoca barocca non può però astenersi dall’inaugurare nuove occasioni per esprimere la peculiare religiosità dogale e aristocratica, e riunire la società civile, soprattutto le sue componenti «rappresentabili», in giornate di preghiera e letizia collettiva. La più importante è certo l’andata dogale alla Salute, decretata il 22 ottobre 1630 assieme alla costruzione di una nuova chiesa votiva per auspicare la liberazione dalla peste, e da inserirsi nell’intensa attività devozionale predisposta da governo e patriarca nei mesi drammatici del morbo e della guerra della successione di Mantova, mesi di gravi difficoltà internazionali ed economiche della Serenissima (2). L’andata viene compiuta per la prima volta il 21 novembre dell’anno seguente. L’occasione è la posa della prima pietra della nuova chiesa, ma il senato aggiunge che l’andata dovrà d’ora in poi essere osservata annualmente (3).
Un libro cerimoniale della basilica di San Marco racconta che sul Canal Grande viene preparato un ponte di barche che parte dalla calle di Ca’ Giustinian e arriva nell’area della futura basilica, dove per la cerimonia è stata eretta una «chiesa di tavole» di legno, col suo coro e le sue colonne e finestre. Addobbata in rosso e bianco, è «capace di mille persone in circa». La porta è fatta di due colonne intagliate in legno che sostengono un arco. A sinistra dell’altare è pronto il posto per doge e signoria, e su di esso c’è un’immagine della Vergine. Vicino è pronta la prima pietra di marmo da posare, e «nel mezzo di essa c’era una fossetta [...] dentro la quale era una cassetta di piombo ove si dovevano riporre alcune medaglie d’oro, d’argento et diversi altri metalli, nelle quali era scolpita la città di Venetia».
Il doge Nicolò Contarini è gravemente malato e non può partecipare, ma intervengono i segretari, il gran cancelliere Giovanbattista Padavin, il più vecchio consigliere come vice-doge, l’ambasciatore francese, i consiglieri, i procuratori di San Marco e le più alte magistrature. C’è inoltre gran concorso di popolo, composto però solo di uomini: le donne non possono, «per decreto publico, partirsi dalle loro contrade». Arrivata alla chiesa, la signoria è accolta dal patriarca. A porre la prima pietra scendono il vice-doge, il patriarca e l’ambasciatore francese, seguiti da alcuni senatori che mettono pietre e «zecchini». Finita la cerimonia si canta la messa (4).
Il ricorso alla Vergine ha risvolti pregnanti per la religiosità civica veneziana, visto che il giorno dell’Incarnazione, il 25 marzo, è, secondo la mitologia della Repubblica, il giorno della fondazione della città (5). Ma un’altra festività inaugurata nel 1630 è segnata da un incontro tutto particolare fra istanze politiche e devozionali, quella in onore di Lorenzo Giustinian, primo patriarca di Venezia (dal 1451 al 1456). È un evento importante poiché il governo veneziano sta da quasi vent’anni insistendo presso Roma per le pratiche di canonizzazione, un’iniziativa dettata dalla «esigenza di rafforzare il prestigio della Serenissima pure sul piano agiografico», e che verrà segnata da vicende alterne fino all’ottobre 1690, quando la canonizzazione sarà concessa da Alessandro VIII, papa veneziano. Un’iniziativa che tra l’altro fa seguito a un crescente interesse popolare per il Giustinian, interesse sospinto dalle prime notizie dell’arrivo della peste e sfociato nella creazione della confraternita di Santa Sofia, a lui dedicata nel febbraio 1630 (6).
Nel giugno-luglio 1630 il corpo è esposto a San Pietro di Castello, mentre il 5 agosto si legifera che il giorno in onore del beato sia compreso «tra festivi del Palazo, et si vada a venerare quelle sacre ceneri dal Serenissimo Principe col Senato tutto ciascun anno» (7). Un’altra festa «di palazzo» è poi statuita nel 1646 per sant’Antonio, e nel 1652 il governo riesce a ottenere una reliquia del santo per trasportarla solennemente da Padova alla basilica marciana in Venezia. Una festività annuale per la Concezione della Vergine è inoltre decisa nel 1691 (8).
Vi sono inoltre le nuove feste civiche, dedicate, come quelle sopravvissute dal passato, a eventi della storia politico-militare cittadina. Per la vittoria dei Dardanelli nel 1656 è indetta un’andata dogale ai Santi Giovanni e Paolo il 26 giugno di ogni anno. Nel 1690 è stabilito di fare una festa annuale il giorno di san Gaetano in ricordo della trionfale conquista della Morea, con andata dogale al convento dei Teatini (9).
Nelle celebrazioni civiche rientrano anche i riti dogali del giovedì grasso, tradizionale appuntamento per ricordare la sconfitta del patriarca d’Aquileia nel XII secolo, e per consentire una giornata di esibizione all’Arte dei macellai (10). Fra Seicento e Settecento la festa vede soprattutto un’enfasi nuova dell’elemento popolaresco, mentre i caratteri rituali rimangono immutati rispetto a quelli cinquecenteschi, contribuendo a farne una farsa un po’ ridicola agli occhi degli stranieri.
Alexandre Limojon, ad esempio, più noto agli studiosi come signore di Saint-Didier, annota che la giornata serve per «eternizzare» l’antica vittoria, ma «l’appareil & la pompe representent assez bien une ridicule Tragedie. Tous les Bouchers de la Ville se parent bizarrement de tout ce qu’ils trouvent de plus beau à emprunter, & se rendent au Palais de S. Marc, divisez par compagnies; mais comme chacun s’arme de la maniere qu’il luy plaisit, c’est la plus extravagante chose du monde, que de voir les uns avec de vieilles halebardes, les autres avec des grands fabres, les uns avec des piques, & les autres avec des spadons à l’antique de six pieds de long». In una sala del primo piano di palazzo Ducale, la «plaisant soldatesque» sfila davanti alla signoria in modo bizzarro, visto che «les uns courent, & les autres marchent gravement, les uns font des profondes reverences, & les autres regardent fierement la Signeurie sans se découvrir, & les Trompettes sonnent en courant à pied à la teste de chaque Compagnie; de sorte que toute cette Ceremonie a plûtot l’image d’une émute populaire, que d’une réjoussance publique». Segue la vetusta decapitazione del toro in Piazza, dove c’è grande presenza di popolo e lo spettacolo più apprezzato è il famoso «Volo dell’Angelo» dal campanile di San Marco.
C’è quindi la sensazione che nell’ultima parte del Seicento i riti civici del giovedì grasso abbiano perso la posizione di centralità all’interno del Carnevale. In questo periodo gli aspetti meramente ludici e liberatori del lungo intermezzo carnevalesco hanno assunto il predominio, preparando il terreno per il celebre mito della Venezia settecentesca (11). Solo da parte degli ordini e del clero della città si verifica il tentativo, spesso isolato, di mantenerne almeno la valenza religiosa, attuando una serie nutrita di riti devozionali, dall’esposizione del Sacramento alle Quarantore, a processioni presso le chiese (12).
È in tale contesto che nel 1682 si verifica un curioso episodio, che ha i suoi prodromi negli anni Settanta. In questo periodo i Gesuiti dell’Oratorio della Santa Croce alle Fondamenta Nuove organizzano, per il giovedì grasso, una processione di poveri e orfani fino all’Ospedale degli Incurabili, alla quale si aggiungono in seguito alcune parrocchie. Nel 1681 si rivela però difficile attraversare la città per la confusione carnevalesca, e così nel 1682, grazie a due «burchielli» e dodici «peote» offerte da alcuni nobili, alle «livree» offerte dal capitano generale da mar Francesco Morosini, e al permesso concesso dai capi del consiglio dei dieci, si predispone una «divota processione maritima in honore della Passione del Redentore». Il corteo acqueo, a noi conosciuto anche grazie a un’incisione, comprende poveri dell’Ospedale dei Mendicanti, e orfani dell’Ospitaletto e della Pietà. Si reca alla stessa Pietà e poi alle Fondamenta Nuove, e riunisce molte imbarcazioni con rappresentazioni di angeli, del Leone marciano, della Vergine con in braccio il Cristo. Negli anni seguenti, però, la cosa viene abbandonata, forse per le difficoltà organizzative (13).
Il fervore devozionale del popolo è del resto sempre vivo nel culto di reliquie e oggetti sacri (14). Un visitatore straniero, Maximilien Misson, non manca di suggerire che «cela n’est guéres que parmi le peuple» (15), ed è vero che si verificano spesso fenomeni di religiosità spontanea che, nonostante la forte pressione esercitata dalle autorità con la Controriforma, ricordano fenomeni analoghi avvenuti nel Rinascimento. Le fonti riferiscono che nel maggio 1659 alcune persone pongono «lampade, candelle e voti» all’immagine di sant’Alipio nel porticato di San Marco dalla parte della Torre dell’Orologio, poiché si è sparsa la voce che l’immagine guarisca dalle infermità. Vengono presi subito provvedimenti, ritenendo l’accaduto una cosa «superstiziosa» (16).
L’adorazione di oggetti sacri è però in genere convogliata nelle festività di Stato, se un opuscolo tardo seicentesco è in grado di indicare in tre reliquie marciane i principali soggetti della devozione popolare: alcune gocce di sangue di Cristo raccolte, secondo la tradizione, da san Giovanni, venute da Candia ai tempi di Domenico Contarini, ed esposte in San Marco il terzo venerdì di marzo; altre gocce di sangue raccolte dalla Vergine, poi finite nella proprietà dell’imperatrice Elena di Costantinopoli e da qui portate a Venezia nel 1203, dove sono esposte con regolarità il giorno della Santa Croce; e il sangue venerato nel giorno dell’Ascensione e il giovedì santo, che sarebbe sgorgato da un’immagine di Gesù ingiuriata dagli Ebrei a Beirut nel 787, e presa dai Veneziani anch’essa a Bisanzio (17).
Le varie immagini mariane sono inoltre il veicolo per il coinvolgimento del popolo durante i grandi momenti di crisi, come la peste del 1630-1631 (18), e gli eventi delle guerre mediterranee, come vedremo. E, più in generale, molti riti della cerimonialità civica e religiosa si possono ritrovare e convivere in determinate occasioni. Basterà fare il solo esempio dei festeggiamenti per l’elezione del papa veneziano Alessandro VIII, Pietro Ottoboni, nell’ottobre 1689, cioè in un periodo di soddisfazioni internazionali per la Serenissima, soprattutto nel Mediterraneo.
La notizia arriva nel pomeriggio dell’8, e subito si fanno suonare le campane: «la Piazza di S. Marco in un subito resa un Romano Anfiteatro ripiena di fuochi da diverse nationi inventati, tutta attorniata da lumiere, e machine, due delle quali sembravan di Vulcan le fucine, che con un Visuvio in diversi artificii vomitassero il fuoco [artificiale]». Il 12 si tiene un Te Deum e una funzione in Basilica, con la presenza del senato, e il 13 si decide di fare una solenne processione. Sulle colonne della chiesa di San Gemignano si appendono i ritratti dei cardinali, sopra la porta di San Marco l’effigie del papa eletto, e sotto le Procuratie Vecchie il ritratto di Girolamo Corner, cavaliere e procuratore, e combattente contro il Turco. In seguito viene prima esposta in Basilica e poi portata in processione l’immagine della Vergine di Candia. Sfilano i padri dei Santi Giovanni e Paolo, e poi la grande confraternita di San Teodoro, «che benché si povera d’entrate seppe in tal giorno a d’onta delle altre comparir la più pomposa con un cavallo, montato da un figlio tutto pomposamente vestito, che figurava S. Todero». Passano poi altre confraternite e ordini religiosi: «li minimi di S. Francesco di Paula [vennero] con un bellissimo solaro dell’Adria coronata nel Mare, che portava per Scudo l’Arma Pontificia». Sfilano anche le congregazioni dei preti secolari, i capitoli di Castello e San Marco, seguiti dal patriarca con la Vergine di Candia, sotto un baldacchino. Viene infine il segmento processionale dogale (19).
Nonostante l’obiettivo di siffatte celebrazioni sia di esaltare l’armonia sociale e il suo costante ritrovo grazie al ricordo di eventi memorabili della storia di Cristo o della città, però, le feste del calendario civico assistono con grande frequenza a scontri processionali. Nel 1671, ad esempio, scoppia una contesa fra gli ordini dei Teatini, Gesuiti, Somaschi e Domenicani sulle precedenze nei cortei dogali. Interviene anche il patriarca, che però ha la peggio sia perché il governo veneziano proclama la sua ferma indipendenza da Roma in ambito rituale, sia perché lo stesso pontefice lo disapprova. La questione è infine sistemata dal doge (20), ma una polemica tra il patriarca e il governo veneziano era già sorta durante la cerimonia della Salute nel 1631, e difficoltà di questo genere se ne riscontrano spesso durante l’Ascensione (21).
Non si tratta tuttavia soltanto di un problema fra Venezia e l’autorità romana. Discussioni insorgono spesso anche fra figure burocratiche e poliziesche, ad esempio fra segretari e cancellieri, o fra capitan grande e cavaliere dogale (22). Sentirsi parte del momento celebrativo può servire a meglio giustificare ed esibire una funzionalità di secondo piano, e gli attori sono quindi perfettamente coscienti della necessità di difendere il proprio apparire pubblico.
Come si è detto, l’Ascensione è momento complesso per la ritualità veneziana. All’espressione del dominio marittimo e dell’apertura della stagionalità favorevole, viene abbinata la fiera delle merci veneziane in San Marco, opportunità per coniugare l’interesse commerciale a quello celebrativo (23). La cosa migliore è lasciare la parola ai testimoni stranieri.
L’inglese John Evelyn, a Venezia nel 1645, afferma che Venezia «at present [is] challenging the empire of all the Adriatiq Sea, which they yearly espouse by casting a gold ring into it with greate pomp and ceremony on Ascension Day: the desire of seeing this was one of the reasons that hastened us from Rome». Per la cerimonia il doge veste alla «orientale», e col senato, con un grande corteo di barche, e spettatori, musicisti, clerici e «mascherati», va a gettare «a gold ring and cup into the sea» (24).
Qualche decennio più tardi, il Saint-Didier osserva il bucintoro circondato in laguna da un numero infinito di gondole, «de sorte que ce Palais flotant, dans lequel il y a ordinairement cinq ou six cens personnes, paroist un Château bâti au milieu de dix milles petites Cabanes, ou plûtost un Elephant environné d’un effein de Mouches». Sul naviglio dogale viene dato accesso solo a Veneziani e stranieri in possesso di un permesso, e questo contribuisce a farne «une des plus belles choses que l’on puisse voir». Ecco come lo descrivono, nel maggio 1675, altri due stranieri, Jacob Spon e George Wheler: «c’est une espece de Galere à deux étages, enrichie tout autour de sculptures de bois doré. On tient qu’elle a couté cinq cent mille livres, & le tapis qu’on étend sur le dernier couvert, comme les houffes qu’on jette sur l’imperiale des aroffes de nos Princes, est de velours rouge cramoisi avec de larges bandes d’or & une crépine de même étoffe qui regne à l’entour. On ne void que la partie des rames qui touche l’eau, sans voir ceux qui les manient, & en general toute la fabrique de cette magnifique Galere est admirable» (25).
Il bucintoro di cui si parla è quello seicentesco, fatto costruire dal doge Marino Grimani con un ordine del 1601, e inaugurato da Leonardo Donà nella Sensa del 1606. Gli intagli sono dei fratelli Agostino e Marcantonio Vanini di Bassano, fra i quali le celebri statue di Marte e della Giustizia a prua. Un particolare di rilievo rispetto al modello precedente è che la copertura diviene fissa, e possiede all’interno un’elaborata decorazione astrologica, a noi nota poiché sopravvissuta nel bucintoro successivo, quello settecentesco. Raffigurati sono le virtù, i mesi dell’anno coi segni zodiacali, le arti con le ore diurne e notturne indicate da pianeti (26). Tale decorazione ha importanti precedenti sia nella passione per gli astri che già nella seconda metà del Quattrocento aveva traversato la scena festiva padana e fiorentina, sia nella simbologia ricorrente nelle feste dell’oligarchia veneziana del tardo Cinquecento, se consideriamo ad esempio i «pianeti» in zucchero presentati nella maestosa colazione del 1574 in onore di Enrico III di Francia, o le «12 Statue accomodate in stucco, con in mano ciascuna di esse uno dei segni dello Zodiaco» che compaiono sul «teatro del mondo» per la dogaressa Morosina Grimani nel 1597 (27).
Il corteo acquatico porta il doge alla cerimonia del lancio dell’anello, come ci viene testimoniato da numerosi dipinti, fra i quali il quadro di Antonio Stom della Pinacoteca Querini Stampalia (28). Dopo quel rito, scrive Saint-Didier, «l’on jette ensuite des fleurs, & des herbes odorantes sur la mer, pour couronner, dit on, l’épousée» (29).
Il nobile francese nota poi che la partecipazione più onorevole della Sensa viene assegnata ai giovani nobili, poiché sul bucintoro non sono invitati gli anziani, bensì i sottopregadi, cioè i posti che in senato non hanno voce deliberativa e quindi sono dati alla gioventù. Gli stessi giovani sono i protagonisti anche del banchetto che si tiene lo stesso giorno, uno dei quattro banchetti dogali annuali (30). Il doge siede nella tavola centrale con ai lati il nunzio, l’ambasciatore francese e la signoria, mentre in altre tavole trovano posto i senatori. L’apparecchiatura è curata con attenzione, e assieme ai vari cibi, «il y a sur chaque table des trophées, des grandes figures, des arcs de triomphe, & des chateaux de cire bianche, dorez & argentez, & avec cela une infinité de petits plats». L’addobbo ricorda i celebri pranzi di Cristina di Svezia a Roma, e non è quindi un caso se il banchetto veneziano viene riprodotto da Pierre Paul Sevin, disegnatore di quei pranzi (31). Ogni tavola è preparata con dodici servizi di due piatti, eccetto che la tavola dogale, preparata per il dux e gli ambasciatori con tre piatti. Le porzioni sono mandate al doge in un piatto coperto, per differenziarle da quelle degli ambasciatori, che restano scoperte. Il doge dà il primo piatto al nunzio, e il secondo all’ambasciatore francese, per onorare i poteri che rappresentano rispettivamente. Alla fine il doge fa un regalo di dolci ai presenti, e si esegue della musica.
Il banchetto della Sensa è il meno «serio» dei quattro, poiché i giovani nobili fanno rumore, e gettano arance e confetti da un tavolo all’altro e contro le vetrate. Il doge e i consiglieri non li riprendono, ma anzi li scusano con le testuali parole: «la nostra giuventù stà allegremente» (32). Questa bonarietà paternalista rimanda al tradizionale dialogo delle autorità con i propri giovani, oggetto di grande attenzione fin dal tardo Medioevo, e impiegati in larga misura, ancora adolescenti, per le grandi cerimonie e feste carnevalesche. Lo scopo è controllarne le pulsioni istintive e la naturale indisciplina (33). L’epoca barocca registra tuttavia una partecipazione dei giovani alle feste di Stato molto diminuita, a giudicare dalle ormai poche segnalazioni di sfoghi incontrollati (che pure non mancano: nella Quaresima del 1625 il figlio del re di Polonia, Ladislao, in visita alla città, si deve allontanare in fretta da una festa «perché vi concorse tanta quantità di gentilomini giovani che per le insolentie loro, non poteva ballare») (34). Emergono solo lamentele abbastanza normali, come quella del magistrato alle pompe del dicembre 1699, contro l’eccessivo lusso nelle vesti e nei banchetti dei nobili che entrano in maggior consiglio per la prima volta (35). Se ne deduce che il rapporto fra il patriziato e la propria gioventù ha trovato ormai un relativo equilibrio.
Torniamo ancora alla Sensa: «pour terminer le jour de l’Ascension avec plus de réjouïssance que les autres, l’on voit le soir faire le Fresque sur le Grand Canal de Mouran, [...] [avec] tout ce qu’il a eu de plus galland aux épousailles de la mer: un grand nombre de Peotes proprement équipées avec des Trompettes, quantité d’Etrangers avec des Barques bien ajustée, plusieurs Courtisanes en masque avec des habits blanc tres-propres, & des Gondoles couvertes de roses» (36). I «freschi» concludono però solo la giornata principale, poiché le feste ascensionali comprendono anche la fiera in San Marco.
La durata è di quindici giorni, e una sorta di guida dei primi del Settecento recita che le merci esposte sul «Listone» (le Mercerie) ne fanno un «Perù pendente, e per gl’ori, & argenti, e per le pietre di valore» (37). La parte principale è svolta dalle Arti, che con grande frequenza litigano per i posti delle botteghe (38), evidenziando come in certi periodi la fiera abbia bisogno di essere riformata. Nel 1689 i procuratori de supra lamentano infatti come essa, «introdotta per lustro et lucro dell’Arti che ci intervengono, prociede al presente con molto disordine, con introduttioni di poco ornamento, niun decoro, et pericolo d’incendi et altri accidenti vari». La colpa è nella lentezza delle Arti nel fornire l’elenco dei partecipanti, e per la procuratia è impossibile «destribuire et assignare gli statii propri per impiantar le botteghe». Si verifica quindi una «confusione da regolarsi, perché in tal modo tutto dependendo dalla necessità più tosto che dal consiglio, riesce vano il rispetto dovuto, spesso vedendosi botteghe misere di poverissima comparsa, e mercanti di pochissima attentione. Ancorché la vaga e ricca apparenza in quei giorni solenni, con l’avvertire circospetto a pericoli di quell’unione tutta di legname, debbano esser mira particolare di chi sopraintende» (39).
È quindi sempre forte la coscienza dell’importanza di questo peculiare mercato primaverile, soprattutto come rappresentazione di venezianità in un «teatro» del tutto particolare: «la Piazza di San Marco, gelosa per il sito, riguardevole per la struttura, et per tant’altre circostanze considerabile, fu raccomandata alla soprintendenza delli Procuratori della Procuratia di Supra [...] ad oggetto che tenuta disocupata, conservata nella sua forma antica, et essentata da pregiuditii, serva d’ornamento alla Dominante, di commodo alla confluenza civile, e decoro alla Pubblica Maestà, remanendo anche destinata alle funtioni più riguardevoli della Republica, et d’altre antiche usuali solennità, contrasegni gloriosi della libertà dominante». Fra queste funzioni, una delle più «cospicue» è appunto la fiera dell’Ascensione, ed è per questo che il senato deve intervenire (e infatti interverrà, intimando alle Arti di attenersi alle disposizioni dei procuratori) (40).
Ritornano alla mente alcuni versi della poesia Do brazzolari in man ha la natura, scritta, probabilmente dopo la peste del 163o, dal poeta Gian Francesco Busenello. La fiera sembra dare una nuova vita alla Piazza:
La nostra vita è una bottega in Sensa:
Che in men de ch’è il concorso e la gran fola
Fenisce in quattro tole mal ligae:
Tutti se tira in te le so contrae
E la piazza reman deserta e sola (41).
Cinquant’anni più tardi, però, il Saint-Didier non manca di osservare come anche la stessa fiera sia ormai invasa da maschere, gentildonne, saltimbanchi, marionette, mostri, bestie feroci e un’infinità di cose rare, «de sorte que l’Ascension, est un petit Carnaval, qui attire un grand nombre d’Etrangers, & qui y fait passer agreablement ces quinze jours de la plus belle saison de l’année» (42).
La Sensa come «piccolo Carnevale», quindi. A giudicare da queste parole e dagli altri indizi che abbiamo visto, sembra che i significati rituali delle componenti di questa grande festa veneziana abbiano ceduto il passo, alla fine del XVII secolo, agli elementi semplicemente spettacolari. Si percepisce tuttavia ancora, come si è già accennato, la sua importanza come simbolo di politica territoriale nei confronti del mare Adriatico.
A tale proposito, non è casuale che nelle funzioni religiose ascensionali continuino gli scontri rituali col rappresentante romano. Ne sono un sintomo alcuni ordini dettagliati emessi dal senato nel 1646, e riguardanti le cerimonie del Lido, che impongono al patriarca, dopo smontato dal suo «piato», di attendere «sotto la figura del S. Nicolò» il doge e gli ambasciatori, di levarsi e salutarli al loro arrivo, e di dargli la pace e incensarli. Finita la funzione in San Nicolò, inoltre, il patriarca deve uscire dalla chiesa col capitolo di Castello e, stando sulla sinistra, deve attendere che sia sfilato tutto il corteo della signoria (43). Le difficoltà nelle precedenze coi rappresentanti di Roma però non si placano, se ancora nel 1654 il governo veneziano deve punire l’arcidiacono e il maestro delle cerimonie di San Marco per l’ennesimo incidente rituale (44). Del resto, in questa direzione la Serenissima Repubblica non può abbassare la guardia poiché la Sensa è considerata un particolare e importante modo di confermare il proprio dominio marittimo. Fanno testo le parole di Paolo Sarpi degli anni Dieci del Seicento, e di tutti coloro che discutono con Roma e gli Asburgo sul possesso antico e presente dell’Adriatico. Gran parte della polemica, com’è ben noto, verte attorno al valore della leggendaria donazione di quel possesso alla Repubblica da parte di Alessandro III, nel 1177 (45).
In questa sede è interessante constatare come gli osservatori stranieri raccolgano e apprezzino nella sostanza le motivazioni dei Veneziani, così come sono esposte dal Sarpi e dai suoi successori. Saint-Didier, ad esempio, mette in guardia dal considerare la donazione di Alessandro III come l’unica fonte del diritto dei Veneti sull’Adriatico, e, sapendo che molti la ritengono una favola, parla piuttosto di quella donazione come semplice «conferma per sempre» della sovranità adriatica. Inoltre, non può essere messa in dubbio la protezione assicurata al pontefice dalla Repubblica, che ha creato un’obbligazione tale da consentire agli ambasciatori veneziani di essere trattati a Roma come inviati di «testa coronata», cioè di un potere di tipo monarchico (46).
Anche per Amelot de la Houssaie compie «une erreur populaire qui confond l’institution de la Céremonie d’épouser la Mer faite par le Pape, avec la Donation méme de la Mer; le Vulgaire ayant pris une Declaration solennelle du droit des Venitiens, & une reconnoissance formelle de leur Titre In re jam de facto possessa, pour un Acte de Concession par lequel le Pape les auroit mis en possession du Golfe. Ce qui ne peut pas étre, puisque les Papes n’ayant jamais rien eu ny prétendu sur la Mer Adriatique, ils ne pouvoient pas donner ce qui ne leur appartenoit pas». Il possesso dei Veneziani dell’Adriatico si è esteso col ritirarsi dei Bizantini e con la lotta ai corsari, e il loro diritto deriva sia dall’aver conquistato un territorio abbandonato e senza padroni, sia dall’averlo difeso nel corso dei secoli. La «giustizia» di tale possesso è riconosciuta in tutta Europa, e gli ambasciatori esteri partecipano allo sposalizio del mare sanzionando con la loro presenza la validità del rituale come espressione di quel possesso (47).
Altri momenti di profondo coinvolgimento della sensibilità collettiva sono i riti funerari e d’intronizzazione dogale. In questo caso non sembrano esserci particolari cambiamenti rispetto all’epoca precedente, e i riti per la morte di Marc’Antonio Memmo e l’elezione di Giovanni Bembo, fra ottobre e dicembre 1615, vengono trascritti con dovizia di particolari sul libro cerimoniale del pien collegio e, a giudicare dalle scarne descrizioni successive, tenuti come esempio nei decenni a venire (48). Solo dopo la morte di Silvestro Valier, nel 1700, si sente la necessità di una ricapitolazione di tali riti e delle modifiche apportate dal XVI secolo in poi, ma nell’insieme non si registrano sostanziali mutamenti rispetto alle consuetudini tardo-rinascimentali (49).
Continuano così a suscitare impressioni di stampo antico le cerimonie funerarie, capaci di visualizzare con efficacia gli equilibri fra dux e corpo aristocratico. Scrive ad esempio l’Amelot: «le Senat y assiste en Robe-rouge, couleur, qui n’a rien de lugubre. Mais ils le font pour montrer que si leur Duc est mortel, leur Republique est eternelle, & ne soufre aucune alteration en elle-mesme; que l’éternité de leur Empire reside dans le Corps du Senat, d’où depend le salut des Peuples qui leur sont soumis; & que c’est aux particulier à pleurer, & non pas au Public» (50). E neanche finisce di stupire la spettacolarità di alcuni riti d’intronizzazione, come il lancio di monete dal «pozzetto» del nuovo doge in piazza San Marco, rappresentato nel celebre quadro al Museo Correr di un anonimo seguace dell’Heintz, e in altre fonti iconografiche come le incisioni di Vincenzo Coronelli sull’entrata in carica di Giovanni Corner nel 1709 (51).
La sostanziale stabilità dei rituali di passaggio dogali non impedisce però che si ripresenti un tema non nuovo e alquanto fastidioso per l’integrità dell’aristocrazia: il tentativo di alcuni dogi di trasformare le cerimonie cittadine in momenti di esaltazione famigliare. Ad esempio, nel 1618 il rientro a Venezia da Chioggia di Antonio Priuli, appena eletto al dogado, assume la forma di un trionfo ambiguo, a metà fra il pubblico e il privato. Il Sivos scrive che «mai più è stato fatto tante feste, dispensato grandissima quantità di pane et vino, per tre giorni continui alla povertà, fatte feste grandissime, fuochi, lumiere et altri fuochi artificiati, che è cosa quasi impossibile a crederla a chi non l’ha veduta». Gli inviati del governo preparano lussuose «peote» cerimoniali in onore dell’eletto, e il Priuli viene accolto a Chioggia e scortato verso Venezia da un nutrito corteo acqueo. Nella piazzetta di San Marco è inoltre predisposto «un arco trionfante, et [sono] tirate le telle fino al Palazzo, accomodate con li suoi festoni». È sintomatico che vi sia un tentativo di impedire che i festeggiamenti per il Priuli si tengano in maggior consiglio, tentativo però respinto (52).
I riti proclamatori presentano tuttavia una struttura ormai codificata, e, come avvenuto spesso in passato, il desiderio acuto di esibizione fastosa dell’ambiente dogale deve prendere altre vie. Alcune singolari occasioni, ad esempio, sembrano assumere un’importanza maggiore rispetto all’età rinascimentale, come i battesimi di figli o nipoti dei dogi.
In un libro cerimoniale marciano sono presentati diversi casi relativi a Domenico (1659-1676) e Alvise (1676-1684) Contarini. Nel settembre 1670, Giulietto, figlio di Angelo, nipote del doge Domenico, viene battezzato dal primicerio di San Marco. Il bambino è portato in Basilica dal cavaliere dogale, preceduto dallo scalco maggiore «con il bastone di comando con leone allato sopra», e dagli scudieri con «quattro torcie, quattro con tapedi, due con ramini, due con cussini, due con coppe con fazoletti, due con coppe con saliere, con sale e zuccaro, due con vasi». Nell’ottobre 1677 leggiamo invece di un «apparato per femina», allorché la figlia di Alvise Contarini, nipote del doge omonimo, viene portata in chiesa dal cameriere dogale. Nel settembre 1680 è invece il turno del figlio di un altro nipote dello stesso doge, Nicolò di Alessandro, che vive a palazzo Ducale con la famiglia del dux. L’occasione è particolare, poiché l’infante ha ormai due anni, ed ha già ricevuto l’acqua benedetta poco dopo la nascita.
Il «parecchio» è ciononostante «sontuosissimo», e vengono chiamati tutti i magistrati, i segretari ducali, e altri quattrocento nobili. Mentre una tavola per il banchetto è preparata in palazzo Ducale con vasellame d’argento, l’altare di San Marco è parato con lusso, e una grande sedia in velluto viene allestita per il primicerio. Il bambino è portato dal cavaliere dogale e accolto dal primicerio stesso con due savi. Nel momento del battesimo interviene anche il consigliere più anziano. All’uscita dalla Basilica, lo scalco e scudieri portano i «Trionfi del battizo» (probabilmente quelli elencati per il 1670), in numero di trentasei, e il corteo esce in Piazza e si reca in palazzo Ducale. Il bambino viene portato al doge, che lo bacia (53).
Non sarà forse fuori luogo ricordare che, dei due dogi Contarini, Domenico viene rimproverato per il troppo autoritarismo, mentre Alvise è protagonista di serenate e rinfreschi in maggior consiglio (54). Ma altri rilevanti sfarzi cerimoniali degli eletti al dogado sembrano rivolgersi, come avvenuto nel Cinquecento, verso le proprie mogli, le «ducisse» (55). Un primo sintomo è una legge del 10 gennaio 1646 contro l’incoronazione della dogaressa, emessa poco dopo la morte di Francesco Erizzo, apparentemente senza riferimento a episodi particolari, e quindi, forse, come misura preventiva. Il motivo è per evitare «eccessivi dispendii aggravanti in particolare l’Arti et popoli, [...] [e per non] accrescer le spese senza porgere grado maggiore al riguardevole posto della Republica» (56).
Dopo questo episodio bisogna attendere la fine del secolo e le vicende della dogaressa Elisabetta Querini Valier, moglie di Silvestro Valier, un personaggio già messosi in luce per lo sfarzo cerimoniale (ad esempio nel 1666 quando, come accompagnatore di Margherita di Spagna di passaggio per il Veneto, offre ricevimenti a Venezia e nella sua villa alle Gambarase, sul Brenta) (57). La dogaressa è investita il 4 marzo 1694. La mattina attende «nella Camera Maggiore sopra la Canonica, con dogalina d’oro con zebellini, velo bianco, et corno gioielato sopra il capo cinto, collana, et croci di diamanti dal petto». Sopra una sedia rialzata di un gradino riceve la signoria e le altre principali magistrature che vengono a congratularsi. Il pomeriggio indossa il manto ducale, riceve l’omaggio dei quarantuno elettori dogali, e poi si reca a un lussuoso convito con «magnifici apparati». Ai convitati vengono regalate «confetture», come d’abitudine nei principali banchetti.
Le scritture aggiungono che, nonostante l’assenza di una vera e propria incoronazione, vietata dalla legge del 1646, la dogaressa «nel tempo stesso s’intendesse per le publiche leggi anch’essa coronata». I giorni seguenti vengono a congratularsi gli ambasciatori, ricevuti con le stesse formalità di quando si recano a complimentarsi col nuovo doge (58). Dell’incoronazione rimane il ricordo attraverso una «osella» (59).
Il fatto rilevante, però, è che dopo il 1694 molti personaggi cittadini e stranieri prendono l’abitudine di recarsi regolarmente a ossequiare la Valier, con fare quasi «cortese». Ad esempio, gli ambasciatori residenti, i cavalieri, i procuratori e magistrati vanno ad augurarle buone feste ogni Natale (60). Vengono pure dedicati alla Querini alcuni libretti religiosi di accademici e preti come don Francesco Caro, lo stesso che poi tesserà le lodi di Silvestro Valier alla morte. Il Valier, tra l’altro, lascia 50.000 ducati per erigere il monumento funerario a sé e alla moglie, monumento che viene realizzato — sembra grazie all’intervento personale della dogaressa — nel 1708 ai Santi Giovanni e Paolo (61). Anche un osservatore straniero, Casimir Freschot, mette in evidenza la rappresentazione della dogaressa sulle monete, la sua magnifica incoronazione, i complimenti ricevuti da magistrati e ambasciatori, seppur cerchi poi di attenuare il giudizio, aggiungendo che la Querini Valier non ha fornito un cattivo esempio alle donne veneziane poiché si è dedicata soprattutto alla pietà e carità cristiana (62).
Il corpo aristocratico non può fare a meno, però, come già avvenuto in passato, di dare una risposta a quelli che sono considerati tentativi di superare le prerogative della famiglia dogale, e il maggior consiglio interviene nel luglio 1700. Viene confermata la legge del 1646, e proibito alle dogaresse di portare il corno in testa, «insegna proveniente dall’incoronazione». Inoltre, «sii pure alle medesime proibito il ricever, per visite o ufficiosità in occasione, qualunque ambasciatori, segretari, o altri agenti de Prencipi stranieri, come stessamente consigli, collegi o magistrati in corpo di questa città [...] Nell’uscir di Palazzo haver possino l’accompagnamento delle proprie figlie, sorelle, figlie de figlioli, di figliole, e di sorelle, nuore, e cognate, e non oltre». La legge deve essere aggiunta alla promissione ducale e deve dunque diventare parte delle normali restrizioni al Serenissimo (63).
Oltre agli interventi contro le dogaresse, altri decreti continuano a regolamentare l’esposizione pubblica del principe. Nel 1655 il maggior consiglio statuisce che, per conservarsi la maestà dogale, e continuare l’opera della legge del 1646 verso una «maggiore continenza» di tale maestà, è statuito che «si come deve il Serenissimo Principe nei giorni solenni conferirsi pomposamente accompagnato alle solite chiese e cerimonie, [...] non possa in altre giornate condursi privatamente in lochi publici e frequentati della città». Gli viene solo concesso «di poterlo fare nelle isole già prescritte dalla legge, a suo libero comodo e piacimento» (64). Nel 1668, a sentire Amelot de la Houssaie il governo leva al doge il diritto sui regali ricevuti dagli ambasciatori stranieri, pare dopo il regalo di pellicce di zibellino da parte di alcuni moscoviti di passaggio (65). Otto anni dopo vengono ribadite vecchie disposizioni contro il lusso degli inviati dalla Terraferma per congratularsi col doge neo-eletto, a seguito dello sfarzo esibito in onore di Nicolò Sagredo (66). Nel 1688, dopo aver notato che l’antichissimo uso di lasciare uno scudo con le armi dogali in basilica di San Marco «si è dilatato quasi ad ostentatione di fasto con macchine di grande e gravosa mole», sono stabilite le massime dimensioni di tre piedi in larghezza e cinque in lunghezza.
La suscettibilità dei membri del patriziato verso eccessive esibizioni dogali si innesta spesso su questioni personali, come avviene nel 1668, allorché il regalo degli ambasciatori russi al doge provoca la dura reazione del procuratore Andrea Contarini, per odio verso il figlio dello stesso doge. Ma si può anche spiegare con conflitti di più ampio significato, come emerge dal fatto che nel periodo precedente la nota «correzione» del consiglio dei dieci del 1628, Renier Zen obbliga il doge Giovanni Corner, col quale è in aperto contrasto, a levarsi il corno e inchinarsi allorché si reca presso lo stesso consiglio (67).
Nella relazione raccolta dal figlio Francesco, il nunzio Scipione Pannocchieschi, a Venezia fra il 1647 e il 1652, si sofferma sulla ricchezza delle dimore veneziane, e sul gusto di esporre «alla vista di tutti le suppellettili più riguardevoli che ciascheduno possiede, che tali veramente li sono nella maggior parte delle case di questa Città, sì per il lusso che vi regna, come per le ocasioni frequenti, che hanno di tenerle esposte in evento di feste bene spesso solite di celebrarsi, come appunto avviene in questa di fare il Procuratore, che per avventura è la più rilevante di tutte, concedendosi a tutti di fare maschere per quel dì acciò senza essere osservato possa ciascuno entrare liberamente per tutto» (68).
Come afferma il nunzio, nel Seicento e ancora ai primi del Settecento l’ingresso alla carica di procuratore di San Marco costituisce il momento più propizio per la celebrazione della propria famiglia e ricchezza, visto oltretutto che il titolo viene più volte messo in vendita per le esigenze belliche (69). L’impegno finanziario esibito in tali occasioni è uno dei riflessi dell’evoluzione delle vicende del patriziato, guidata fin dal Cinquecento sia dalle tendenze oligarchiche, sia dall’accrescersi del divario fra nobili poveri e nobili ricchi, due fenomeni che nel Seicento si aggravano notevolmente (70). L’esibizione del fasto può inoltre far leva su quanto il popolo si aspetta da questi ingressi, momento di guadagno collettivo. Ad esempio è indicativo che, a parere dello storico Michele Foscarini, Zuanne Sagredo è respinto all’elezione dogale del 1676 poiché «nella sua assuntione alla dignità di Procuratore di San Marco trascurò gli atti di generosità soliti a rallegrar la plebe». In realtà l’opposizione al Sagredo, non appartenente al gruppo dei «grandi» della nobiltà, è fomentata da quest’ultimi, in un periodo nel quale la carica dogale è stabilmente nelle loro mani (71).
Possediamo almeno tre dettagliate descrizioni a stampa di feste dei procuratori, per l’ingresso di Giovanni Pesaro nel 1641, di Girolamo Basadonna nel 1682 e di Lorenzo Tiepolo nel 1713 (72). Da queste apprendiamo che, appena saputo del conferimento, l’eletto dispensa denaro, pane e vino ai poveri e ai «traghetti», mentre cominciano manifestazioni di gioia in tutta la città. Il ponte di Rialto e le strade attorno vengono tappezzati di festoni e arredi. Il campo di San Salvador è pieno di arazzi; all’inizio delle Mercerie è predisposto un arco e delle colonne con lo stemma di famiglia, e le Mercerie stesse sono tutte addobbate.
In onore del Pesaro, ad esempio, a intervenire in modo particolare sono i «Mercanti», fra cui spiccano i Tedeschi, sul cui fondaco è posta, dalla parte del Canal Grande, un’iscrizione di Giulio Strozzi: «IOANNI PISAURO EQUITI / AD PROCURATORIUM ERECTO / GERMANICI / MDCXXXXI». Sull’arco che guarda alla strada c’è invece scritto: «DAT VIRTUS HONORES».
Il festeggiato si reca nella chiesa di San Salvador, ove l’altare è addobbato e pieno d’oggetti e reliquiari. Ha la stola d’oro, ed è accompagnato dal procuratore più anziano. Finita la messa, prende le Mercerie, all’inizio delle quali c’è un arco trionfale con «due figure l’una di Mercurio, l’altra di Pallade, e nel mezzo del di lui Cielo effigiata l’arma di Sua Eccellenza», e più in basso «un scettro alla sommità d’esso impressosi un occhio, dinotanti l’uno l’eloquenza mirabile, l’altro la prudenza vigilante di Sua Eccellenza. Sopra il Cielo dell’Arco si vedeva figurata un’eccelsa piramide, nel di cui mezzo si leggeva scritto il motto: PERENNITATI».
Il Basadonna incontra invece nelle Mercerie «un’Aquila grande al naturale fatta di sopraffini Aironi, e in mezo l’Arme Basadonna. Campeggiavano al Guerriero due statue di finissime tele, e merli d’aria, cioè alla destra il Tevere, che spargea le sue onde in preziose tele, che pareano spume di latte con lontananza di Monti, ed alla sinistra Nettuno in Mare col Tridente, avendo in alto una figura di donna, [...] e l’uno, e l’altro, che rappresentavano Roma, e Venezia in atto d’abbracciarsi, e baciarsi, spiegando quelle Mitre, e Cappelli Cardinalizi con il Camauro, e queste l’insegne onorarie della Repubblica con il Corno Ducale». Più avanti, i Tedeschi mostrano una specie di orologio di specchi, con vari «capricci», mentre al ponte dei Bareteri c’è una loggia particolare costruita con diversi specchi, che la rendono «trasparente». Ai piedi del «ponte alla Nave» ci sono due grandi mappamondi, figuranti il cielo e la terra.
Campo San Zulian è pieno di quadri, e di seguito è figurata una sorta di «Scala de’ Giganti» in filigrana, «nel petto de’ quali era granita l’Arme di S.E., l’uno tenendo in mano il Corno Ducale, l’altro il Triregno. In cima alla Scala si vedeva la figura del procuratore di San Marco col motto: Per gradini d’onor si giunge al Trono».
Osservando questi addobbi, non è superfluo rammentare l’importanza delle Mercerie come uno degli assi viari fondamentali per le celebrazioni cittadine e per la visualizzazione del mito della città. John Evelyn le descrive estasiato nel 1645, durante la fiera della Sensa, e le definisce «one of the most delicious streetes in the world for the sweetnesse of it». Una musica leggera accompagna il visitatore, «so that shutting your eyes, you would imagine yourselfe in the country, when indeede you are in the middle of the Sea» (73).
Lungo le Mercerie, tra l’altro, il procuratore è accompagnato da un folto gruppo di persone, fra le quali capi di milizia e «cavalieri di Teraferma». Dietro di lui procedono gli altri procuratori e nobili, che possono arrivare a quasi trecento, con stola rossa o paonazza. I cavalieri della stola d’oro, appartenenti al patriziato, non portano la «stola» consueta, «perché fosse tutta del nuovo Procuratore l’onoranza». Anche in piazza San Marco vengono montati, sotto una grande tenda che va dalla Torre dell’Orologio alla Procuratia, apparati di archi e colonnati con le armi del festeggiato, e le Procuratie sono addobbate con tele damascate. Alla porta del coro di San Marco il neo-procuratore viene ricevuto dal cavaliere del doge, con un «bastone» in mano, insegna della sua dignità. Finita la messa, si reca all’altare per il giuramento, e poi in collegio, dove trova il doge col corno e la cuffietta bianca, la signoria con toghe rosse e «paonazze», e, spesso, un buon numero di maschere e principi stranieri (74). Qui l’eletto riceve la borsa con le chiavi della Procuratia. Segue un ballo a Palazzo, e «un suntuoso apparato di solenne banchetto, che a gl’altri Procuratori sono tenuti di fare gl’elletti nuovamente a quel grado, acciò finalmente nel zuccaro, che in gran copia vi si contempla maestrevolmente effigiato, resti improntata la memoria di quella festa» (75).
Saint-Didier annota che è molto piacevole il ritorno del nuovo procuratore a casa. I gondolieri dei traghetti sono obbligati a fornire una «peota» a testa per il corteo acqueo, e per questo ricevono pane, vino e un mezzo ducato. Si vestono in modo bizzarro — da spagnoli, da donne, da gobbi e deformi —, e si muovono in continuazione sul Canal Grande, inneggiando al festeggiato. Ma se gli vengono lesinati i regali, i divertimenti sono mosci. Le feste durano poi almeno tre giorni, situandosi in luoghi diversi, e fornendo vari diletti al popolo. Sono tali che sembra che la Repubblica abbia riportato una grande vittoria (76).
Due cose colpiscono il Casotti nell’evento del 1713. Innanzitutto l’invito del magistrato alle pompe ai merciai di mostrare una «certa moderazione», accompagnato dalla proibizione di esporre il ritratto del procuratore (ma ritratti si vedono «pure in carta in ogni bottega, [...] e in molti luoghi con motti eruditi; oltre una infinita quantità di poesie e italiane e latine di vari generi»). E, in secondo luogo, il fatto che «questa pompa, benché grande, non ha a che far niente, per quanto mi dicono, con quella del possesso dell’ultimo Procuratore di casa Pisani, che spese seimila ducati per avere dal Magistrato sopra le pompe la licenza di far cose grandi; e le fece tali per tutta la Merceria, alzando archi, e sale reali, e trofei, che vogliono che la spesa asendesse a trentamila ducati: il che dicono che diede tanto negli occhi, che quei savissimi Padri stabilirono di non dar mai più una siffatta licenza».
Il governo è infatti molto sensibile al problema del fasto mostrato in queste circostanze, e già nel 1683 interviene con un importante decreto. Si osserva che sono «introdotte da poco in qua, nell’occasioni di sollenni ingressi alla Procuratia di S. Marco, dispendi eccedenti in vari apparati della Piazza ed altri luoghi della Città, non senza offesa di quella moderatione che suole andar unita con la gravità e merito dei soggetti insigniti di tal dignità». Sono così «prohibiti espressamente gl’apparecchi tutti così nella Piazza come sopra il ponte di Baretteri, e nei campi di S. Giuliano, S. Salvador e di S. Bortolamio [...] [e] gl’accompagnamenti di pedotte e l’enventioni di macchine con fuochi artificiali, che obligano a rellevante spesa; restando solamente permesso che per il corso dei soliti giorni se ardano alla casa del Procurator gl’ordinarii moderati fuochi, oltre le lumiere alle habitationi dei congionti in rimostranza di giubilo». La competenza viene affidata al magistrato delle pompe e all’Inquisizione (77).
Nella pratica quotidiana è però difficoltoso evitare lo sfarzo di questi momenti. Il governo interviene ancora nel 1692, e poi decide in seguito di trarne profitto, concedendo delle licenze a pagamento (78). Il Casotti ci dice però che nel 1713 anche tale consuetudine è stata abbandonata, probabilmente nel disperato tentativo di frenare un dispendio celebrativo che rischia, tra l’altro, di essere emulato in altre cerimonie fondamentali dell’epoca barocca, come quelle dei cancellieri grandi.
Il «canzelier» è il capo a vita della cancelleria ducale, e proviene quindi dalla potente burocrazia maggiore, esclusa dal patriziato, ma comunque in grado di esercitare un peso notevole sulla gestione della cosa pubblica. Il cancelliere ha inoltre elevate prerogative cerimoniali che derivano dalla sua particolare posizione di primo rappresentante rituale di coloro che non appartengono alla cerchia aristocratica (79). Come nel caso dei dogi, i riti associati al passaggio della carica cancelleresca prevedono l’abbinamento dei funerali del defunto all’elezione e proclamazione del successore, e costituiscono una curiosa commistione fra le esequie dogali e le cerimonie d’ingresso dei procuratori. Possiamo prendere il caso di maggior rilievo dell’epoca qui considerata, cioè le celebrazioni per la morte di Pietro Busenello e la successione di Giovanbattista Nicolosi nell’agosto 1713.
Il cadavere del Busenello è seppellito in San Salvador, mentre l’effigie — la «statua» alla quale si tributeranno le esequie — è messa su un catafalco alla Croce, sua chiesa parrocchiale. Ci sono oggetti come lo «stocco, che s’adopera nelle publiche funtioni quando il Serenissimo Principe va in cerimonia, postolo con la punta verso la faccia»; ci sono anche il panno e la «Cappa» della Scuola grande di San Marco, la «ombrella» della stessa Scuola, e la bandiera dei marinai di San Nicolò di Castello. Si forma poi un corteo con la bara preceduta dal clero, portata da dodici capitani di nave, seguita dalla bandiera degli «arsenalotti», dal baldacchino della Scuola, da preti e maestranze dell’Arsenale, e dai quattro «Ospitali». Alla Torre dell’Orologio l’effigie viene incontrata dal capitolo di San Marco, e accompagnata alla cappella del Battistero. Il giorno dopo è posta su un catafalco nella parte centrale della Basilica.
Il nunzio, l’ambasciatore imperiale, il senato con vesti nere «ordinarie», e i segretari attendono i parenti del defunto a palazzo Ducale, e poi tutti si recano in San Marco con l’ordine consueto del corteo funerario dogale, cioè coi parenti a fianco delle magistrature e una nutrita rappresentanza di «arsenalotti». L’effigie viene accompagnata in Piazza, alzata tre volte davanti a San Marco (per le esequie dogali si fa nove volte), e poi portata ai Santi Giovanni e Paolo, dove si tiene la funzione e l’orazione pubblica in onore del defunto.
L’ingresso di Giovanbattista Nicolosi, a similitudine di quello di un procuratore di San Marco, prevede la funzione in San Salvador e il corteo per le Mercerie, con l’accompagnamento dei procuratori e di soldati. Alla scala dei Giganti l’eletto è accolto dal capo degli scudieri e dalla «corte» dogale, e poi si reca in collegio a ricevere le congratulazioni del doge e le chiavi per conservare le scritture di cancelleria (80).
Come nel caso dei procuratori, anche in quello dei cancellieri la spesa per l’ingresso è notevole, per vari motivi. La casa dell’eletto si apre a parenti e amici, dice il Casotti, e secondo usanza lo stesso eletto deve depositare subito 6.000 ducati di «mancia» per le sue future esequie, «incominciando così la sua carriera dal pensare alla fine». Il rimanente della spesa può essere di 7-8.000 ducati, «e veramente lo scialo è grande; oltre il regalo che ha a fare a tutti i Nobili, consistente in zucchero, le mance a tutti i barcaroli di traghetto, e la solito recognizione a’ mercanti di Merzeria nell’ingresso».
I primi rappresentanti della burocrazia ducale, esclusa dalla nobiltà, sono così in grado di sfoggiare una grande ricchezza, probabilmente superiore a quella di buona parte del patriziato. In tal modo possono accomunare il proprio atteggiamento cerimoniale a quello dei «primi» della città, in una società nella quale è ormai più facile trovare solidarietà di patrimonio che non di ceto (81).
E l’esempio dei procuratori e cancellieri può trovare un certo riscontro anche in altre occasioni, come nell’ingresso del patriarca nella sua sede di San Pietro di Castello, oggetto di descrizioni a stampa (82), e del vivace quadro dell’Heintz, oggi al Museo Correr. Non è certo un caso che l’entrata di Federico Corner nel 1632 sia particolarmente fastosa, vista la famiglia di provenienza, una delle più potenti e «papaliste» della città, e il fatto che l’elezione sia avvenuta col sostegno di Roma e contro il partito dei «giovani» (Gaetano Cozzi ha scritto che con questo episodio il periodo dell’interdetto si può considerare chiuso) (83). Ma pure i personaggi più vicini al popolo minuto possono scatenare un grande investimento di energie. È ancora il Casotti a descriverci l’animatissima elezione del pievano di San Cassian il 14 ottobre 1713, «un’altra funzione delle più strepitose di Venezia». Fra i due pretendenti, «sostenuti l’uno dal Popolo, l’altro dalla Nobiltà», a vincere è il primo: «tanto basta per ispiegare il gran fracasso, che fu fatto per tre sere sulla piazza di S. Cassano, ove è la casa dell’eletto, i fuochi, i razzi, il concorso, i fasci o covoni di paglia, che scorrevano per tutta la contrada; trombe, tamburi, e il nome di Pre Nicoletto repetuto a tutti i momenti» (84).
Oltre al calendario civico-religioso e alle feste in onore delle grandi cariche cittadine, la civitas Marci trova nel confronto con ospiti prestigiosi altri momenti per esprimere, con intensi momenti collettivi, le proprie idee su se stessa. È interessante notare come in tali momenti le sfumature estreme degli atti rituali, modellati a seconda della «qualità» del personaggio che si riceve, siano nel corso del Seicento abbinati con crescente intensità alle espressioni più alte del vivere ludico popolare. È altresì importante evidenziare come dall’epoca delle grandi feste dell’ultimo quarto del Cinquecento debba passare più di un secolo prima di assistere a nuovi grandi trionfi, in buona parte ormai mutati, tuttavia, nelle principali vie espressive.
Nel 1676 Amelot de la Houssaie scrive che l’ambasciata a Venezia non è fra le più importanti per negoziare, ma poi aggiunge: «cependant c’est la plus dificile de toutes, & celle qui demande le plus de penetration d’esprit, parce que l’on y traite avec des muets, & que l’on y aprend tout par énigmes. C’est pourquoi l’on apelle Venise, l’Ecole & la Pierre de touche des Ambassadeurs. Car c’est là que les Princes mettent leurs sujets à l’epreuve pour en savoir le iuste prix» (85). Una relazione fiorentina dello stesso periodo ci spiega perfettamente la cura minuziosa che la Serenissima pone nel graduare le formalità d’accoglienza di ogni inviato, formalità che devono permettere all’aristocrazia lagunare di non derogare alla sua posizione peculiare nei confronti dei rappresentanti dei principati europei. Le categorie degli inviati a cui si presta attenzione sono in sostanza due, cioè gli inviati dei poteri monarchici e dei poteri ducali.
Il Tratamento della Republica di Venezia agli Ambassatori in riga regia prevede l’incontro all’isola di Santo Spirito o San Secondo da parte di un cavaliere della stola d’oro con titolo di savio del consiglio, e di «sessanta de Pregadi ordinario». All’ambasciatore è dato titolo di «Eccellenza». Se tale ambasciatore è un nunzio, non dà mai la precedenza al cavaliere, «e gli altri regi la danno solamente nell’accompagnarlo sino alla gondola». A palazzo Ducale, il collegio s’alza in piedi al primo comparire dell’ambasciatore, sia che venga come straordinario, sia per risiedere stabilmente a Venezia. L’alloggiamento previsto per l’inviato straordinario, a spese dei Veneziani, è di sei o otto giorni. Il regalo alla partenza è di 2.000 ducati all’ambasciatore, e 300 al suo segretario.
Per ciò che concerne il Tratamento della Republica di Venezia agli Ambassatori in riga ducale, invece, l’incontro è alle Grazie, e il cavaliere non ha necessariamente il titolo di consigliere o savio del consiglio. Quaranta senatori sono previsti solamente per gli ambasciatori straordinari, mentre nel caso dei residenti bastano i sottopregadi, cioè i senatori più giovani e meno importanti. I titoli concessi sono «Illustrissimo o di Lei», e «si trattano di pari l’ambassatore et il cavaliero». Il collegio si alza in piedi solo dopo che l’ambasciatore, fatta la seconda riverenza in mezzo alla sala, è quasi giunto al trono dogale. L’alloggio spesato dalla Repubblica è lo stesso che per l’ambasciatore regio. Non è invece previsto regalo finale per il segretario, ma solo per l’ambasciatore, e consiste in 700 ducati (86).
Come in tutti gli altri luoghi d’Europa, per i cardinali c’è un trattamento speciale, poiché non vengono ricevuti in pien collegio, ma nella «camera» del doge (anche se il collegio presenzia comunque). Nel luogo del «trono» dogale si predispongono due sedie, e il cardinale si mette alla destra. Il doge e il collegio restituiscono la visita del cardinale recandosi al suo alloggio, e nell’occasione la mano destra è del doge, che si leva il berretto al primo incontro (87).
Un’aggiunta successiva della relazione fiorentina, però, avverte che le accoglienze veneziane, tenute nelle «memorie degli Archivi segreti», possono presentare difficoltà poiché «non sempre si è uniforme il metodo, per le variazioni che insorgono dal canto de’ Principi che mandano. La Republica di Venetia, siccome si crede d’ogni altra Republica, non usa molto arbitrio, ricorrendo per il più accreare esempi seguiti nelle sue memorie, dove i Monarchi possono usare, et usano qualche volta, gli arbitri; e dalle alterationi di questi nascendo il caso di novità, et all’incontro andandosi in Venezia con riserva, non si può supporre trattamento formalizzato positivo» (88).
La risposta ai dubbi dell’anonimo relatore fiorentino sta nelle «memorie», cioè nei libri cerimoniali, che pure egli cita. Proprio per evitare il ripetersi di incidenti, infatti, quei libri hanno il dovere di riportare tutti i possibili «precedenti», e annotare quando si riscontrano novità rispetto al passato. Così avviene nell’aprile 1640, allorché il «Chiaus» mandato da Istanbul per annunciare la nomina del nuovo sultano si lamenta poiché il doge non si alza in sua presenza, e la soluzione adottata è di far alzare l’intero collegio, in cambio di tre inchini fatti dal turco «con molta humiltà». E problemi si presentano anche per la venuta degli ambasciatori di Mosca nel 1663, nei confronti dei quali la Repubblica non modifica il proprio cerimoniale, ammettendo però di doversi informare per la prossima volta: «fu lasciata cadere la pretensione, ma considerato esser necessario prima di risapere la qualità che veramente tengono tali soggetti che capitano da parti così remote e lontane» (89).
È del resto necessario far capire agli stranieri il forte senso di sacralità, e l’orgoglio che ne deriva, che i Veneziani attribuiscono alla carica dogale come massima rappresentazione dello splendore del «corpo» aristocratico, corpo che è a sua volta il solo a esprimere la maestà piena della Repubblica. Nel 1668 un altro ambasciatore russo fa una domanda al suo accompagnatore veneziano: «mi ricercò con gran curiosità se il Serenissimo Principe si scopriva mai la testa alla presenza de’ Ministri de’ Principi. Lo assicurai che quest’honore era risservato a Dio solamente, e non ad altri, nella qual certezza egli ne restò appagato» (90). Amelot de la Houssaie, poco più tardi, è più sfumato, ma non di molto: «le Duc n’oste point son Bonnet; ce qu’il ne fait que pour les Princes Souverains, & les Cardinaux» (91). Questa affermazione ricorda le motivazioni del consultore in jure Scipione Feramosca, che nella sua scrittura Delle Ragioni della Serenissima Republica di Venetia sopra gli Elettori dell’lmperio in materia di precedenza (6 dicembre 1640), conclude che «quello ha da esser preferito, che da più alta parte la sua dignità riceve: Vostra Signoria la riceve da Dio, gl’Elettori dall’Imperio». Inoltre «li Regni più antichi si preferiscono a più novi. Vostra Signoria ha i suoi regni più antichi». E ancora: «chi è Principe libero, va innanzi a chi è principe soggetto e dipendente», e Venezia è libera, mentre gli elettori no. Non a caso gli ambasciatori veneziani non si scoprono il capo davanti all’imperatore, come tutti gli ambasciatori regi, mentre quelli degli elettori invece sì, in segno di sudditanza (92).
La maestà dogale è solo un riflesso di quella del patriziato, e qualunque membro di quest’ultimo può sentirsi in ogni momento al posto del doge, se incaricato ufficialmente. Bertuccio Valier, scelto assieme ad altri per ricevere il nunzio Scipione Pannocchieschi nel gennaio 1647, e rimproverato da questi poiché si è messo erroneamente alla sua destra come solo gli ambasciatori regi possono fare, risponde che «essendo mandato dal publico, era come se rappresentasse il Principe in quella funtione» (93). Ma la delicata situazione dell’aristocrazia veneziana può avere conseguenze curiose, come annota nel 1703 Joseph Addison: «the noble Venetians think themselves equal at least to the electors of the empire, and but one degree below kings; for which reason they seldom travel into foreign countries, where they must undergo the mortification of being treated like a private gentleman» (94).
Al contrario dei Veneziani, gli stranieri possono invece viaggiare per piacere, e soggiornare spesso nella città lagunare. Il Seicento è un secolo pieno di passaggi, ma dobbiamo almeno per un attimo dimenticare i trionfi cinquecenteschi, come quello di Enrico III di Francia (95). A parte rari casi, infatti, e non di grande rilievo, come quello della venuta nel 1634 dell’ambasciatore francese, signore di Crequy (96), per quasi tutto il XVII secolo la formula più usata dai principi in visita è quella «in incognito», che seppure non impedisce certe formalità da parte del governo veneziano, non consente grande dispiego di fasto, e, anzi, può causare problemi. Soprattutto il Carnevale vede infatti la presenza a Venezia di diversi ospiti contemporaneamente — nel 1684 ci sono ben venti principi —, e fornisce momenti propizi per incontri controversi. Nel 1690, ad esempio, l’abate Vincenzo Grimani combina l’accordo tra il duca di Savoia e l’imperatore Leopoldo I per l’entrata del Piemonte nella lega d’Augusta, e il senato deve intervenire con una nuova legge contro i contatti fra nobiltà e stranieri (97).
Un caso importante di venuta «in incognito» è quello di Ferdinando II Medici nell’aprile 1628. Dopo aver stabilito il contatto con le autorità venete, l’inviato del granduca informa il suo signore di avere rifiutato l’accoglienza di un procuratore di San Marco due miglia fuori i confini, e altre accortezze, per essere il granduca in visita privata. Il Medici viaggia da Chioggia a Venezia e si reca direttamente all’alloggio nella casa dei Corner di Rialto. Nei giorni seguenti visita la città e il doge in forma non ufficiale (anche se il collegio è presente), visita poi ricambiata. Vede comunque i luoghi consueti — Arsenale, tesoro di San Marco, consiglio dei dieci, Zecca, chiese — e assiste a qualche festa. L’unico momento veramente pubblico è una regata in Canal Grande in suo onore: «fu grande la spesa, che alcuni Giovani nobili, eletti dal collegio, fecero in metter’ordine da quindici a venti Barche armate con belle livree, stando Essi nobili sopra dette Barche per tener netto il Corso della recatta, e fu cosa da ridere il veder Gondole guidate da Donne, oltr’a una quantità di maschere» (98).
Anche il passaggio del principe di Toscana nel 1664, il futuro Cosimo III, ha una motivazione privata (cioè assistere alla Sensa), e le visite «in incognito» si moltiplicano fino al 1716, con Federico Augusto elettore di Sassonia, e parecchio oltre il periodo qui considerato (99). Nel 1768 un attento relatore sui cerimoniali di ricevimento, nonché conoscitore di tutte le fonti sull’argomento, cioè Andrea Memmo, scrive che dall’anno 1644 i principi non sono più venuti almeno una volta «in publica forma» (100).
Fino all’ultima parte del Seicento, quindi, i caratteri trionfali tipici delle accoglienze rinascimentali non trovano occasioni per riprodursi, soprattutto il grandioso corteo acqueo che accompagnava l’ospite dalla laguna al Canal Grande. Solo due occasioni sono in grado di richiamare almeno in parte gli antichi fasti, oltre al celebre rientro del doge Francesco Morosini nel 1690: la venuta del granduca di Toscana nel 1688, e la venuta di Federico di Danimarca nel 1709.
Nel gennaio-marzo 1688 Ferdinando III Medici si ferma per ben cinquanta giorni coincidenti quasi totalmente col Carnevale, e può fruire dell’atmosfera gioiosa della città per l’arrivo di buone notizie dalla Morea. Il governo concede di portare le maschere alla popolazione, e vengono scelti quattro nobili per accudire l’ospite, fra i quali Giovan Francesco Morosini fornisce il palazzo. Al monarca si aprono i teatri cittadini, e non gli si lesinano regali alimentari. I giorni seguenti all’arrivo visita il maggior consiglio, l’Arsenale, la sala della quarantia criminal, la Zecca. Si tiene una grande festa con nobildonne a casa di Giovanni Mocenigo, un altro degli accompagnatori (101). Forte si esprime il desiderio fastoso della Serenissima: «Venezia, che pretende havere ereditato il fasto dalla Romana Grandezza, volle far conoscere all’A.S. del Gran Principe di Toscana possederne ancora i costumi ne i Teatri, ne i Giuochi, nelle Feste, e nelle Caccie, come l’imita nei trionfi, ma con più lunga serie di secoli» (102). La prevista «battagliola dei pugni» è annullata per la pioggia, ma si tengono una grande caccia di tori e orsi, uno spettacolare giovedì grasso, e una splendida regata (di cui si dirà), che costituisce l’apice dei festeggiamenti. Molte sono inoltre le funzioni sacre durante il Carnevale di quell’anno. In alcuni luoghi è esposto il Sacramento, ai Tolentini ci sono «superbi apparati», e i Gesuiti rappresentano il «Dio degli Angeli» in trono.
Dopo il 1688, l’ultima occasione da considerare in questa sede è il passaggio di Federico IV di Danimarca nel gennaio-marzo 1709 (103), che si situa in un momento importante in cui, mentre le armate austriache dilagano in Italia, la Repubblica cerca di dare una positiva impressione di fautrice di pace con una politica di «neutralità armata» (104).
Al monarca viene preparata una casa a San Stae, la stessa dove ha dimorato l’ambasciatore inglese, conte di Manchester, poco tempo prima. È accolto da quattro cavalieri con un rinfresco da 2.000 ducati, e viene stabilito che ognuno di essi dia una festa in suo onore. Il 18 gennaio assiste all’arringa in palazzo Ducale, nella sala della quarantia civil nova, e poi si reca a visitare le chiese cittadine. Le sere sono passate prima a teatro e poi nei ridotti. Perfino l’Arsenale viene preparato con estrema cura perché di fronte all’ospite «l’occhio possa appagarsi», e la visita del sovrano comprende quindi una costruzione istantanea di armi e una colazione di dolci (105). Durante il Carnevale si tengono giochi speciali: gruppi di popolani compongono piramidi umane dette «forze d’Ercole» (106), e viene allestita una «Arena» di dieci gradini e due archi di trionfo all’ingresso di piazza San Marco per organizzare una grande caccia di tori, rappresentata in un’incisione stampata dal Coronelli (107). Il martedì grasso viene offerta una festa al teatro di San Giovanni Grisostomo dal proprietario, Giovanni Carlo Grimani.
Il 4 marzo viene fatta la grandiosa regata, e il re vi si reca in bissona col cavaliere Daniele Dolfin. Dopo la regata è accolto a Ca’ Foscari, riccamente addobbata, e all’una di notte c’è una sontuosa colazione con settanta dame e la recita di una Pastorale. Prima di partire, fa regali generosi ai suoi accompagnatori.
Da quanto detto, non è difficile concludere che Ferdinando Medici e il monarca danese partecipano solo in apparenza a «trionfi» di antico carattere, poiché nella realtà l’elemento carnevalesco e ludico, e l’«effimero» così caratteristico del periodo, hanno stravolto l’essenza di sobrietà e serietà delle accoglienze tradizionali. L’attenzione deve allora rivolgersi al debordante senso di cerimoniosità di uno Stato che avverte un sempre più netto allontanarsi dell’Europa contemporanea, e cerca di stringere a sé, assorbendone i riti violenti ma funzionali e compatti, i ceti popolari.
È dunque chiaro che il ruolo svolto dai principali giochi cittadini nel Seicento si enfatizza all’interno delle formalità d’accoglienza, e acquista di conseguenza maggiore continuità e regolarità rispetto al passato.
Tali giochi sono tuttavia organizzati sempre più dai privati e meno dal governo. Se infatti una legge del consiglio dei dieci del 1632 proibisce ai singoli gentiluomini di far feste da ballo o regate per gli stranieri, al fine di evitare «qualunque pur minima corrispondenza et conversatione de’ nostri nobili con prencipi e personaggi d’alieni Stati» (108), più tardi nel secolo le cose sembrano cambiare. Nei citati ordini fiorentini, ad esempio, c’è scritto che per gli ospiti «festa di gentildonne, guerra de’ pugni, regatte, e cose simili, non provengono dal governo [...] sono cose che gliele procurano e fanno [...] quei a’ quali va toccando servirlo e coltivarlo» (109). Nel febbraio 1688 la caccia di tori e orsi per il granduca di Toscana è allestita da alcuni patrizi, e nel maggio 1704 l’ambasciatore turco si compiace di vedere «una pomposa serenata in musica nel Canal Grande, che fu ordinata da principali della veneta nobiltà per ricreatione delle dame di Venetia, et in occasione anco di diverse mostre de pugni e nell’incontro di una regata» (110). Il Manin riferisce addirittura che per Federico IV di Danimarca le feste sono pagate interamente da «privati cittadini, [...] mentre in altre epoche il carico della spesa fu tutto assunto dal pubblico erario», che ora provvede solo al dono finale al sovrano (111).
È un dato che esprime la necessità di convogliare nelle accoglienze le risorse dei singoli membri del patriziato, in momenti nei quali il governo veneto, stremato dalle spese di guerra, dall’economia in lenta recessione, e dalle difficoltà finanziarie di parte della nobiltà, deve da una parte contrarre le risorse normalmente dirette ad attività non del tutto essenziali, e dall’altra caricare tali risorse sulle spalle di quei membri che più mirano al lustro cerimoniale e al coinvolgimento nella festa di Stato del popolo e degli stranieri.
Il primo caso da analizzare in questo senso è quello delle cacce di tori e di orsi. Programmate già nell’ottobre del 1621 per l’ambasciatore straordinario di Francia (112), e poi per il granduca di Toscana e per Federico di Danimarca, come si è visto, sono pure presenti nei festeggiamenti dell’ambasciatore di Francia per la nascita del delfino, nel 1638, e del neo-procuratore Giovanni Pesaro, tre anni più tardi (113).
Per la caccia dei tori (in realtà dei buoi) possiamo rifarci alle descrizioni del Battagia e del Cicogna (114), che scrivono che le cacce sono permesse di solito nel Carnevale, più raramente al di fuori, e con licenza del consiglio dei dieci. Si svolgono in molti luoghi della città — i due campi più sfruttati sono San Geremia e Santa Maria Formosa — il pomeriggio e la sera fino a mezzanotte. La preparazione è a cura dei «cortesani» (macellai, o giovani, o, di rado, nobili), con licenza dei dieci, e vengono costruiti palchi per assistere. I tori sono assaliti da cani addestrati, e tenuti dai «tiratori», la cui abilità consiste nell’aiutare il bovino a sottrarsi all’assalto del cane. A volte è anche permesso di girare per la città con gli stessi bovini, facendo speciali esibizioni chiamate «molae» (115). Scarse sono le testimonianze della caccia con tori sciolti che si tiene per il doge la domenica di Carnevale, a palazzo Ducale (116).
La caccia dell’orso si svolge soprattutto a Santa Maria Formosa e Santo Stefano, e prevede che l’animale sia legato a un palo e venga assalito dai cani tenuti e manovrati dai tiratori. Per entrambi i tipi di caccia disponiamo di alcune testimonianze iconografiche, a partire dalle immagini di Giambattista Franco fino alle incisioni di Domenico Lovisa, nelle quali — si pensi alla stampa della caccia del toro in San Geremia del Lovisa — il clima di violenza generalizzata che circonda queste occasioni assume grande risalto (117).
Dietro la soprintendenza dei dieci, però, che talvolta intervengono con leggi — come nel 1639 — di un certo rilievo (118), le cacce consentono in primo luogo quella trasmigrazione continua fra momenti privati e momenti pubblici che è una caratteristica decisiva della festa veneziana presa nella sua globalità. La violenza popolare viene compressa nelle cerimonie più prestigiose, ma poi torna a manifestarsi in ambiti più ristretti, in raduni parrocchiali e famigliari, ove anche i singoli privati possono trarne beneficio. Nel gennaio 1621, ad esempio, se ne tengono alcune a Santa Maria Formosa per lo sposalizio della figlia di un nobile, Bernardo Malipiero, mentre nel settembre successivo si tiene una caccia di tori a San Vio il giorno dopo l’elezione del nuovo parroco di San Nicolò (119).
Un altro gioco che fra Cinque e Settecento rappresenta un buon esempio di osmosi fra festa del centro e festa di «periferia», e che coinvolge e appassiona più di tutti gli altri gli strati popolari della società, è la cosiddetta «guerra dei pugni». Le battagliole si svolgono nei giorni più importanti del calendario festivo (santa Giustina, Ognissanti, Natale e santo Stefano, Candelora, ecc.), e vedono lo scontro di due fazioni, i «Castellani» e i «Nicolotti», appartenenti a due grandi suddivisioni geografico-sociali della città (all’incirca la metà nord-ovest per i Castellani e quella sud-est per i Nicolotti), ma anche contraddistinte da due tipologie professionali diverse, essendo composte rispettivamente da lavoratori e marinai dell’Arsenale quella castellana, e da pescatori quella nicolotta. I luoghi della competizione sono alcuni ponti sui confini fra le due suddivisioni territoriali (120).
Già Enrico III di Francia assiste nel 1574 ad uno scontro con canne appuntite sul ponte dei Carmini, un tipo di combattimento che col tempo viene sostituito dal meno sanguinoso uso dei pugni, con l’uso di guanti particolari. La fama della lotta dei pugni diventa tale che il gioco viene considerato come spettacolo di «venezianità», e incluso abbastanza regolarmente nei programmi delle visite di stranieri: dai Fiorentini è infatti annotata come cosa consueta (121). C’è solo un caso di battagliola non realizzata, allorché il patriarca Dolfin e la sua famiglia cercano di organizzarne una in onore del cardinale Chigi nel 1673, ma vengono bloccati dal consiglio dei dieci, forse condizionato dal precedente incontro organizzato per l’ambasciatore di Francia nel 1634, e trasformatosi in rissa (122).
Notevoli sono la partecipazione e la pubblicità date all’evento dagli stessi nobili e rappresentanti stranieri. Diretti promotori del gioco sono l’ambasciatore di Francia nel 1634, il cardinale di Lione nel 1637, un ambasciatore russo nel 1668, Giovanni Battista Borghese nel 1669. Esso è inoltre fonte di discussione a proposito della sua capacità o meno di esprimere e calmare le divisioni fra il popolo veneziano. Gregorio Leti, ad esempio, pur ammettendo che si tratta di «una semplice ricreatione di Cittadini», afferma però che «nella Città di Venetia non si è veduta mai qualsiasi semplice sollevatione popolare dopo l’introduzione di questo uso di pugni» (123).
Per la loro importanza, infine, le battagliole vengono incluse nelle feste per le dogaresse del 1556 e 1597, e per ricorrenze civiche come la fine della peste nel 1631, l’assassinio del sultano Ibrahim I, e il temporaneo recupero dell’isola di San Todaro contro i Turchi.
Le guerre dei pugni scompaiono però dopo il 1705. Considerata l’assenza di una precisa ed efficace manovra del governo per la definitiva abolizione, restano indizi come alcune testimonianze di critiche e disaffezioni al gioco soprattutto da parte del patriziato, il depopolamento della fazione dei Castellani a causa delle guerre contro i Turchi — che già dalla seconda metà del Seicento porta a sue continue sconfitte —, e l’impossibilità di imporre alle lotte una maggior disciplina. Del resto, già nel 1624 Giulio Strozzi aveva descritto, nella sua Venezia Edificata, la furia del «Gioco del ponte»:
Quivi l’un l’altro si sospinge, e atterra,
E ne riporta hor ria percossa, hor piaga;
O fra gli urti, e la calca oppresso giacque;
o giù dal ponte rovinò nelle acque.
Dalle pugne alle mazze, e dalla mazze
Al fin d’irata destra il ferro ha stretto;
E volan dall’altissime terrazze
I duri sassi, e gli embrici del tetto:
Così le turbe infuriate, e pazze
D’uccidersi fra loro hanno diletto;
E dalla gara di vietato ponte
Morti, e rovine la Discordia ha pronte (124).
Solo il 3 maggio del 1767 si metterà in atto una fittizia riesumazione del gioco, alla presenza di Pietro Leopoldo d’Austria, granduca di Toscana, e sua moglie, Maria Luisa di Borbone. Ma le due parti che si affronteranno non saranno Castellani e Nicolotti, ma i «Cavalieri di Mezzogiorno» e quelli di «Tramontana» (125). Lungo l’ultimo secolo della Repubblica le energie popolari si dedicheranno ad altri e più innocui giochi, come le regate e le «Forze d’Ercole» (126).
Per tornare all’epoca barocca, però, il pericolo dello sfogo violento della società serpeggia anche nei più delicati momenti celebrativi, come durante i funerali del doge Marcantonio Giustinian ai Santi Giovanni e Paolo, il 25 marzo 1688. Scoppia una gigantesca rissa fra i presenti poiché alcuni vogliono rubare le cere e gli apparati; ci sono feriti, e si deve chiudere la chiesa in attesa che il patriarca la benedica di nuovo (127).
Bisogna poi pensare al Carnevale, in grado di provocare anche morti, come nel 1621(128). La confusione è molta in particolare durante il giovedì grasso, giorno nel quale c’è il permesso di portare armi (anche se non da fuoco): «on ne voit parmy le Peuple que gens armez de haches, de coutelas, d’épées nuës, de maffuës, de spontons; de sorte qu’on diroit que toute la Ville, dont le Boutiques sont fermées, seroit dans une épouventable sedition; aussi ceux qui ont des ennemis, se tiennent extremement sur leur garde pendant ces jours tumultuex qui finissent le Carnival» (129).
Ne consegue che sempre viva deve essere la preoccupazione del governo verso i mascheramenti, gli spettacoli e le attività ludiche. Nel Seicento lo Stato interviene ad esempio nel 1628, con leggi del senato verso ridotti, maschere, giochi e teatri, emanate forse non casualmente nel periodo della riforma del consiglio dei dieci legata al nome di Renier Zen; e legifera pure negli anni dopo la peste, soprattutto nel 1632 per il buon svolgimento delle feste private, e nel 1639 per regolamentare la caccia dei tori. Ci sono poi editti frequenti contro le battagliole dei pugni (130). Col tempo, però, le situazioni festive sembrano accettare una certa dose di veemenza diffusa che, benché superiore all’epoca rinascimentale, è funzionale a decenni difficili come quelli della seconda metà del secolo XVII. Solo con l’aprirsi del Settecento l’atmosfera si fa più riposante, con la fine dei pugni e il definitivo affermarsi delle competizioni acquatiche.
Se il Carnevale e i giochi sono momenti densi di incognite per la loro miscela di elementi aristocratici e popolari, decoro e violenza, un mezzo impiegato dallo Stato marciano per dirigere le energie sociali in modo più controllato e degnamente rappresentabile consiste nell’uso delle regate, che presentano la possibilità di associare il dispiego di ricchi apparati alle gare di piccole imbarcazioni, spettacolo per gli strati bassi della cittadinanza. Proprio per questi motivi esse assumono un posto assolutamente centrale negli ingressi trionfali del Seicento, divenendo anzi uno degli aspetti portanti di questo tipo di rituale, come ci viene testimoniato anche dall’iconografia.
Saint-Didier dice che le regate sono allestite per gli ospiti stranieri poiché sono le feste più amate a Venezia: infatti l’esercizio della voga «est tellement du genie de ce peuple, que tout le monde s’y étudie». Nota poi in particolare le «fisolere», leggerissime, e insaponate per scorrere più veloci. Il Canal Grande è tutto addobbato, e alcuni nobili «armano» speciali «peote», ci mettono dieci gondolieri in livrea, e stanno in maschera a prua. La principale bellezza della festa è proprio il gran numero e varietà di queste «peote». Fra le competizioni, il francese è particolarmente colpito sia da quella a un solo vogatore, sia da quelle femminili che, siccome esaltano la forza delle mogli dei pescatori, sono premiate con premi più alti (131).
Oltre alle fisolere, la regata comprende diverse imbarcazioni come le stesse peote (barche di media grandezza, a volte con copertura), le bissone (barche più leggere a otto remi), le margarotte (battelli leggeri a sei remi), le ballottine (a quattro remi), le gondolette, e altre ancora. La competizione comincia da San Antonio di Castello, percorre il Canal Grande fino al ponte della Croce, nella zona dell’attuale stazione ferroviaria, e poi torna indietro per terminare nel punto dove si svolge la premiazione, di fronte a Ca’ Foscari. I premi sono bandiere colorate in modo diverso per ciascuna gara, e soprattutto delle somme di denaro. Soltanto nel XVII secolo avanzato si cominciano ad annotare i partecipanti, provenienti in genere dalle isole lagunari (132).
Ai primi del Seicento la regata è ormai divenuta parte integrante della vita cittadina, anche al di là delle occasioni cerimoniali. Fra settembre e ottobre del 1622, ad esempio, nel giro di pochi giorni si fa prima una regata a spese degli stessi partecipanti, e poi un’altra con il «Chiaus» turco ad assistere (133). All’interno delle accoglienze nel 1628 per il granduca Ferdinando II Medici, è allestita «una solenne Rigatta di sei Fisolere a due remi, quattro gondole, sei barchette, quattro burchii d’acqua, quattro barche da Padova, e sei margherotte». L’ospite assiste al passaggio di venti peote dorate, con a bordo due gentiluomini ciascuna, e due barche di donne. Per la consegna dei premi è fabbricata una «macchina», una costruzione galleggiante col tema di «una Montagna superbissima». Anche nel 1641 si tiene una regata durante le feste per il nuovo procuratore Giovanni Pesaro, ed è costruita un’altra struttura a forma montagnosa, dalla quale fuoriesce Nettuno a premiare i vincitori (134).
Una delle caratteristiche fondamentali della regata è infatti il costituirsi in momento centrale degli esperimenti seicenteschi dell’«effimero», cioè della festa che rappresenta la «forma simbolica» del Barocco. L’apparato, la macchina, la struttura temporanea dispiegano moventi decisivi per la decostruzione e ricostruzione dell’ambiente urbano, stringendo in sé la committenza culturale e politica, il supporto di arte e artisti e arti e artigiani, la sperimentazione, la dichiarazione allegorica, l’immagine e la «meraviglia» (135). A Venezia vi è il precedente riferimento dei «Teatri del Mondo» cinquecenteschi, ma nel Seicento i tentativi effimeri non si dedicano solo a teatri acquatici, ma anche a complessi navigli. Abbiamo un esempio già per la Quaresima del 1625, allorché in onore di Ladislao, principe di Polonia, si tiene una regata con «20 peote ornate con livree di gran valore, et anco dette peote erano conziate alcune a foga di animali, alcune di luna, et alcune tutte lavorate d’oro di fuoravia [...]. La sera poi erano nell’istesso canale dei vaselli tondi con huomini armati et fecero una guerra navale, con assaissimi fochi artificiadi et erano ancho alcune zatere con bellissimi fochi» (136).
Gli esempi più clamorosi e realmente trionfali del gusto barocco, però, sono le regate del 1686, organizzata da Ernesto Augusto duca di Brunswick (Braunschweig)-Lünenburg, e del 1688, in onore di Ferdinando Medici. La prima delle due è il culmine delle molte feste che i duchi di Brunswick organizzano a Venezia, dove vengono a più riprese perché la Repubblica gli richiede truppe per la guerra in Levante. Già nel marzo 1654 e nel giugno 1664 gli inquisitori devono intervenire per regolare l’accesso al palazzo dove la famiglia risiede, Ca’ Vendramin Calergi, a causa delle troppo frequenti visite di nobili e gentildonne veneziane. Nel settembre dello stesso 1664, poi, il duca Giovanni Federico organizza alcune regate (137). Nel maggio 1685 il successore, Ernesto Augusto, costruisce una specie di «boscaglia» al Lido, con stanze addobbate per gli ospiti, ove fa eseguire manovre ai suoi soldati e, la sera, un grande ballo. In giugno appronta davanti al suo palazzo una macchina evocante un «giardino reale», dove si rappresentano due commedie. In agosto organizza feste nella villa del procuratore Marco Contarini a Piazzola sul Brenta, e durante il Carnevale 1686 partecipa alle feste di nozze del patriziato con i suoi «Marescialli» (138).
Il 25 giugno seguente realizza una maestosa regata, descritta da un copioso numero di fonti, anche iconografiche (139). Una di esse collega l’evento a una vittoria veneziana in Morea, cioè la conquista di Navarino avvenuta il 15 giugno 1686, giorno di san Vito (140); ma, soprattutto, il 25 giugno è festa dell’apparizione di san Marco, e la mattina le grandi confraternite, dette Scuole grandi, vanno processionalmente in Basilica.
La regata si tiene invece il pomeriggio, e vi partecipano, con «bizzarre peote», molti nobili e cavalieri, il principe di Parma, l’ex governatore di Milano, conte di Melgar, e vari ambasciatori in incognito. Un’enorme «macchina» (larga quattordici metri, lunga ventuno, e alta dodici) è costruita alla Giudecca e portata al punto di arrivo davanti Ca’ Foscari. Inclusa nel resoconto dell’Alberti grazie all’incisione di Alessandro dalla Via e Aniello Portio, rappresenta Proteo, figlio di Nettuno, e ha sul dorso Venere e altre Grazie. Può aprirsi, scoprendo una corte con un vasto portico e obelischi, scale e statue. È costruita in gran parte in vetro trasparente, e illuminata dall’interno. Qui si dona una serenata dal titolo «L’Amore sincero», e l’apparizione della Gloria chiude lo spettacolo, gloria che preannuncia le vittorie degli uomini del duca.
Seguono e circondano la macchina molte peote addobbate con ricchezza, pagate dal duca e dagli altri partecipanti, e realizzate da Francesco Maestri e Valentini Serin (gli stessi che lavoreranno nel 1688 all’entrata fastosa del patriarca Giovanni Badoer) (141). Ecco la «peota di Glauco», «ministro di Nettuno, vassallo dello squamoso impero», col capo attorniato di alghe marine e una «buccina» nella mano destra, «con la quale sembrava publicare nel suono Natio le allegrezze del giorno». Sulla prua c’è un mostro marino, e i rematori portano squame di specchi. C’è poi la peota di Venere: «fu giusto che una Dea nata dall’onde fosse Preside de gli spettacoli che si solennizavano nel Mare; e che intervenisse la più vezzosa, e brillante fra le Dive nello sforzo maggiore della bizzaria, delle Delitie, e della Vaghezza» (142). Un’altra imbarcazione è dedicata ad Apollo, figurato a prua con arco e frecce; un’altra ancora al «Trionfo di Cerere nella regnante Stagione, che cinta di Spiche d’oro guardava la Messe aurea del suo Campo» (143).
È da notare, scrive il Mariani, «che su le Peotte di Veneta Nobiltà stavano coricati a Prora li Gentil Huomeni stessi in mentito habito con Archi in atto di Saettare chiunque havesse voluto confondere, o frastornar il Corso». Inoltre, terminate le competizioni, «i regatanti vengono col corteggio delle Peotte, così che mischiandosi tra loro i Legni, i Prencipi, li Nobili, e li Plebei, si può dir, che il più bell’ordine di questo corso di Regatta fosse la confusione» (144). La notte la macchina viene illuminata con torce, e viene portata per il Canal Grande, passando sotto Rialto.
Il palcoscenico veneziano è così adibito a una duplice celebrazione: i fasti del duca guerriero, che gemella le sue fortune all’elemento marittimo, elemento peculiare della Serenissima Repubblica; e il proclama della coesione sociale della Repubblica stessa, rafforzata dal cimento acquatico.
Quasi due anni più tardi, nel marzo 1688, un’altra grandiosa regata chiude i quasi due mesi di permanenza del granduca di Toscana: «questa riesce godimento così unico di Venezia, come unica simil città corteggiata per ogn’intorno dall’acque» (145). Il Canal Grande viene addobbato dai cittadini con tappezzerie ai muri. Le barche sono novanta, divise in otto categorie di competizione, e i rematori duecento. I premi sono consegnati presso la «Gran Macchina, esprimente la Reggia di Nettuno», anch’essa nota attraverso un’incisione di Ludovico Lamberti e Alessandro dalla Via presente nel resoconto di Bernardo Sartorio. È un teatro che si estende sopra una specie di scoglio, con scale per facilitare l’accesso alla loggia che ha «figura duodecagona». Otto colonne con le Arpie reggono il tetto. Vi sono figure femminili di ‚Deità’ e, sulle scale, delle figure coricate che rappresentano i fiumi europei. In cima a tutto sta la Fama. Fra le peote spicca quella con tema Vulcano a Respiro, o «peota del Fuoco», con a prora dei Ciclopi, e a prua una grande salamandra. È una di quelle che figurano i quattro elementi: le altre sono la peota di Eolo (aria), la peota di Cibele (terra), e una peota composta di vetrate portante l’arma dei Medici (aria) (146).
La ricchezza e varietà delle decorazioni effimere di macchine e imbarcazioni verrà poi ripresa con maggior ampiezza per la venuta del re di Danimarca del 1709, senza registrare particolari novità se non nella grande esaltazione pittorica dell’avvenimento da parte di uno dei primi e più grandi vedutisti veneti, Luca Carlevarijs (147). La cosa da evidenziare, piuttosto, è che nelle cerimonie di fine Seicento si delinea un ruolo di novella importanza per peote e bissone, che hanno visto «dilatarsi il loro spettro funzionale e di presenza fino ad assumere ruoli che nel Cinque e Seicento erano demandati piuttosto alle grandi ‚macchine’, ai teatri del mondo» (148). Non è un caso se le grandi peote e regate del 1686 e 1688 vengono riprese da Vincenzo Coronelli nelle sue collezioni delle meraviglie nautiche veneziane (149). Più in generale, i grandi protagonisti in questo senso sono i fratelli Mauro, la cui abilità accompagna fra Sei e Settecento il passaggio fra gli apparati festivi e gli allestimenti teatrali in serie. Seppur non direttamente coinvolti nelle regate qui osservate, soprattutto i capostipiti Gaspare, Pietro e Domenico, e più tardi Alessandro, sono autori di una serie di modelli di imbarcazioni cerimoniali realmente decisive per il gusto dell’epoca (150).
Il desiderio di apparati effimeri pervade del resto altre occasioni festive della Serenissima, anche non attuate dal governo. Nel 1632 una «macchina» fa l’apparizione nei festeggiamenti per il nuovo patriarca, Federico Corner. Fuori dal rio di San Polo in Canal Grande, si trova «un superbissimo edificio fatto con leggiadria mobile sopra due grandissime piatte da mercantie insieme congiunte». La macchina è «fatta di Dorica Architettura [...] a quattro facce», e pare sia una «inventione» del piovano di San Samuele, e sia stata pagata dai rappresentanti del clero cittadino (che allestiscono anche le peote cerimoniali) (151).
Pochi anni dopo, nel 1638 l’ambasciatore residente di Francia dona grandiosi festeggiamenti per la nascita del delfino, il futuro Luigi XIV. Oltre a organizzare cacce di tori e orsi, sul canale di fronte al suo palazzo di Cannaregio allestisce una sorta di teatro acquatico, un palco quadrato con quattro colonne e un tetto sferico, e con in cima un mondo col delfino incoronato e il diadema di Francia. Nei giorni che seguono, sul palco si tiene un ballo di «otto donzelle parte scielte dal Mestrino, e parte da Venetia»; e poi ancora le Forze d’Ercole, e giochi di Moresca con le spade. Non può mancare «il fuoco artificiato», con girandole e «rocchette». Sul teatro, quattro uomini avanzano con «spadoni» ripieni di fuochi, e con dei mortaretti è inscenato lo scontro fra Ercole e l’Idra, rappresentazione del monarca che, come un Ercole Gallico, appiana le divisioni in Francia. Nei giorni successivi si tenta anche di costruire una fontana di vino, ma per colpa della calca sul teatro il vino si spande in canale, e occorre allontanare la gente (152).
Nei decenni che seguono la capacità dell’allestimento di teatri effimeri si affina e spettacolarizza grazie alle grandi regate e soprattutto ai festeggiamenti per le vittorie mediterranee (che osserveremo meglio tra poco). Verso la fine del XVII secolo, ad esempio, una struttura è creata in piazza San Marco per la conquista di Valona e Knin nel 1690, e realizzata da Bernardo Dossi e Giovanni Armeno, già intervenuti nelle feste per la presa di Nauplia nel 1686. Si tratta di una «Machina [...] che rendeva dubbio, se fosse il Tempio di Diana in Effeso, over il Palagio di Salomone», che lancia «tutte le vampe del Mongibello, del Vesuvio, e del monte Etna», grazie a «fochi bizaramente mestati, con girasoli, alberi, e chioche così lucide, che rubavano il splendor al Sole medemo». Ci sono inoltre una «fontana medemamente de fuochi, con un Dolfino alla cima», e «un Castello figurato la Fortezza di Valona», anch’esso base per grandiose pirotecnie (153).
Questo tipo di apparati ricorda quelli per il giovedì grasso, che giocano una parte da leone nel periodo qui considerato: «Ergesi per questa causa superbo, & elevato Palco in faccia al Palazzo Ducale, arricchito di statue, attorniato di fuochi artificiali, e reso in forma di vago Teatro» (154). Di forma quadrata o circolare, abbiamo alcune fonti iconografiche che ne rivelano le sembianze. A partire dalla testimonianza di Giovambattista Franco dei primi del Seicento, che mostra un palco ancora abbastanza semplice, si arriva ai quadri in collezioni private di Giuseppe Heintz e Antonio Stom (155), e poi al celebre dipinto del Canaletto e alle incisioni settecentesche (156). Grazie a tali fonti si può verificare come nel corso del XVII secolo le strutture per il giovedì grasso assumano la complessità delle «macchine» cerimoniali barocche in uso anche in altre feste e nelle regate.
Su questi teatri si tengono inoltre speciali spettacoli, di cui sappiamo per essere sopravvissuti alcuni progetti che venivano presentati alla magistratura addetta, le rason vecchie. Gli artigiani propongono rappresentazioni di battaglie, moresche e balli del saracino, approntati in scene — castelli, palazzi, e montagne — costruite per l’occasione. I temi sono spesso di fantasia, ma possono rifarsi anche all’antichità classica, come quando nel 1663 un certo Francesco Erculi presenta la conquista di Cartagine da parte di Scipione l’Africano. Le scene sono realizzate con attori e fuochi artificiali, e gli ufficiali delle rason vecchie sono estremamente esigenti nell’indicare anche lo svolgimento di quest’ultimi (157).
Il desiderio di trasformazione e possesso della scena urbana con grandi teatri, spettacoli e fuochi domina quindi la Venezia del Seicento, segnando anche in laguna il trionfo della metamorfosi festiva che vede probabilmente nella Roma contemporanea il più grande palcoscenico europeo (158). Come altrove, però, presso la Repubblica Serenissima gli allestimenti sontuosi non sono riservati alle cerimonie gioiose, ma prevedono elaborati catafalchi per il doge e altri personaggi: quello in onore di Luigi Mocenigo nel 1709, ad esempio, ci è noto per l’incisione pubblicata dal Coronelli e una descrizione contemporanea (159).
Alta quasi ottanta piedi, con un’ampissima base circolare di centosettantacinque, la macchina è strutturata «al di fuori di Architettura tutta corintia [...] Al di dentro tutta Dorica». Quattro grandi archi la sostengono, tenuti assieme da un «cornicione». Ognuno di loro ha quattro colonne, per un totale di sedici. Al centro del catafalco c’è il luogo della bara: «il cielo della stanza, ove posa il Cataletto, è guernito alla Reale con Cortine, e Manto d’argento, e nero, con strascico signorile, e magnifico, e sopra di esso, si erge una superbissima Cupola». Sopra la cupola c’è una piramide, con sull’apice la Fama con tromba d’oro. Tutt’attorno vi sono «pergoletti».
Nel 1713 si arriva addirittura a predisporre tre catafalchi — uno ai Santi Giovanni e Paolo e due a San Marco — per la morte del cancelliere Busenello (160). Questi esempi sembrano rifarsi però non tanto ad una eredità locale, quanto a una lunga e manierista tradizione europea, imperiale e francese innanzitutto, ma che in Italia si è radicata in contesti come Firenze a partire dal grandioso e cupo «Trionfo della Morte» allestito per Michelangelo Buonarroti nel 1564.
Alla fine degli anni Quaranta il nunzio Scipione Pannocchieschi testimonia del lusso e della ricchezza dispiegati nelle feste soprattutto dalla nobiltà, nel tentativo di minimizzare e accantonare lo stato critico dell’economia di guerra. Annota il nunzio: «per sì fatte funtioni io viddi la Città quasi sempre in continuo trattenimento per lo spatio di più anni; né per lunghezza di guerre, né per qualunque altro disastro ch’ella soffrisse, dissimile già mai la riconobbi dall’essere suo di prima: anzi et per le estraordinarie feste suddette et per le solite farvisi ordinariamente ogni anno, che pure sono molte, più invincibile e potente sempre mi parve» (161). Trent’anni dopo l’anonimo autore dell’opuscoletto Opinione di Padre Paolo Servita [...] come debba governarsi internamente ed esternamente la Repubblica Venetiana (1670), fervido sostenitore del mantenimento delle distanze sociali, tiene in grande considerazione il «lustro», cioè l’esibizione di ricchezze e pompa, per governare i sudditi (162). Dopo la grande regata del duca di Brunswick, il Mariani inoltre scrive: «così e notte, e giorno in Venetia si trionfò, & è mirabile, che non ostante la Guerra fierissima, che per Mar, e per Terra si fa hoggi dalla Veneta Republica contra il Turco, ch’è a dir, contro la maggior Potenza, regni ad ogni modo in Venetia una pace, e quiete imperturbabile» (163).
Nonostante le difficoltà del lungo periodo che si dipana dalla guerra di Candia a quella di Morea, quindi, Venezia e i suoi abitanti trovano le energie per un movimentato agire cerimoniale che, seppur senza raggiungere i fasti cinquecenteschi, dimostra anche in ambito festivo l’orgoglio di una Repubblica vetusta che vuole ancora sostenere un profondo ruolo internazionale. Il Mediterraneo resta al centro dell’attenzione, per il confronto drammatico col Turco. E il Mediterraneo diventa allora — ancor più che in passato, se possibile — il primo protagonista delle celebrazioni urbane.
A Venezia, come altrove, le vicende in campo internazionale sono accompagnate e accolte con devozioni, feste, costruzioni di chiese, secondo un atteggiamento assai caratteristico dei riti civici di antico regime. Nel giugno 1646, ad esempio, si decide di costruire un secondo grande tempio votivo dopo la Salute, cioè Santa Maria del Pianto alle Fondamenta Nuove, per invocare il favore divino durante la guerra di Candia (164). Grandiosi sono inoltre i festeggiamenti a seguito della vittoria veneziana nelle acque di Fochies, nel 1649 (165).
La notizia arriva a Venezia dal capitano da Riva, il 16 giugno. La città entra spontaneamente in festa, piazza San Marco si riempie, si canta un Te Deum in Basilica: «il Popolo, che a turme, aggitato dal furore di proprio inesplicabil’affetto, ondeggiava, acclamando, hebbe subita prontezza di grandissime fiamme, valendosi di banche, tribunali, seggi». Lo stesso giorno il patriarca emana una serie di ordini per fare funzioni religiose e processioni in tutte le chiese.
Le feste sono destinate a continuare per otto giorni, e alcune sono organizzate dagli ambasciatori residenti. Il senato fa donazioni agli ospedali e ai poveri, e libera i prigionieri (eccetto i bestemmiatori). La domenica successiva c’è una grande processione in San Marco, e un’altra che a San Pietro di Castello porta il corpo del beato Lorenzo Giustinian: «qui furon fatti Palchi di maravigliose, e sontuose dimostrationi; Apparati Santi; Angeli, che sembravan discesi dal Paradiso». Il lunedì c’è la processione da Castello a San Marco. I corpi dei tre santi Nereo, Archelao, e Pancratio, sono esposti per tre giorni in San Zaccaria, in ricordo della preghiera rivolta a Dio dal doge il 12 maggio precedente. Il martedì seguente c’è una processione con tutte le parrocchie in San Marco, e verso sera viene riposto il Santissimo Sacramento dal doge e ambasciatori. Il giorno di san Giovanni, 24 giugno, la comunità greca fa una processione da San Giorgio a San Marco. In Basilica vengono esposte anche due immagini mariane, e altre reliquie. «Tutta la Città era Oratorio, Tempio tutta», scrive il dalla Spada. Inoltre, «per queste processioni solenni, fu addornata la Città con sete; arazzi; tapezzarie; Archi trionfali; imprese de’ valorosissimi Capitani e Governatori; e co’ quadri d’altissimo preggio, e valore. La Città non era più Città; Era un Paradiso terrestre; Et Angeli lo passeggiavan, Vergini addorne; Matrone caste; Vedove pudiche; Huomeni di tutta perfetione».
Anche la vittoria dei Dardanelli nel giugno 1656 è accolta con grandi celebrazioni, indette dal governo anche nelle città della Terraferma. È poi fissata un’andata dogale ai Santi Giovanni e Paolo il 26 giugno di ogni anno, «perpetuamente». Il combattente Lazzaro Mocenigo viene nominato cavaliere di San Marco, e il capitano ed eroe Lorenzo Marcello, morto in battaglia, riceve sontuose esequie a spese del pubblico. Ci sono «azioni drammatiche» rappresentate per le strade, e infine si decide di far eseguire un quadro commemorativo della battaglia (166). Un decennio più tardi, nell’aprile del 1668 si canta un Te Deum, si espone il Santissimo Sacramento in San Marco e si fanno elemosine per la vittoria navale nelle acque di Fodelle, ad opera del capitano Francesco Morosini. La sera lo stesso Morosini viene fatto cavaliere di San Marco (167), ma queste sono le ultime celebrazioni di questo difficile periodo della Serenissima. Non molti mesi dopo, la nomina a procuratore del Morosini non viene festeggiata dal popolo, al contrario del solito: incombe la perdita definitiva di Candia (168). Bisogna allora arrivare alla metà degli anni Ottanta, con l’impresa di Morea, per ritrovare la città che si riunisce in modo eccezionale grazie alle notizie che provengono dal fronte.
Nel 1685, per la presa di Corone lo stendardo catturato agli Ottomani viene esposto sulla porta principale di San Marco, e in seguito depositato all’altare di San Gaetano, ai Teatini, da doge e signoria (169). Si è già inoltre notato come la regata del duca di Brunswick sia da mettersi in relazione alla vittoria del giugno 1686, cioè la presa di Navarino: è chiaro che siamo entrati in un altro momento decisivo della cerimonialità veneziana seicentesca (170).
Ovviamente il coinvolgimento cittadino continua a celebrare gli importanti eventi dell’Occidente, come si è visto nel caso dell’elezione del veneziano Pietro Ottoboni al papato nel 1689, ma la massima attenzione è rivolta ad Oriente, e l’Oriente è capace, con le sue notizie favolose, dal sapore antico, di aggregare molte componenti urbane e sociali alla festa cittadina. In particolare questo vale per la conquista di Nauplia.
Per festeggiare la vittoria, nel settembre 1686 si intraprende un notevole addobbo effimero nella contrada «patriarcale», Castello, del quale ci rimane il progetto dei fratelli Gaspare e Domenico Mauro. Su ognuno dei cinque ponti di fronte alla chiesa di San Pietro c’è un arco trionfale e il quinto, in particolare, è «una Machina architetata con prospetiva trionfale fiancheggiata con statue diverse, e sostenuta a colonati superbissimi divisa in due ordini, con Trofei guerrieri, e bandiere». Al centro vi sono le quattro aquile dei protagonisti della Lega contro il Turco, cioè Roma, Impero, Polonia, e Venezia. Si tiene inoltre una processione con carri che figurano Venezia che calpesta la Luna (cioè i Turchi) e varie imprese del Morosini. Il corteo si chiude con lo stesso Morosini incoronato di alloro dalla Gloria, e Venezia che assiste (171).
A Sant’Eufemia della Giudecca sono decisi festeggiamenti e addobbi per il 27 ottobre, con «un più veduto apparato, che principierà sopra il ponte di S. Eufemia a far pomposa mostra di un Archo trionfale, con arme, e statue [...] che corrisponderà verso il canal che guida alle Convertite, e dalla parte del Canal Grande due Castelli figurati per Navarin Vecchio, e nevo, presi in questa presente Campagna». Ci sarà anche «un bellissimo Theatro, essendovi nel bel mezo una figura viva, che significherà Venetia calpestante molti Turchi». In mezzo a giardini effimeri di aranci, limoni e cedri è poi realizzato «un formidabile Gigante figurato per il castigo [...] contro Turchi». Ci sono archi, teatri e logge, e «un eminente Trono», dove la Fede è «corteggiata da altre quattro figure vive rapresentanti la Sacra Lega cioè Roma, Vienna, Polonia, e Venetia vestite da donna con habiti, e giogie».
L’immancabile processione vede fanciulli «inghirlandati di lauro regio con Olivo alle mani», i soleri della «Vittoria» e della Morea conquistata, e quattordici cavalieri in scorta a Francesco Morosini, che procede a cavallo «con bastone alla Mano vestito da Generale con vessilli di tutte l’imprese da lui fatte nella Morea con quantità di Schiavi, Baghaglio, Carri, animali, [...] stendardi». Seguono un carro con Venezia trionfante e la Fede, e infine il capitolo di Sant’Eufemia con le reliquie, e i «principali» della parrocchia (172).
Gli eventi internazionali sono quindi pretesto per l’aggregazione delle «periferie» della città nel trionfo della Repubblica, luogo di fede profonda ma anche fede combattente, con quel confondersi di religione e recupero della classicità romana che la festa civica ha ereditato dal Rinascimento. E la forza della ritualità pubblica veneziana nel cercare di convogliare ogni possibile energia sociale nelle scadenze più alte della vita comunitaria si esprime anche nel coinvolgimento delle comunità straniere.
Abbiamo già riscontrato la presenza dei mercanti tedeschi nelle feste per i procuratori di San Marco, e della comunità greca in quelle per la vittoria del 1649. Nell’ottobre del 1686 è invece la zona del Ghetto che, come ci dice una fonte fin troppo encomiastica, viene «superbamente adobbato per ogni intorno». Nel Ghetto Novo, in particolare, viene realizzato un grande e alto teatro col «simolacro tutto al naturale del Grand’Heroe Morosini in habito generalitio, ed al lato dritto quello dell’invito Prencipe Generale figlio del Duca Serenissimo d’Annover, in portamento guerriero e nobile; nel sinistro, pur in piedi con baston di comando, il glorioso Generale di sbarco Conte Chrinxmarch». Genuflessi ai piedi del Morosini, alcuni pascià supplicanti presentano in coppe d’oro le chiavi delle maggiori città della Morea, e prendono «dal sommo Duce le leggi che dar sogliono i vinti a più magnanimi vincitori». Vengono inoltre innalzate due montagne, la prima delle quali porta «la statua equestre del sommo Comandante Morosini, armato tutto di ferro, ed in portamento della più terribile vennustà, quando venne, vidde, e vinse il Serraschier nel Monte Pallamida». La seconda rappresenta invece il porto di Nauplia, conquistato dal Leone marciano, con dei dirupi ove giacciono «simolacri naturalissimi di Turchi cadduti nel cimento de Veneti». In seno alla montagna si apre un’insenatura dove fanno «nobil comparsa alcune vele di guerra, galeazze, galere e navi, non dipinte, ma di rilevo così essatamente allestite che reccavano meraviglia».
Se in questa parte del Ghetto Novo si mette in luce la «Natione Alemanna, che tiene quivi la sua habitatione», anche nel Ghetto Vecchio non si è da meno: «nella piazza Spagnola ergevasi un vaghissimo anfiteatro, riccamente adobbato, e nel mezzo, sopra eminente palco, la statua equestre dell’acclamatissimo Generale Cornaro [...]. Tutto il circuito non angusto di questo vago Teatro era artificiosamente disposto in archi e colonnati di tutto rilevo e graziosa architettura, dentro a quali in gran quadroni erano i ritratti de Capitani più celebri di questo glorioso Dominio, e nel posto più degno sotto preziosissimo baldachino, quello del Regnante Giustiniani». Le stesse sinagoghe fanno «pompa delle loro ricchezze».
È così che vogliono «esprimere anco gl’Hebrei il loro giubilo per le vittorie d’un Potentato che fa egualmente temersi da gl’emuli, & amarsi anco da professori di Religione straniera». La grande partecipazione popolare di mascherati e musicisti porta l’autore a concludere che «la Hebraica Natione o Veneta o Forestiera di questo Ghetto, vive fedelissima al suo sovrano [...] il lor Ghetto, pari ad ogn’altro sudito più affettuoso, sa tributar con la voce e con l’opera al merito del suo Prencipe» (173).
Le pompose parole dell’anonimo descrittore delle feste del 1686 non devono però far dimenticare il rapporto complesso del governo con la comunità ebraica, anche in ambito cerimoniale. È nota l’importanza degli Ebrei tedeschi «strazzaroli» — specializzati nel mercato degli oggetti di seconda mano — nelle funzioni pubbliche e soprattutto nelle accoglienze veneziane ai principi stranieri (174). Nelle «condotte» del 1597 e 1607, ad esempio, vengono obbligati a rifornire le case degli ospiti. Nel 1634 gli stessi Ebrei si lamentano per l’eccessivo carico a loro assegnato, ma a seguito di queste «difficultà che andavano risorgendo per le pretensioni de particolari», tre anni dopo il senato ribadisce l’autorità «sopra le due sansarie de Ghetto assignate anticamente al Magistrato delle Rason Vechie, per valersene nell’eccedenze di publico servizio per fornir palazzi in occasione di aloggi et altri» (175).
Ancora nel 1638 Simone Luzzatto afferma che «quest’è delle più travagliose, e noiose cariche, che siano imposte a gl’Hebrei per la difficultà che si ha nell’essequirla, mutandosi ogni volta Palazzi per tali Alloggi» (176); ma nel 1663 la funzione degli Ebrei tedeschi è immutata e anche risaputa fuori città, se un relatore fiorentino delle formalità della Repubblica annota che, per il ricevimento dell’ambasciatore straordinario Valente Gonzaga, gli Ebrei «apparorono la stanza» (177).
L’unico «principe» a far rivivere alla Repubblica gli antichi fasti cerimoniali del Rinascimento è un proprio capitano e doge, Francesco Morosini. Eroe in battaglia, risolutore controverso della guerra di Candia, trionfatore in Grecia, anche al di là della grande ritualità è oggetto di un diluvio di immagini e parole, come colui che si è «gloriosamente identificato con la Morea», e che viene chiamato «Peloponnesiaco» sull’effigie in bronzo posta nella sala del consiglio dei dieci (178). In suo onore si moltiplicano dipinti, stampe, poemi e sculture. Il poeta Apostolo Zeno accosta il Morosini agli altri dogi che si conquistarono la carica col valore militare, ovvero Andrea Gritti e Sebastiano Venier, aggiungendo che però solo il Morosini ha conquistato un regno, è stato eletto per ben quattro volte capitano, e ha visto il governo tributargli generosi regali mentre era ancora in vita. Altri cantano lo stesso Morosini come Giasone, come Augusto, come Marte. Infine, fatto eccezionale, il senato fa erigere un arco in marmo nella sala dello Scrutinio dopo la sua morte (179).
Scrive di lui una cronaca contemporanea: «splendido nel banchettare, veste pomposamente, tiene una corte assai numerosa» (180). Però se al momento dell’elezione al dogado gode dell’appoggio popolare, espresso da scritte sopra i muri, il Freschot ci dice che non è amato dalla nobiltà, a causa di una certa fierezza nei discorsi e modi, fierezza appresa in guerra. Ad esempio, quando è nominato capitano generale da mar poco dopo esser stato criticato per la resa di Candia, invece di fare il solito accompagnamento al Lido si limita a ricevere l’omaggio della nobiltà a San Giorgio, mortificandola. Non è un caso se — annota ancora il francese — allorché viene nominato doge, ed è lontano da Venezia, gli vengono assegnati due «adjoints» incaricati di controllarne l’operato (181).
Dopo gli alti e bassi del periodo 1668-1670, è nel 1688 che, a seguito delle vicende della Morea e dell’elezione al dogado, si manifestano atteggiamenti speciali nei confronti del Morosini. Dopo l’elezione il senato decreta che un segretario si rechi alla flotta a portargli la berretta, e che lo stesso Morosini possa usare le insegne dogali con suo «arbitrio», e impiegare il bollo di piombo. Ma, a conferma del Freschot, è pure statuito che si eleggano due nobili come «consiglieri», e che le regalie e rendite del dogado debbano innanzitutto coprire le spese della servitù che tiene palazzo Ducale in sua assenza, e solo il rimanente sia lasciato al doge (182). In compenso, saputo della nomina al dogado, a Venezia palazzi e barche si illuminano, e campo Santo Stefano, dove c’è palazzo Morosini, si trasforma in «teatro» grazie a ricchi addobbi. La famiglia offre rinfreschi a nobili, trombettieri e artiglieri, e cibo, vino e denaro ai poveri e ai «traghetti». Si tengono festeggiamenti anche nella flotta, e qui egli riceve le insegne ducali sulla sua galera nel porto di Egina. Si distribuisce pane e denaro, si fanno scariche di moschetti e cannoni, si accendono luminarie, si costruisce una macchina per fuochi artificiali, coi quali viene rappresentato l’attacco vittorioso ad una moschea (183).
Il momento di grande letizia collettiva e di eccezionale dispiego cerimoniale, però, in grado di far rivivere i fasti dell’ingresso di Enrico di Francia nel 1574, è l’arrivo a Venezia del Morosini nel gennaio 1690. Il «ritorno in patria» è naturalmente descritto sul libro cerimoniale del pien collegio, ma viene preceduto da un opuscolo che pubblica in dettaglio i riti che si dovranno eseguire (184).
Il giorno della cerimonia, l’11 gennaio, il doge attracca al Lido con la propria galera «ornata pomposamente di molti stendardi turcheschi». Qui riceve, «sotto poppa coperto di ricchissimo manto generalitio», i dodici accompagnatori scelti dal governo con una legge del 15 ottobre 1689, che vestono in cremesino con «stole di velluto», e hanno allestito sontuose peote «tutte di fiorami d’oro intagliati con figure, arazzi, tapetti, ed altre livree». Segue una funzione a San Nicolò, mentre arriva il bucintoro con la serenissima signoria e il senato. Dopo l’incontro in chiesa fra il doge e le più alte magistrature, un grande corteo acquatico parte per il centro della città. Prima di smontare in Piazzetta, di fronte a palazzo Ducale il Morosini rinuncia alla carica di generale, consegnando il «bastone generalitio» al tenente generale Andrea Pisani.
Nella Piazzetta si erge un grandioso arco trionfale di quaranta piedi d’altezza, e poggiante su due logge «fornite con una galleria d’armi». L’arco ha due fontane di quindici piedi ciascuna, rappresentanti Nettuno e due delfini, dai quali esce del vino. Fino alla porta del palazzo Ducale c’è un colonnato, e qui pendono «trofei, insegne di guerra, teste artificiose, che figurano i turchi vinti, e prigionieri; poi tra le colonne si vedevano molte fiamme colorite, e gran quantità di Lune infrante». La corte del Palazzo è adorna di damaschi e di cinquantadue pitture delle imprese del festeggiato. Anche gli appartamenti dogali sono riempiti di oggetti di lusso, fra i quali una «galleria» di armi turche (185).
Il complesso addobbo per l’eroe di Morea pervade dunque la zona centrale del potere della Repubblica. Le strutture effimere richiamano alla mente gli apparati del Lido per Enrico III di Francia nel 1574, e soprattutto il quadro Scena immaginaria con palazzi veneziani di Joseph Heintz, a palazzo Albrizzi. Ambientato in una ipotetica Piazzetta di San Marco, riunisce edifici di diverse zone della città in una situazione irreale. La basilica marciana è affiancata dall’entrata dell’Arsenale, il Redentore è molto più vicino del normale, e sulla Piazzetta campeggia la statua equestre del Colleoni, al posto della colonna di Todaro. Sulla parte destra si affaccia la Scuola di San Marco, a gemellare i due poli celebrativi principali della Repubblica, San Marco e Santi Giovanni e Paolo, ma anche a rimpiazzare la romaneggiante Libreria sansoviniana con un impianto di architettura d’influenza codussiana. La Venezia dello Heintz è dunque una Venezia che esalta la sua peculiarità, «altera Roma» ma anche «nuova Costantinopoli» (186), un’idea che percorre secolari temi del mito veneziano, e che nel rientro del Morosini accompagna i gesti di una città che, proprio come nelle capitali imperiali, dedica il triumphus ad un proprio condottiero.
Il doge è infine incontrato in cima alla scala dei Giganti da due consiglieri, un capo di quaranta, il gran cancelliere e due segretari; poi si reca in maggior consiglio a presentarsi alla nobiltà, indi nei suoi appartamenti. Il giorno dopo, il 12 gennaio, avviene il giro in Piazza e la regolare incoronazione.
La Renier parla anche di una «finta battaglia di galere al Lido», che si tiene dopo le cerimonie d’accoglienza. La sera c’è un festino a palazzo Ducale, ripetuto poi per i tre giorni successivi. Alcune sale del Palazzo sono rivestite con le spoglie nemiche. Viene infine decisa un’andata dogale annuale ai Teatini, come si è detto, il giorno di san Gaetano (187).
Il significato dell’ingresso trionfale del «Peloponnesiaco» è dettato dal momento importante della Repubblica, ancora in guerra, ma pervasa da un entusiasmo paragonabile solo a quello che la città aveva provato per la vittoria di Lepanto nel 1571. Inoltre, non va dimenticato che il Morosini assomma su di sé le due cariche di massimo capitano marittimo e doge: «una decisione anomala, nella storia di Venezia, dove si era sempre voluto distinguere il potere civile da quello militare: una decisione non apprezzata da tutti (infatti lo storico Michele Foscarini la criticava), ma che stava a dimostrare come gli animi dei governanti della Repubblica fossero assorbiti soprattutto dal pensiero della guerra e della grande conquista che prometteva» (188). Ancora nel 1646, infatti, si erano verificate sottili tensioni a proposito del cumulo delle due cariche (189), ma la questione troverà pieno riscontro proprio alla morte del Morosini, nel 1694, allorché una legge approvata con fatica concederà solo ai più alti consessi governativi, e con difficile procedura, la possibilità di interrompere la normale elezione del capitano e proclamare il doge alla stessa carica (190).
Comunque sia, il grande protagonismo su scala cittadina del Morosini ha un’altra occasione nel 1690, con la consegna della spada e del «pileo» mandati in dono dal pontefice veneziano Alessandro VIII, raffigurata da Alessandro Piazza in un dipinto del Museo Correr. Il 24 aprile si presenta l’inviato apostolico in collegio, abbate Conti, con «habito lungo pavonazzo con maniche pur lunghe sin a terra, solito vestire nelle stanze di Sua Santità». Il 7 maggio, trenta senatori guidati da due cavalieri, Girolamo Zen e Ascanio Giustinian, vanno coi «piattoni ducali» a prendere il nunzio e l’inviato, vestito stavolta «dell’habito di Camera d’honore, che veste nella Capella Apostolica». I rappresentanti del pontefice incontrano in seguito il doge in senato, e l’inviato Conti prende posto dopo il doge stesso, «tenendo la mano dritta dal Giudice di Proprio». Il corteo si reca in San Marco, dove viene letto il breve papale dal segretario addetto alle cose di Roma. Poi il Conti mette il pileo in capo al doge, inginocchiato di fronte a lui sull’altare, e il nunzio gli consegna lo stocco sguainato. Finita la cerimonia, il doge torna a Palazzo mentre il popolo si mette in maschera per festeggiare in allegria (191).
Non è l’ultima grande celebrazione per il Morosini. Nel novembre 1692 il governo gli affida di nuovo il comando marittimo, e la deliberazione del maggior consiglio dice che al doge è «rimesso di valersi di tutte le insegne solite spiegarsi nei giorni solenni et in quell’occasioni che apparissero proprie alla sua prudenza» (192). Nel maggio 1693 si decide quindi la sua spedizione all’armata, per il giorno 24. La grandiosità della cerimonia per la partenza si intuisce dal fatto che il governo spende molto più di altre occasioni festive seicentesche, a giudicare da alcuni resoconti finanziari che conosciamo grazie alle annotazioni della magistratura delle rason vecchie (193).
La funzione è simile solo in apparenza a quella dei normali capitani generali da mar, poiché il Morosini possiede anche la carica dogale. Fuori dalla basilica di San Marco si costruisce una loggia, mentre all’interno vengono preparate tribune speciali per i senatori e le gentildonne. Sul molo c’è un arco trionfale, e al Lido le rason vecchie preparano una grande loggia con colonnato (194). Il Morosini si presenta la mattina con l’abito da generale, mentre i militari e i nobili di Terraferma s’incontrano a palazzo Ducale col senato, i parenti e gli ambasciatori. Dopo la funzione in San Marco, una processione in Piazza dona ancor più risalto alla dignità dogale e all’importanza della missione del Morosini, e gli conferisce sacralità. Il pomeriggio il capitano sale sul bucintoro con i trombetti e pifferi, la servitù, i generali della flotta, il senato e i consiglieri. Al Lido, dopo la funzione in San Nicolò il capitano sale sulla galera ducale assieme ai «Trionfi», e si innalza lo stendardo.
La sua missione dura però poco, e dopo la sua morte il collegio decide di fare una grande pompa funebre a Nauplia. L’ordine della marcia funeraria è inconsueto. Ci sono componenti militari straniere come la «Natione Oltramanna» e i Dragomanni.
Sopra un cavallo è portata la spada sguainata, accompagnata da diversi ufficiali e dai ministri della «Corte» dogale. «Segue il clero diviso in due, tanto greco, come latino, e nella metà di questo marchiavano le sei bandiere nere strascinate da sei soggetti di Terra Ferma». Vengono in seguito «tre cussini di velluto cremese con sopravi il corno ducale, bereta generalizia, bastoni, spada, speroni, stocco e pileo, portati da tre colonnelli». Procede poi il vice-cancelliere, e la bara «coperta con gran manto di veluto cremese, gl’angoli del quale erano sostenuti da 4 capi da Mar più graduati». Dietro vengono il provveditore generale e tutti i nobili veneziani e i cavalieri, e «sei pezzi di cannone alla roversia», e reggimenti. In chiesa c’è un «pomposo» catafalco (195).
A Venezia, alla morte del Morosini sono sospese le feste carnevalesche. Il senato decide che venga costruito un arco in suo onore, e che le sue «più cospicue e singolari attioni» siano dipinte su quadri ed esposte nella sala dello Scrutinio (196). Dell’imprese del Morosini ci rimangono infatti i quadri di Alessandro Piazza, ma ancora alla fine dell’Ottocento — cioè in un altro periodo in cui si aspira al rinnovamento della città lagunare — il suo trionfale ingresso è capace di suscitare l’attenzione di un pittore veneto, Giovanni Biasin (Pinacoteca dei Concordi, Rovigo).
Al morire del XVII secolo, così, col Morosini la Serenissima Repubblica celebra finalmente il ritorno trionfale all’Oriente, e, soprattutto, al Mediterraneo greco. La guerra di Morea è uno spartiacque importantissimo per la politica e l’economia veneziana, ma anche una straordinaria verifica della coscienza di se stessa della Repubblica, uno dei momenti più capaci, nella sua storia, di spiegarne le vittorie militari con la propria forza di Stato eterno, di esaltarne l’altissima coesione sociale, di celebrarne l’indissolubile legame col mare, garante della sua sopravvivenza. Un momento che non può passare senza lasciar traccia: a partire da ora, infatti, e per tutto il XVIII secolo, la nobiltà non cesserà di coltivare «l’illusione di una rinnovata presenza veneta in Levante [...]. Il mondo greco, dunque, come mito, come simbolo di un passato di potenza e ricchezza che poteva essere richiamato in vita» (197).
1. Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984 (Princeton [N.J.] 1981); Federica Ambrosini, Cerimonie, feste, lusso, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1996, pp. 441-520; Matteo Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia 1996. Per le descrizioni delle singole cerimonie sempre utili sono: Giustina Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, Venezia 19164; Bianca Tamassia Mazzarotto, Le feste veneziane: i giochi popolari, le cerimonie religiose e di governo illustrate da Gabriel Bella, Firenze 1961; Lina Urban Padoan, Feste ufficiali e trattenimenti privati, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 575-600. La più recente sintesi delle feste veneziane fra Medioevo e Settecento è Ead., Les fêtes de la République Sérénissime, in Fiora Gandolfi - Giandomenico Romanelli - Lina Urban Padoan, Venise en fête, Paris 1993, pp. 11-140.
2. Antonio Niero, Pietà ufficiale e pietà popolare in tempo di peste, in AA.VV., Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1979, pp. 289-290 (pp. 287-293); Gaetano Cozzi, Venezia nello scenario europeo (1517-1699), in Id. - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 114-116 (pp. 5-200).
3. Lina Urban Padoan, La festa della Madonna della Salute, Venezia 1988.
4. A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 191-192v.
5. E. Muir, Il rituale, p. 84; A. Niero, Pietà ufficiale, p. 290.
6. Fulvio Salimbeni, La chiesa veneziana nel Seicento, in La chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, pp. 26-28 (pp. 19-54); Antonio Niero, Pietà popolare e interessi politici nel culto di San Lorenzo Giustiniani, «Archivio Veneto», ser. V, 117, 1981, pp. 197-224.
7. Francesco Luna, Diario di Murano di Francesco Luna, 1625-1631, a cura di Vincenzo Zanetti, Venezia 1873, pp. 71-72; Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2043, cc. 122-124.
8. A. Niero, Pietà ufficiale, pp. 289-290; F. Salimbeni, La chiesa, pp. 34-35; A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 192v-194v, 6 giugno 1652; cc. 196-197, 28 novembre 1691.
9. A.S.V., Senato Terra, reg. 152, c. 294r-v, 18 agosto 1656; G. Renier Michiel, Origine, pp. 413-414, 446-448. Sulle feste religiose per le vittorie veneziane cf. anche Antonio Niero, Spiritualità popolare e dotta, in La chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992, p. 254 (pp. 253-290).
10. Lina Urban Padoan, La festa del Giovedì Grasso, Venezia 1988; Stefania Bertelli, Il Carnevale di Venezia nel Settecento, Roma 1992, pp. 11-16.
11. S. Bertelli, Il Carnevale di Venezia, pp. 29-30, 33, 61-65.
12. A. Niero, Spiritualità, pp. 255-256.
13. Impronto, e relatione della Divota Commemoratione della Passione del Redentore celebrata in Venetia l’anno MDCLXXXII Da’ Fratelli dell’Oratorio del SS. Crocefisso, e dell’Amor di Dio nel Pio Hospitale degl’Incurabili. Dedicata all’Illustrissimo, & Eccellentissimo Signor Francesco Morosini, Kavalier, Procurator di S. Marco, e Capitan Generale della Serenissima Republica di Venetia, Venetia 1686, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2991, bb. 1-4, c. 10v.
14. A. Niero, Spiritualità, pp. 260-261, 270.
15. Maximilien Misson, Nouveau voyage d’Italie. Avec un Mémoire contenant des Avis utiles à ceux qui voudront faire le mesme voyage. Quatrième edition, I, La Haye 1727, p. 264.
16. A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 457v-458v.
17. Relazione del prezioso Sangue di Nostro Signor Gesù Cristo, Che si mostra il terzo Venerdì di Marzo, ed il giorno della Ss. Croce nella Chiesa Ducal di S. Marco. Ed il Miracoloso che si mostra il Giovedì Santo, e la vigilia dell’Ascensione parimente nella Chiesa Ducal di S. Marco. Ed il Prezioso che si mostra la Domenica di Lazaro nella Chiesa de’ R.R. P.P. de’ Frari. Ed il Prezioso che si mostra la Domenica delle Palme nella Chiesa di S. Simon Grande. Ed il Miracoloso che si mostra il Venerdì Santo nella Chiesa di S. Maria Nuova, Venezia s.d.
18. F. Luna, Diario, pp. 71-72.
19. Vera, e Novissima Relatione delle stupendissime Feste, e Fuochi fatti nell’inclita Città di Venetia, per l’esaltazione al Pontificato dell’Eminentissimo Pietro Ottoboni Veneto, chiamato Alessandro VIII [...], Venetia 1688.
20. Abraham Nicolas Amelot de la Houssaie, Histoire du Gouvernement de Venise, I-II, Paris 1677: I, pp. 210-212; A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, c. 170, 2 ottobre 1671.
21. A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 192v (1631) e 445r-v.
22. Esempi ibid., cc. 447r-v e 448; ivi, Collegio, Cerimoniali, IV, c. 15v, 31 marzo 1712.
23. Sulla fiera mi permetto di rimandare alle mie osservazioni in I gesti, pp. 312-314. Come introduzione generale sulla Sensa cf. Lina Urban Padoan, Il bucintoro. La festa e la fiera della «Sensa» dalle origini alla caduta della Repubblica, Venezia 1988.
24. John Evelyn, Memoirs of John Evelyn, ESQ, F.R.S., Comprising His Diay, from 1641 to 1705-6, and a Selection of His Familiar Letters, a cura di William Bray, London s.d., pp. 159-160.
25. Jacob Spon - George Wheler, Voyage d’Italie, de Dalmatie, de Grèce, et du Levant, faits aux années 1675 & 1676, I, Amsterdam 1679, p. 58.
26. Lina Urban Padoan, Il Bucintoro secentesco e gli scultori Marcantonio ed Agostino Vanini, «Arte Veneta», 21, 1967, p. 232 (pp. 231-236); Ead., Il bucintoro, pp. 68-74.
27. Le feste et trionfi fatti dalla serenissima Signoria di Venetia nella felice venuta di Henrico III Christianissimo Re di Francia et di Polonia, in Pierre de Nolhac - Angelo Solerti, Il viaggio in Italia di Enrico III e le feste a Venezia, Ferrara, Mantova e Torino, Roma-Torino-Napoli 1890, p. 300 (si v. anche alle pp. 148-149); M. Casini, I gesti, pp. 292-293.
28. L’anello, ricorda un testimone del 1664, non è quello «donato dal Pontefice, [che] si conserva nel Tesoro», bensì «uno di mediocre valore, che senza toccar acqua, ripreso per aria da chi sotto lo sta aspettando, serve più per le nozze del marinaro, a cui tocca, che per quelle del mare» (Filippo Pizzichi, Viaggio per l’alta Italia del Serenissimo Principe di Toscana poi Granduca Cosimo III [1664], a cura di Domenico Moreni, Firenze 1828, p. 50).
29. Alexandre Toussaint de Limojon, Sieur de Saint Didier, La Ville et la république de Venise, Paris 1680, pp. 451-456.
30. Sui quattro banchetti dogali principali — i giorni di san Marco, Ascensione, san Vito e santo Stefano —, e le due «colazioni» di tono minore — ai Povegiotti la prima domenica dopo la Sensa, e ai nuovi ammessi in maggior consiglio il giorno di san Girolamo —, cf. Giuseppe Nicoletti, Dei banchetti pubblici al tempo della Repubblica Veneta, «Archivio Veneto», 33, 1887, pp. 165-169.
31. Per Bjurstrom, French Drawings. Sixteenth and Seventeenth Century, Stockholm 1976 (Drawings in Swedish Public Collections, 2), tavv. 660-682.
32. Saint-Didier, La Ville, pp. 461-466.
33. Stanley Chojnacki, Measuring Adulthood: Adolescente and Gender in Renaissance Venice, «Journal of Family History», 17, 1992, pp. 317-395; Lionello Venturi, Le compagnie della Calza, sec. XV-XVI, «Nuovo Archivio Veneto», n. ser., 16, 1908, pp. 161-221, e 17, 1909, pp. 140-233; Raimondo Guarino, Teatro e mutamenti. Rinascimento e spettacolo a Venezia, Bologna 1995.
34. F. Luna, Diario, pp. 13-15.
35. Giulio Bistort, Il Magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico, «Miscellanea di Storia Veneta edita per cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria», ser. III, 5, 1912, pp. 275-276.
36. Saint-Didier, La Ville, pp. 466-467. Sui «freschi»: Arnaldo Segarizzi, Regate di donne, freschi e passeggi a Venezia, «Emporium», 28, settembre 1908, pp. 213-224.
37. Angelo Bottarello, Breve descritione di Venetia. E de’ piacevoli trattenimenti, che godea prima, che s’introducessero i Teatri, e che tutta via gode, in tutte le quattro stagioni dell’Anno, ed in particolare in tempo di Carnovale, Venetia 1718, p. 10.
38. Si v. ad esempio A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 50, fasc. II, «Arti diverse, che devono venire in Sensa. Controversie seguite per tal causa».
39. Ibid., fasc. I, c. 55r-v, 17 gennaio 1689.
40. Ibid., c. 57r-v, 29 gennaio 1689.
41. Arthur Livingston, La vita veneziana nelle opere di Gian Francesco Busenello, Venezia 1913, p. 133.
42. Saint-Didier, La Ville, p. 467.
43. A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, c. 445r-v, 10 maggio 1646.
44. L’arcidiacono dà l’incenso nello stesso momento al doge e al patriarca: cf. Giovala Battista Pace, Cerimoniale magnum (1678), c. 126, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 1295. Sulle relazioni fra Venezia e Roma in questo periodo, e nel Seicento in generale, cf. F. Salimbeni, La chiesa, pp. 29-33.
45. Per un’amplissima analisi della questione si v. Paolo Sarpi, Scrittura seconda che tratta del legittimo dominio sopra il Mare Adriatico. 1612, 12 april, in Dai «Consulti». Il carteggio con l’ambasciatore Sir Dudley Carleton, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Torino 1979, pp. 162-170 (con introduzione di Gaetano Cozzi alle pp. 154-161); Antonio Battistella, Il dominio del Golfo, «Nuovo Archivio Veneto», n. ser., 35, 1918, pp. 30-79 (pp. 5-102); Adele Camera, La polemica del dominio sull’Adriatico nel secolo XVII, «Archivio Veneto», ser. V, 20, 1937, pp. 251-282; Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953, pp. 175 ss.; Alberto Bin, La Repubblica di Venezia e la questione adriatica, 1600-1620, Roma 1992, pp. 13-31; M. Casini, I gesti, pp. 319-329.
46. Saint-Didier, La Ville, pp. 456-460.
47. A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, II, pp. 134-138
48. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 46v-52, 30 ottobre-4 dicembre 1615 e passim.
49. Diario delle cose seguite doppo la morte del Serenissimo D.D. Silvestro Valier Doge di Venetia osservata secondo il Cerimoniale che è appresso l’Eccellentissimo Signore Cancellier Grande [...], in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 708 (= 7899).
50. A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, I, pp. 241-242. Sulla visualizzazione cerimoniale del «doppio corpo» della sovranità veneziana cf. M. Casini, I gesti, pp. 46-56.
51. Venezia Festeggiante per la Creazione Del Serenissimo Doge Giovanni Secondo Cornaro, XXII Maggio MDCCIX, Venezia 1709, tavv. 9 e 10.
52. Il ritorno del Priuli, eletto mentre è all’isola di Veglia, e le feste seguenti, sono descritte in Giovanni Sivos, Vita de’ dogi, IV, cc. 106v-110, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2121, e Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 19832, pp. 349-350. La legge respinta è in A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 35, Arcangelus, c. 50v, 15 maggio 1618.
53. A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 245v-246v, 18 settembre 1670.
54. A. Da Mosto, I dogi, pp. 403-404, 416.
55. Sui grandi cerimoniali cinquecenteschi delle dogaresse Zilia Priuli e Morosina Grimani, e sul loro significato politico, cf. M. Casini, I gesti, pp. 41-46.
56. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 39, Marcus, c. 171v, 10 gennaio 1646; Pompeo G. Molmenti, La dogaressa di Venezia [1887], Milano 1989, pp. 339-340.
57. A. Da Mosto, I dogi, p. 442.
58. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 210-211, 4 marzo 1694.
59. A. Da Mosto, I dogi, p. 452.
60. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 211r-v, 212v, 214r-v, 215v (1694-1697). Due lettere di congratulazioni alla dogaressa Valier nel 1694, la prima non attribuita, la seconda dell’ambasciatore francese, sono in Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 199, c. 151 r-v.
61. P.G. Molmenti, La dogaressa, pp. 339-347.
62. Casimir Freschot, Nouvelle relation de la Ville & République de Venise, Divisèe en trois parties, dont la premiere contient son Histoire Generale. La seconde traite du Gouvernement & des Moeurs de la Nation. Et la troisieme donne connoissance de toutes les familles patrices employées dans le Gouvernement, Utrecht 1709, pp. 247-248.
63. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 44, Busenellus, c. 126r-v, 13 luglio 1700; Eugenio Musatti, Storia della promissione ducale, Padova 1888, pp. 182-183.
64. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 40, Vianolus, c. 199, 6 marzo 1655. Il 10 agosto 1659 viene ribadita dal maggior consiglio l’antica regola che il doge non può avere contatto con i forestieri senza darne notizia al collegio. La cosa viene ribadita anche per la nobiltà: cf. Andrea Memmo, Scritture al doge sui cerimoniali d’accoglienza della Repubblica di Venezia (maggio-giugno 1768), cc. 45v-46, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2202 (= 8746).
65. A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, I, pp. 234-236.
66. 1676: A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 42, Ballarinus filius, c. 152r-v, 23 agosto 1676; A. Da Mosto, I dogi, p. 410. 1688: Bartolomeo Cecchetti, Il doge di Venezia, Venezia 1864, p. 144.
67. F. Luna, Diario, p. 44. Sul 1668 cf. A.N. Amelot de La Houssaie, Histoire, I, pp. 234-236.
68. Relazione delle cose di Venezia di monsignor Francesco d’Elci Pannocchieschi, nipote e coadiutore di monsignor Scipione, Nunzio apostolico in Venezia, in Pompeo G. Molmenti, Curiosità veneziane, Bologna 1919, p. 315.
69. Roberto Sabbadini, L’acquisto della tradizione. Tradizione aristocratica e nuova nobiltà a Venezia, Udine 1995, pp. 15, 29, 90; G. Cozzi, Venezia, p. 140.
70. G. Cozzi, Venezia, pp. 169-172; Piero Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 408-410 (pp. 407-436).
71. Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni venetiane, I-VI, Venezia 1824-1853: V, p. 165; P. Del Negro, Forme e istituzioni, p. 427; R. Sabbadini, L’acquisto, pp. 66-67.
72. Domenico Vincenti, Gli apparati veneti onero le feste fatte nell’elezione in Procuratore dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Giovanni da Pesaro Cavalier, Venezia 1641; Cristoforo Ivanovich, Minerva al tavolino. Lettere diverse di Proposta, e Risposta a varii personaggi, sparse d’alcuni componimenti in prosa, & in Verso: concernenti per lo più alle vittorie della Lega contro il turco fino questo anno, Prima Impressione, Parte Seconda, Venezia 1688, pp. 118-130; Da Venezia nel 1713. Lettere di Giovambatista Casotti, Accademico della Crusca, a Carlo Tommaso Strozzi e al Can. Lorenzo Gianni, «Miscellanea Pratese di cose inedite e rare», 12, 1866, pp. 8-11. Cf. anche A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, II, pp. 8-10; G. Bistort, Il Magistrato, pp. 266-272; L. Urban Padoan, Les fêtes, pp. 37-39.
73. J. Evelyn, Memoirs, p. 160.
74. Nel 1667, ad esempio, c’è il duca di Baviera, e nel 1713 il principe elettore di Sassonia (A. Memmo, Scritture al doge, c. 17; Da Venezia nel 1713, p. 10).
75. Scipione Pannocchieschi in P.G. Molmenti, Curiosità, p. 315.
76. Saint-Didier, La Ville, pp. 483-488.
77. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 42, Ballarinus filius, cc. 280-281, 4 luglio 1683 (a seguito della parte presa in senato il 16 giugno 1683).
78. G. Bistort, Il Magistrato, pp. 267-268.
79. Matteo Casini, Realtà e simboli del Cancellier Grande veneziano in età moderna (Secc. XVI-XVII), «Studi Veneziani», n. ser., 22, 1991, pp. 195-251.
80. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, IV, cc. 18-22, 18 agosto-25 settembre 1713; Da Venezia nel 1713, pp. 22-27.
81. Importanti a questo proposito le conclusioni del Sabbadini, che rivela come i «nuovi» nobili, entrati nel maggior consiglio nel Seicento con l’acquisto del titolo patrizio, non riescono a contrarre matrimoni non tanto con l’antica aristocrazia tout court, ma solo con i membri del suo settore più prestigioso (L’acquisto, pp. 76-82).
82. Giulio Strozzi, Lettera Del Signor Giulio Strozzi Famigliarmente scritta ad un suo Amico, ove gli dà conto del solenne possesso preso dall’Eminentissimo Signor Cardinal Cornaro patriarca di Venetia, li 27 di Giugno 1632, Venetia 1632; Nova, e Distinta Relatione del Solennissimo Ingresso da farsi il giorno di 22 e 25 Novembre 1688 da Monsignor Illustrissimo, e Reverendissimo Giovanni Badoaro Patriarcha di Venetia, e Primate della Dalmatia, & c., Venetia 1688.
83. G. Cozzi, Venezia, p. 163. Cf. anche Id., Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla cappella ducale di San Marco (secoli XVI-XVIII). Controversie con i procuratori di San Marco de supra e i patriarchi di Venezia, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», classe di scienze morali, lettere ed arti, 151, 1992-1993, p. 60 (pp. 1-69).
84. Da Venezia nel 1713, p. 31. Sulle elezioni dei parroci fin dal Cinquecento si v. G. Bistort, Il Magistrato, pp. 273-275.
85. A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, I, pp. 192-193.<Pag=156, Col=A/>
86. Firenze, Archivio di Stato, Miscellanea Medicea, 448, «Cerimoniali delle Corti», c. 183r-v. Si v. anche la dettagliata descrizione in A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, I, pp. 60-64.
87. Firenze, Archivio di Stato, Miscellanea Medicea, 448, «Cerimoniali delle Corti», c. 186.
88. Ibid., c. 185.
89. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 106-107v, 20 aprile-14 maggio 1640, e 151v-152, 25 maggio 1663. Interessante è anche il caso dei riti in onore del nuovo cardinale (e patrizio veneto) Pietro Basadonna, nel giugno 1673. Sul libro cerimoniale è scritto che per «tener lo stile delle Corone in casi simili [...] e non essendosi ritrovato essempio di caso simile nei registri della Secreta, s’è formato un particolare cerimoniale» (c. 172v, 30 giugno 1673).
90. Ibid., Collegio, Esposizioni Principi, reg. 75, cc. 155v-156, 5 maggio 1668.
91. A.N. Amelot de la Houssaie, Histoire, I, p. 61. Cf. anche Saint-Didier, La Ville, pp. 207-208.
92. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 182, c. 196r-v.
93. P.G. Molmenti, Curiosità, pp. 325-326 n.
94. Remarks on Several Parts of Italy, etc., in the Years 1701, 1702, 1703, in The Works of Joseph Addison, III, New York 1837, pp. 326-327.
95. Su quei trionfi cf. M. Casini, I gesti, pp. 306-310.
96. Relatione dell’Entrata pomposa fatta in Venetia Dall’Illustriss. & Eccellentiss. Signor de Crequy, Prencipe di Poix, Duca dell’Ediguiere, Pari, e Marescial di Francia, Consigliere di S.M. Christianissima ne’ suoi Consigli di Stato, [...] Et suo Ambasciator d’ubbidienza di ritorno dalla Santità di N. S. alla Serenissima Republica, Venetia 1634.
97. S. Bertelli, Il Carnevale di Venezia, p. 33; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, p. XVIII.
98. Margherita Costa, Istoria del viaggio d’Alemagna del Serenissimo Gran Duca di Toscana, Ferdinando Secondo dedicata all’Illustrissimo, & Eccellentissimo Sig. Don Giovanni de Erasso, Ambasciatore della Maestà Cattolica in Toscana, Venezia 1628, pp. 96-119 (la citazione è a pp. 111-112); Bernardino Moretti, Relazione delle solenni Feste fatte dalla Ser. Repubblica di Venezia al Ser. Gran Duca Cosimo II [sic] nel passaggio, che ha fatto S. A. per quello Stato nell’anno 1628. All’Ill., et Eccell. Sig. Duca Salviati, in Filippo Pizzichi, Viaggio per l’alta Italia del Serenissimo Principe di Toscana poi Granduca Cosimo III [1664], a cura di Domenico Moreni, Firenze 1828, pp. 255-263; F. Luna, Diario, pp. 50-53; A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 69-70v, 12 aprile 1628.
99. F. Pizzichi, Viaggio; L. Urban Padoan, Les fêtes, p. 72.
100. A. Memmo, Scritture al doge, c. 2v.
101. Bernardo Sartorio, I numi a diporto su l’Adriatico. Descrizione della Regatta Solenne Disposta in Venezia a godimento dell’Altezza Serenissima di Ferdinando Terzo Prencipe di Toscana. Unita la Narrativa d’altri trattenimenti ordinati a divertimento della medesima Altezza nel Carnovale del MDCLXXXVIII, Venezia [1688]; A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, c. 196r-v, 19 gennaio 1688; Sebastiano Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Gennaro 1688. Dedicata Al merito sublime dell’Alt. Sereniss.<Pag=156, Col=B/> del Signor Duca di Modona, Venetia 1688, pp. 58-62; Id., Pallade Veneta per il Mese di Febraro 1688, Dedicata Al merito sublime dell’Alt. Sereniss. del Signor Duca di Modona, Venetia 1688, pp. 45-68, 95-110; Id., Pallade Veneta per il Mese di Marzo 1688, Dedicata Al merito sublime dell’Alt. Sereniss. del Signor Duca di Modona, Venetia 1688, pp. 32-51.
102. S. Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Febraro 1688, pp. 49-50.
103. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, IV, c. 9r-v, 29 dicembre 1708-5 marzo 1709; Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 191/II, cc. 147-149v; G. Renier Michiel, Origine, pp. 285-305; [L. Manin], Feste fatte dalla Repubblica di Venezia a Federico IV re di Danimarca l’anno 1709, «Il Vaglio», 1, 14 maggio 1836, nr. 20, pp. 157-159.
104. Giovanni Scarabello, Il Settecento, in Gaetano Cozzi - Michael Knapton - Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 553-555 (pp. 551-681).
105. Giovanni Orlandini, Federico IV re di Danimarca visita l’Arsenale di Venezia (Nozze Dolcetti-Scarpa), Venezia 1900, pp. 14-15.
106. Lina Urban Padoan, Le Forze d’Ercole, Venezia 1988. Una figurazione di tali «forze» è nell’incisione dedicata al giovedì grasso da Giovanni Antonelli, nel XVIII secolo (Venezia, Museo Correr, ms. Stampa Cicogna 809).
107. Festa solenne de’ Tori nella Piazza grande di San Marco, presente S. M. Danese, VIII Febbraio 1709, in Vincenzo Coronelli, Singolarità di Venezia e del Suo Dominio, Venezia s.d., tav. 32.
108. Cit. in Emmanuele A. Cicogna, Lettera di Emmanuele Antonio Cicogna a Cleandro Conte di Prata intorno ad alcune regate veneziane pubbliche e private, in Cleandro Conte di Prata, La Regata di Venezia. Composizione poetica in dialetto veneziano [...] modificata ed ampliata dallo stesso autore, cui fa seguito una lettera sul medesimo argomento di Emmanuele Antonio Cav. Cicogna, Venezia 18562, p. 8 n.
109. Firenze, Archivio di Stato, Miscellanea Medicea, 448, «Cerimoniali delle Corti», c. 185v.
110. S. Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Febraro 1688, pp. 50-64; A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 224-226v, 3 ottobre 1704.
111. [L. Manin], Feste, pp. 158-159.
112. Giornale delle cose del mondo avvenute negli anni 1621-1623, ossia Avvisi di Corti che s’inserivano nei dispacci agli ambasciatori, Supplemento da Venezia, 9 ottobre 1621, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3184. La famosa testimonianza pittorica dello Heintz che è ora visibile al Museo Correr può forse essere riferita a un episodio del 1648: B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, p. 14.
113. Fausto Ciro, Venetia festiva per gli pomposi spettacoli fatti rappresentare dall’Illustriss. & Eccellentiss. Sig. d’Hussè Ambasciatore di S. M. Cristianissima, per la nascita del Rea/ Delfino di Francia, Venezia 1638; D. Vincenti, Gli apparati, pp. 48-49.
114. Michele Battagia, Cicalata sulle cacce di tori veneziane, Venezia 1844; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni, III, <Pag=157, Col=A/> pp. 467-471; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, pp. 2-25.
115. Un esempio è la caccia domenicale di tori «slegati» in corte del Forno a San Luca, forse organizzata dal duca di Brunswick nel settembre del 1664 (Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3257, fasc. 241, 14 settembre 1664, Supplemento da Venezia). Nel Carnevale del 1681 alcuni poveri e orfani faticano a rientrare ai loro Ospedali a causa dell’«impedimento de Tori» (Impronto, e relatione della Divota Commemoratione della Passione).
116. Sembra che tale caccia fosse a tori sciolti, e in favore delle cameriere della dogaressa (M. Battagia, Cicalata, p. 33). In un manoscritto del Museo Correr si dice che nel 1622 non si fa la caccia a Palazzo per essere indisposto il doge (Giornale delle cose, Supplemento da Venezia, 12 febbraio 1621 m.v.). Una testimonianza del 1718 è quella di A. Bottarello, Breve descritione, p. 18.
117. Il Gran Teatro di Venezia, overo descrizzione esatta Di cento delle più insigni Prospettive, e di altretante celebri Pitture della Medesima Città, Venetia 1720, tavv. 39-40.
118. In quell’anno il consiglio dei dieci vieta la caccia al toro al di fuori del Carnevale, concessa per «antica consuetudine». Il permesso dei dieci viene reso necessario per ogni circostanza: A.S.V., Consiglio dei Dieci, Comuni, reg. 472, c. 196v, 4 novembre 1639. Ciò non toglie che lo stesso consiglio debba intervenire di tanto in tanto per assicurare l’ordine, come nell’ottobre 1664, quando fa sospendere una caccia dei tori a San Nicolò (Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3257, fasc. 244, 19 ottobre 1664, Supplemento da Venezia).
119. Giornale delle cose, Supplemento da Venezia, 29 gennaio 1621. Sulla cosiddetta «festa dei Diedi» a San Giobbe di Cannaregio, caccia carnevalesca offerta dalla famiglia Cavagnis ai nobili Diedo di San Lorenzo, cf. M. Battagia, Cicalata, pp. 33-34; B. Tamassia Mazzarotto, Le feste, pp. 9-11.
120. Per le note che seguono si v., salvo altra indicazione, Robert C. Davis, The War of the Fists. Popular Culture and Public Violence in Late Renaissance Venice, New York-Oxford 1994. Cf. anche le osservazioni critiche di Gaetano Cozzi in «Journal of Modern History», 67, 1995, pp. 747-749.
121. Due episodi precisi sono le battagliole organizzate per Ferdinando di Toscana nel 1688 (non realizzata per via della pioggia), e per l’ambasciatore turco nel 1704 (A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, c. 196v, 1688, e c. 26, 1704).
122. R.C. Davis, The War, pp. 137, 139 e 143.
123. Gregorio Leti, Italia regnante o Vero Nova Descritione Dello Stato presente di tutti i Prencipati, e Republiche d’Italia, I, Geneva 1675, pp. 216-219; Saint-Didier, La Ville, pp. 488-490; C. Freschot, Nouvelle, p. 409.
124. La Venetia Edificata. Poema Eroico di Giulio Strozzi, Con gli Argomenti del Sig. Francesco Cortesi, Venetia 1624, p. 122, versi 84 e 86. Saint-Didier dice che nella sua epoca i pugni sono chiamati «stragge de’ Christiani» (La Ville, p. 503).
125. Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2991, c. 49.<Pag=157, Col=B/>
126. R.C. Davis, The War, p. 170; L. Urban Padoan, Le Forze.
127. S. Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Marzo 1688, p. 91; A. Da Mosto, I dogi, pp. 424-425.
128. Giornale delle cose, Supplemento da Venezia, 12 febbraio 1621.
129. Saint-Didier, La Ville, pp. 435-438.
130. S. Bertelli, Il Carnevale di Venezia, pp. 29-30; R.C. DAvis, The War, pp. 155-164.
131. Saint-Didier, La Ville, pp. 476-482.
132. A. Segarizzi, Regate di donne; E.A. Cicogna, Lettera; G. Renier Michiel, Origine, pp. 451-458; AA.VV., La Gondola, Venezia 1956 (soprattutto i saggi di Elio Zorzi e Mario Brunetti); L. Urban Padoan, Les fêtes, pp. 22-28. Due esempi dei numerosi opuscoli che cominciano a circolare sulle regate sono Relazione Della Regatta fatta il giorno di Martedì 18 Settembre 1696. Nel Canal Grande Della Serenissima Republica di Venezia. Col numero delle Regate, Prezij, e nomi de Valorosi Barcharoli che vogono nella medema, Venezia s.d.; Relatione Della sontuosa Regata da farsi il 4 Marzo 1709. Nel Canal Grande di Venetia, Col nome de Famosi Barcoroli, che vogheranno, Venetia 1709.
133. Giornale delle cose, Supplemento da Venezia, 24 settembre 1622 e 8 ottobre 1622.
134. F. Pizzichi, Viaggio, pp. 59-60; D. Vincenti, Gli apparati, pp. 49-50.
135. Cf. le premesse sulla festa barocca romana di Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Quarantore, fuochi d’allegrezza, catafalchi, mascherate e cose simili, in Id. - Silvia Carandini, L’effimero barocco. Strutture della festa nella Roma del ’600, I, Roma 1977, pp. 5-6; dello stesso Maurizio Fagiolo Dell’Arco, cf. anche Le forme dell’effimero, in AA.VV., Storia dell’arte italiana, XI, Forme e modelli, Torino 1982, pp. 201-235. Per Venezia: Giandomenico Romanelli, I mostri effimeri, in Bissone, peote e galleggianti, a cura di Id., Venezia 1980, pp. 5-7.
136. F. Luna, Diario, pp. 14-15.
137. A. Memmo, Scritture al doge, cc. 45v e 48; Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3257, fascc. 241-242, 14 e 24 settembre 1664, Supplemento da Venezia.
138. L. Urban Padoan, Les fêtes, pp. 68-69; Giovanni Francesco Gemelli Careri, Viaggi per l’Europa, in Id., Giro del mondo, VII, Venezia 1719, pp. 41-42. Sugli accordi intercorsi fra il duca e la Repubblica a partire dal dicembre 1684, cf. Kenneth M. Setton, Venice, Austria and the Turks in the Seventeenth Century, Philadelphia 1991, pp. 292-294.
139. Giovanni Matteo Alberti, Giuochi festivi e militari, danze, serenate, macchine, boschereccia artificiosa, regata solenne et altri sontuosi apprestamenti di allegrezza esposti alla sodisfattione universale dalle generosità dell’Altezza Serenissima di Ernesto Augusto Duca di Brunswich e Lunenburgo, Prencipe di Osnabruch ecc., Nel tempo di sua dimora in Venetia, Venetia 1686; Michelangelo Mariani, Il trionfo di Nettuno, s.n.t. [ma Venezia 1686]; La sontuosa Regatta Grande Fatta nella Regina del Mare Venetia. Li 25 giugno 1686. Distintamente descritta da D.P.B. Colla dichiaratione della Macchina, e Peote che l’accompagnavano. Colla nota delli Premij, Nomi, e Cognomi <Pag=158, Col=A/>delli Capi delle Barche, e di tutti quelli, che hanno ricevuto le Bandiere, Venezia 1687; C. Ivanovich, Minerva, pp. 447-452.
140. M. Mariani, Il trionfo, pp. 61-67.
141. Nova, e Distinta Relatione, pp. 204v-205.
142. G.M. Alberti, Giuochi, pp. 14, 16 e 18.
143. M. Mariani, Il trionfo, pp. 27-30. Su queste peote e quelle di cui si dirà, cf. le riproduzioni in Bissone, peote e galleggianti.
144. M. Mariani, Il trionfo, pp. 31-32, 42-43, 50-53.
145. B. Sartorio, I numi, p. 6; S. Coledone, Pallade veneta per il Mese di Marzo 1688, pp. 32-51; Vera distinta, e seconda Relatione della famosissima Regatta de’ premi. Col nome, e Cognome de vincitori Barcharolli regattanti che riportorno con Braura nella Regatta seguitta li 15 Marzo 1688 con la relation distinta della Machina, e Margherote, Venetia 1688.
146. B. Sartorio, I numi, pp. 9-10, 19 (e tav. X); S. Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Marzo 1688, pp. 37-42.
147. Dario Succi, «Que la fête continue»: ospiti illustri e feste straordinarie nelle vedute da Carlevarijs a Guardi, in Luca Carlevarijs e la pittura veneta del Settecento, a cura di Isabella Reale - Dario Succi, Catalogo della mostra di Padova, 25 settembre-26 dicembre 1994, Milano 1994, pp. 59-90.
148. G. Romanelli, I mostri, p. 5.
149. Vincenzo Coronelli, Singolarità di Venezia [...], Venezia s.d.; Id., Navi o Vascelli [...] raccolte nell’Accademia degli Argonauti, Venezia 1697.
150. G. Romanelli, I mostri, p. 7; Elena Povoledo, Mauro, in Enciclopedia dello Spettacolo, VII, Roma 1960, pp. 310-311; D. Succi, «Que la fête continue», pp. 67-68.
151. G. Strozzi, Lettera, pp. 14 ss. Sugli apparati festivi acquei nel XVI secolo cf. Lina Urban Padoan, Teatri e ‚Teatri del Mondo’ nella Venezia del Cinquecento, «Arte Veneta», 20, 1966, pp. 137-146; Enrica Benini Clementi, I «teatri del mondo» veneziani, «Quaderni di Teatro», 25, agosto 1984, pp. 62-64.
152. F. Ciro, Venetia festiva, pp. 67-69.
153. Nova, e Distinta Relatione Delle feste, & allegrezza fatte nell’Inclita Città di Venetia, [...] per l’acquisto di Valona, e Canina, prese dall’armi della Serenissima Republica di Venetia [...], Venetia 1690.
154. S. Coledone, Pallade Veneta per il Mese di Febraro 1688, p. 95. Cf. anche L. Urban Padoan, La festa del Giovedì, pp. 52-60.
155. Rodolfo Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, II, Milano 1981, tav. 44.5; Antonio Morassi, Preludio per Antonio Stom, detto «Il Tonino», «Pantheon», 20, 1962, nr. 5, pp. 291-306.
156. Si v. le seguenti incisioni del Museo Correr: Giovanni Antonelli, Incisione del giovedì grasso, Stampa Cicogna 809; Le Nobilissime Feste che si fanno in Venezia il Giovedì Grasso, Stampe Gherro 2178; Volo, fuochi artificiali, et altri Giuochi nel Giovedì grasso, in L’Italie illustrée, Leiden 1757, nr. 112.
157. A.S.V., Ufficiali alle Rason Vecchie, b. 226. Per il XVIII secolo si v. anche la b. 225.
158. M. Fagiolo Dell’Arco - S. Carandini, L’effimero barocco, I; Barocco Romano e Barocco Italiano. Il teatro,<Pag=158, Col=B/> l’effimero, l’allegoria, a cura di Marcello Fagiolo-Maria Luisa Madonna, Roma 1985.
159. Funerale In SS. Giovanni e Paolo, Celebrato XIII MAGGIO MDCCIX, del SS. Doge Luigi Mocenigo, morto VI MAGGIO MDCCIX, incisione in Vincenzo Coronelli, Venezia Festeggiante per la Creazione Del Serenissimo Doge Giovanni Secondo Cornaro, XXII Maggio MDCCIX, Venezia 1709, tav. 11; La Galleria di Minerva overo notizie universali di quanto è stato scritto da Letterati d’Europa non solo nel presente secolo ma ancora ne’ già trascorsi, in qualunque materia Sacra, e Profana [..], V, Venezia 1709, pp. 187-188.
160. Da Venezia nel 1713, pp. 22-25.
161. P.G. Molmenti, Curiosità, p. 316.
162. Gaetano Cozzi, Una vicenda nella Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua «eroica amicizia», «Bollettino dell’Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano», 2, 1960, p. 104 (pp. 61-154). Sull’opuscolo cf. P. Del Negro, Forme e istituzioni, pp. 411 ss.
163. M. Mariani, Il trionfo, p. 54.
164. Antonio Nigro, Una chiesa votiva della guerra di Candia: Santa Maria del Pianto, in Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia 1570-1670, Mostra a palazzo Ducale, 1986, Venezia 1986, pp. 174-176. La cerimonia della fondazione di Santa Maria del Pianto è in A.S.V., Procuratie di San Marco, Supra, reg. 99, cc. 126v-127, 13 novembre 1647.
165. Virginio dalla Spada, Giubili, e acclamationi della città di Venetia per la vittoria contro l’armata turchesca, ottenuta l’anno 1649 a’ 12 Maggio dell’Armi della Serenissima Republica in Asia nel Porto di Focchie, Venetia 1649; Ordini d’orationi et processioni con indulgenza per ringratiare la Divina Maestà nella Gloriosa Vittoria Navale della Serenissima Repubblica di Venetia contro Turchi. Di Commissione di Mons. Illustr. & Reverend. Gio. Francesco Moresini Patriarcha di Venetia, & Primate della Dalmatia, & c., Venezia 1649.
166. A.S.V., Senato Terra, reg. 152, cc. 294-298v, 18-2 agosto 1656; G. Renier Michiel, Origine, pp. 413-414.
167. A.S.V., Senato Terra, reg. 176, cc. 169-171, 21 aprile 1668; ivi, Collegio, Cerimoniali, III, cc. 162v- 163, 21 aprile 1668.
168. Alvise Zorzi, La Repubblica del Leone, Milano 1979, p. 421.
169. G. Renier Michiel, Origine, p. 439.
170. A. Da Mosto, I dogi, pp. 421-422.
171. Gaspare e Domenico Mauro, Breve racconto Delle Feste, e degl’Applausi, Fatti dalla Contrada patriarcale di Castello, per le Vittorie Segnalatissime, della Serenissima Republica di Venetia, nella Morea, Con l’Acquisto di Napoli di Romania, sotto il comando del Generalissimo Francesco Morosini, Venetia 1686.
172. Distinta relatione Del Solenne apparato, Processione, e Cavalcata, che si farà il Giorno di Domenica, 27 Ottobre nella Parochia di S. Eufemia Della Giudeca, Per la Presa di Napoli di Romania, Venetia 1686.
173. Il Ghetto veneto essultante per le segnalate vittorie della Serenissima Republica di Venetia nella Morea, Sotto il comando dell’Eccellentiss. Sig. Francesco Morosini K.<Pag=159, Col=A/> Procurator Capitan General, Venetia 1686. Cf. anche L. Urban Padoan, Les fêtes, p. 51.
174. Brian Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice, Oxford 1971 (trad. it. La politica sociale della Repubblica di Venezia, I-II, Roma 1980: II, pp. 605-606). Sulla comunità ebraica si v. le recentissime note di Gaetano Cozzi, Giustizia «contaminata». Vicende giudiziarie di nobili ed ebrei nella Venezia del Seicento, Venezia 1996.
175. A.S.V., Ufficiali alle Rason Vecchie, b. 1, Capitolare, cc. 153-154, 3 giugno 1637.
176. Simone Luzzatto, Discorso circa il stato de gl’Hebrei. Et in particolar dimoranti nell’inclita Città di Venetia, Venetia 1638, pp. 29v-30. Devo queste notizie alla cortesia di Patricia Allerston.
177. Firenze, Archivio di Stato, Miscellanea Medicea, 103, ins. 15, c. 1r-v.
178. G. Cozzi, Venezia, p. 144.
179. Antonio Medin, La storia della Repubblica di Venezia nella poesia, Milano 1904; A. Da Mosto, I dogi, pp. 427-429.
180. A. Da Mosto, I dogi, p. 435.
181. C. Freschot, Nouvelle, pp. 241-245.
182. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 199, cc. 222r-v e 405, 3 aprile 1688.
183. Distinto Raguaglio delle sontuose Feste principiate in Venezia il terzo giorno d’aprile 1688. Per la felice esaltazione alla sublime Dignità di Doge del Serenissimo Francesco Morosini, Capitan Generale dell’Armi Gloriosissime della Serenissima Republica Veneta [...], In Venetia & in Padova s.d.; G. Renier Michiel, Origine, pp. 445-446.
184. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, cc. 201v-202v, 20 gennaio 1690; Destinto Racconto, e Relatione verissima delle Cerimonie, dell’Incoronatione del Prencipe Gloriosissimo Francesco Morosini fu Capitan General dell’Armi della Serenissima Republica di Venetia [...], Venetia 1689.
185. Felice Gallo, Distinto ragguaglio delle Cerimonie, e Sollennità nel Ricevimento in Venetia dell’Invitto e Serenissimo Doge, Francesco Morosini, Co’ nomi degli Ambasciatori, che lo ricevono con le sue Peote, e Governatori di Galere, che accompagnano il Bucintoro, e con la narratione delle due Fontane, e dell’Arco Trionfale, e di tutti gl’altri apparatti. Et sua Incoronatione, Venetia 1690.
186. Stefania Mason Rinaldi, L’occhio ingannevole, in Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, a cura di Lionello Puppi - Giandomenico Romanelli, Milano 1985, pp. 82-88; Bernard Aikema - Boudewijn Bakker, Painters of Venice. The Story of the Venetian «Veduta», Amsterdam-The Hague 1990, pp. 85-86; Manfredo Tafuri, La «nuova Constantinopoli». La rappresentazione della «renovatio» nella Venezia dell’Umanesimo (1450-1509), «Rassegna», 4, marzo 1982, pp. 25-38.
187. G. Renier Michiel, Origine, pp. 446-448.
188. G. Cozzi, Venezia, p. 144.
189. L’Amelot riferisce che, dopo l’effimera esperienza di Francesco Erizzo, il senato vieta che in futuro il doge possa essere eletto capitano generale da mar o di terra, ma non ho trovato cenno alla disposizione relativa (Histoire, I, p. 233). Mi chiedo<Pag=159, Col=B/> se il riferimento non sia la contemporanea «correzione» alla promissione dogale che, ricordando che il doge deve sostenere il «decoro» della Repubblica, e quindi le sue «attioni» non devono rischiare di alterarsi o «indebolirsi», vieta al doge di lasciare la città (A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 39, Marcus, c. 170v, 10 gennaio 1646).
190. Ibid., reg. 43, Maria, c. 206r-v, 22 febbraio 1694.
191. Ivi, Collegio, Cerimoniali, III, cc. 203-204v, 15 maggio 1690; Vera, et distinta Relatione Delle Sollennità, & Cerimonie praticate nella funtione delle presentazione del Pileo, onero Cimiero & Stocco inviato dalla Santità di Nostro Signore Papa Alessandro VIII al Serenissimo Principe di Venetia Francesco Morosini [...], Venetia 1690; Vera, et distinta Relatione Della Speditione, e Funtione fatta Dall’Illustrissimo, et Reverendissimo Monsignor D. Michel’Angelo Conti, Destinato a portare lo Stocco e Pileo Benedetti dalla N. S. Papa Alessandro VIII alla Serenissima Repubblica di Venetia, Venetia 1690.
192. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, c. 206r-v, 20 novembre 1692.
193. Il resocónto delle spese sostenute per la partenza del Morosini (36.646 ducati), si trova assieme a quello per la venuta dei principi di Savoia nel 1608 (3.675 ducati), dell’ambasciatore di Francia nel 1635 (13.305 ducati), e dell’ambasciatore di Moscovia nel 1663 (2.112 ducati), e risulta dunque di gran lunga il più elevato: cf. ivi, Ufficiali alle Rason Vecchie, b. 222.
194. L. Urban Padoan, Les fêtes, pp. 51-52.
195. A.S.V., Collegio, Cerimoniali, III, c. 209r-v, 15 gennaio 1694.
196. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo-Dolfin 199, c. 243r-v, 11 marzo 1694.
197. Giuseppe Gullino, Politica ed economia, a Venezia, nell’età di Benedetto Marcello (1686-1739), in Benedetto Marcello. La sua opera e il suo tempo, a cura di Claudio Madricardo-Franco Rossi, Firenze 1988, pp. 13-14 (pp. 3-15).