CERCHI, Cerchio
Probabilmente figlio terzogenito di Oliviero di Cerchio e della sua prima moglie, che pare provenisse dalla famiglia Portinari, nacque nella prima parte del sec. XIII.
Nonostante la forse già consolidata tradizione guelfa e l'adesione della sua famiglia- che tuttavia era nella Firenze del tempo ancor non abbastanza illustre perché ne siano rimaste notizie coeve assolutamente degne di fede -, al movimento del "popolo vecchio", il C. rimase in Firenze dopo la battaglia di Montaperti (1266) e, mentre la maggioranza dei familiari sceglievano o erano costretti all'esilio, mantenne un atteggiamento almeno in apparenza favorevole al regime ghibellino. Lo troviamo difatti membro del Consiglio dei trecento in un momento cruciale del riassetto dell'ordine cittadino da parte dei vincitori di Montaperti, cioè tra novembre 1260 e gennaio 1261, quando il fratello Torrigiano - catturato in quella battaglia - languiva prigioniero e i Perugini (la famiglia Cerchi godeva della doppia cittadinanza di Firenze e di Perugia) si adoperavano in ogni modo per la sua liberazione, a tale scopo addirittura inviando messi a Manfredi.
Il giudizio da dare sul presunto e comunque assai cauto filoghibellinismo del C. come di altri esponenti del ceto popolano costituisce un problema ancor oggi aperto e - data la scarsità delle fonti - non facilmente risolvibile. È comunque molto probabile che la sua posizione, più che a personali simpatie politiche, rispondesse a una precisa politica nell'ambito vuoi consortile vuoi della compagnia bancaria e in genere dei già cospicui beni e interessi cerchieschi. In altri termini, appare accettabile la tesi secondo cui il C., in quanto meno compromesso di altri della sua famiglia con la causa guelfo-popolana, e quindi più accetto alla parte ghibellina al potere, sia rimasto a curare gli interessi comuni anche per conto dei familiari travolti dalla sconfitta guelfa: e ciò forse con l'assenso formale, senza dubbio non in disaccordo con gli altri membri della famiglia. La posizione del C. somiglia quindi molto a quella di altri personaggi notevoli della vita fiorentina del tempo, che pure avevano un passato personale e familiare di guelfi - Uberto de' Pucci, Mainetto de' Rimbertini, Lamberto dell'Antella, Maffeo de' Tedaldi - e che nonostante ciò erano rimasti in città dove costituivano un gruppo distinto, non pregiudizialmente ostile e neppure propriamente estraneo al governo, ma naturalmente disposto alla simpatia per gli esuli e quindi pronto per essere usato in eventuali trattative e per servire da tramite in caso di tregue o di passaggi di potere.
In effetti già dal 1261, sin da quando cioè si delineò l'intervento in Italia di Carlo d'Angiò chiamato dal papa a scalzare Manfredi dal trono siciliano, nel ceto dirigente ghibellino di Firenze cominciarono a delinearsi i primi segni d'inquietudine, mentre i "collaborazionisti moderati" iniziarono con circospezione a prendere le loro distanze da esso. Il papa faceva pressioni sulle case bancarie fiorentine affinché esse gli procurassero il danaro necessario alla spedizione angioina: poiché la scomunica lanciata contro Firenze consentiva ai debitori di banchi fiorentini di liberarsi legittimamente dai loro obblighi finanziari, l'assoluzione da essa era la più ambita ricompensa cui aspiravano gli operatori economici che ne erano stati colpiti. Anche il C. si lasciò persuadere, e difatti un documento pontificio del 28 maggio 1264 attesta che egli era stato liberato dalla scomunica. Egli rimase comunque fedele alla sua linea politica, che si dovrà considerare forse non tanto ambigua, quanto ispirata a una volontà programmatica di mediazione. La sua adesione al programma pontificio, prezzo per l'assoluzione dalla scomunica, non poté certo restare segreta; tuttavia egli si impegnò in quella direzione più tardi di altri concittadini, e poté così restare in Firenze nonostante tutto, come dice Giovanni Villani, "non sospetto" e sempre considerato "de' maggiori della terra". Il delicato biennio 1264-1266, cruciale nella lotta fra Carlo d'Angiò e Manfredi, vide il C. assumere con energia la guida della famiglia e del banco. Nel 1265 la direzione della compagnia, che era stata tenuta fin dal 1254 da suo fratello Odarrigo, gli fu da questo ceduta.
Incerte le cause di questo passaggio di poteri: forse Odarrigo era stanco, si sentiva vecchio e malato (sarebbe scomparso difatti nel 1268); forse era troppo compromesso politicamente per poter continuare a dirigere la compagnia in una fase di radicalizzazione del conflitto guelfo-ghibellino, una fase nella quale solo un possibilista abile e consumato avrebbe avuto probabilità di cavarsela onorevolmente. I motivi sostanziali della decisione di Odarrigo stanno comunque certamente nel fatto che ormai il C., guadagnatasi di fresco la fiducia del papa e guardato in Firenze come il massimo rappresentante di quanti - dopo essersi rifiutati, in nome della "ragione di mercatura", di lasciarsi coinvolgere dalla rovina delle parti guelfa e popolana, anzi forse già dapprima di legare troppo strettamente questa a quella - non intendevano adesso veder compromessa la prosperità economica di Firenze da un troppo violento mutamento di governo.La prudenza con cui il C. si mosse fu estrema. Solo il 28 apr. 1265 - quando la discesa di Carlo era ormai sicura - il papa poteva comunicare da Perugia al suo legato di aver ricevuto un prestito dai banchieri fiorentini per la ormai bandita crociata contro Manfredi, una crociata per le imposte a vantaggio della quale i banchieri senesi e fiorentini erano stati dichiarati depositari. Il formale giuramento di fedeltà al papa della compagnia dei Cerchi (della quale facevano parte anche Naddo de' Bonizzi, Bindo de' Macci, Tegghia de' Tedaldi, Guiduccio Cavalcanti, Manfredi di Odarrigo Cerchi) si ebbe solo nel giugno 1265.
Dopo la battaglia di Benevento, le manovre dei ghibellini di Firenze tendenti a trovare un accordo con la Chiesa concessero al C. nuovo prestigio e nuovo spazio politico. È possibile che egli fosse uno dei sessanta mercanti presentati dal Comune al pontefice in garanzia d'obbedienza, in cambio della piena assoluzione di Firenze dalla scomunica. Certamente si distinse nei patteggiamenti che accompagnarono lo sgombero della città da parte del conte Guido Novello e dei suoi cavalieri tedeschi; fu anzi, con Uberto de' Pucci e Guidingo de' Savorigi, uno dei tre popolani che dopo il "tumulto di S. Martino" il conte chiese cavalcassero accanto a lui facendogli da scorta e da garanzia fino all'uscita dalla cerchia urbana.
Contemporaneamente - forse subito prima, ma più probabilmente subito dopo la giornata di S. Martino - il popolo aveva creato quella magistratura detta Consiglio dei trentasei, che avrebbe dovuto impedire l'instaurarsi di un troppo rigido regime guelfo e ricondurre invece la città al governo popolano del periodo 1250-58, quando cioè il "popolo vecchio" aveva saputo, pur nel tendenziale filoguelfismo, tenere a bada anche le istanze guelfe più estreme. Di tale magistratura il C. fece parte. Evidentemente stava appunto prevalendo il parere dei moderati quali il C. stesso e Uberto de' Pucci, ch'erano stati forse già contrari al progressivo tingersi di guelfismo del "popolo vecchio" e che dopo Montaperti avevano tenuto un atteggiamento di mediazione tra vincitori e vinti, anche nella certezza che le fortune dell'un campo non erano più stabili di quanto le sfortune dell'altro fossero definitive. Già dal 1266, dunque, si delinea col C. quell'atteggiamento di moderazione nei confronti dei ghibellini e di resistenza nei confronti del volere pontificio e della prepotenza angioina, che sarebbe poi stato caratteristico del nipote Vieri e dei guelfi di parte bianca.
È dunque un'operazione forse coscientemente mistificatoria quella di Bindaccio, il cronista di famiglia di casa Cerchi, il quale tenta di far passare il C. per l'eroe della restaurazione guelfo-popolana in Firenze: "Di poi, riformata la città a parte guelfa, il Popolo di Firenze ordinò di fare onore a Cerchio e a' suoi, per memoria de' suoi fratelli rimasti morti a Monte Aperti, e per l'altre gran cose adoperatesi e fatte per lo Comune di Firenze. Volle il Popolo di Firenze che fusson fatti nove cavalieri. E così furono con grande magnificenzia e letizia di tutta la città". A parte le inesattezze volontarie o meno di questa pagina - la forzatura maggiore in essa contenuta sta nello stretto rapporto che vi viene prospettato tra causa guelfa e causa popolana -, il C. e altri familiari furono visti al contrario con sospetto dai guelli intransigenti negli anni successivi al 1267; e v'è una profonda coerenza politica, caratterizzata dalla volontà di mediazione, tra il restare a Firenze del C. dopo Montaperti e il suo facilitare il ritorno di Firenze alla parte guelfa dopo la caduta di Manfredi e la giornata di S. Martino.
Dopo gli episodi legati al rientro dei guelfi, comunque, le notizie relative al C. divengono vaghe e incerte. Un passo ambiguo del testamento del fratello Odarrigo, rogato nell'ottobre 1268, ha fatto pensare che il C. fosse a quella data già scomparso; in realtà, sempre sulla base di quel documento, sembra doversi invece concludere che egli fosse vivo e in buona salute, dal momento che il fratello lo nomina suo erede universale.
Tra i suoi figli, si ricordano: Torrigiano; Giovanni, il cui figlio Scolaio sposò Ermellina di Lapo Saltarelli; Bindo, che con Vieri di Torrigiano fu protagonista nel 1280 dell'acquisto delle possessioni urbane del conte Guido Salvatico.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Riformagioni, 1260 nov.; Diplom. Cerchi-Canigiani, 1265 maggio 2; Notar. antecosimiano. Attaviano di Chiaro, A 400, f. 8v, 1268 ott.; Thesaurus novus anecdot., a cura di E. Martène-U. Durand, II, Lutetiae Par. 1717, col. 127; B. de' Cerchi, Ricordanze, in I. Lamii Deliciae erud., VII,Florentiae 1739, p. 311; G. Villani, Cronica, a cura di F. Gherardi Dragomanni, Firenze 1844-1845, libro VII, cap. 14; Delizie degli eruditi toscani, IX(1777), pp. 21, 35; Les registres du pape Clément IV, a cura di E. Jordan, Paris 1895, n. 86, pp. 22 s.; Les regútres d'Urbain IV, a cura di J. Guiraud, II, Paris 1901, n. 574, p. 292; R. Davidsohn, Forschungen zur Gesch. von Florenz, III,Berlin 1901, registri 60, 67, pp. 18 s., 23 s.; IV, ibid. 1908, p. 163; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze 1962, p. 46; R. Davidsohn, Storia di Firenze, II,Firenze 1956, pp. 700, 705, 765, 832; III, ibid. 1957, pp. 99, 700; IV, ibid. 1960, p. 34; VI, ibid. 1965, pp. 371 ss.; G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Milano 1966, pp. 217, 225 s.; Id., La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze…,a cura di E. Sestan, Milano 1972, p. 200; S. Raveggi-M. Tarassi-D. Medici-P. Parenti, Ghibellini, guelfi e popolo grasso. I detentori del potere politico a Firenze…,Firenze 1978, ad Indicem.