Cerbero
. Favoloso mostro a tre teste della mitologia greca, figlio di Tifeo e di Echidna, posto a guardia dell'Ade. È ripetutamente ricordato nei poemi antichi, greci e latini: Virgilio descrive questo " ianitor Orci " in mezzo ad ossa sparse in un antro sanguinolento (Aen. VIII 296-297), mostro di immane grandezza (VI 417 e 423 " ingens "; 422 " immania terga "), con i tre colli irti di serpenti e rabbiosamente pronto a latrare contro gli estranei. Ovidio aggiunge a questi elementi la bava velenosa (Met. IV 501, VII 416-424).
La Sibilla ed Enea (Aen. VI 417-423) lo incontrano non appena varcato l'Acheronte, e la Sibilla lo fa tacere gettandogli un'offa di miele e di erbe soporifere, immediatamente inghiottita con avida fame dal cane infernale. I poeti latini, e i mitografi e commentatori medievali, ricordano particolarmente la cattura di C. (nelle chiose medievali compare anche la forma Tricerbero) da parte di Ercole, quando questi discese all'Averno per liberare Teseo: con i colli legati da triplice catena C. venne violentemente strascinato fuori dalle sedi infernali (cfr. Aen. VIII 296-297; Met. VII 410-415, IX 185, ecc.). I mitografi medievali danno di C. una curiosa interpretazione allegorica (attestata già in Servio, ad Aen. VI 395 e 420 e VIII 297): poiché " Cerberus dictus est quasi χρεοβόρος, id est carnem vorans ", egli figurerebbe la terra che divora e consuma i corpi dei sepolti (e il miele dell'offa gettatagli dalla Sibilla sarebbe il simbolo del corpo imbalsamato); altri sviluppano in senso diverso l'indicazione di Servio e spiegano le tre teste come i tre continenti in cui è suddivisa la terra abitata; Isidoro e Rabano Mauro infine vi vedono le tre età dell'uomo.
Nel descrivere l'incontro con il mostro (If VI 13-33) D. ha ben presenti i versi dell'Eneide; tuttavia il Virgilio dantesco getta nelle bramose canne di C. non già un'offa di miele, bensì terra (il particolare è forse da collegare alla citata spiegazione pseudo-etimologica; per il rapporto carne-terra, cfr. Gen. 3, 19), che il cane divora ingordamente (e cfr. anche If I 103). Ma non è questa la differenza più notevole: da guardiano degli Inferi in D. il cane diviene invece custode di un particolare cerchio, quello dei golosi, sovra i quali egli con tre gole caninamente latra (VI 14; per l'immagine, cfr. Aen. VI 417-418; Met. IV 450-451; Seneca Herc. furens 783-784). Al proposito occorre ricordare che l'ingordigia è vizio tradizionalmente attribuito ai cani e che, sulla scorta dell'episodio dell'offa, i chiosatori medievali presentano unanimemente C. come " vorax ", anzi " voracissimus ". Come per tutti gli altri demoni mitologici, anche di C. l'Alighieri altera l'aspetto sottolineandone maggiormente i caratteri mostruosi, che in questo caso divengono emblematici del vizio di gola: gli occhi vermigli (ritenuti indizio di insaziabile e avida bramosia), i peli intorno alla bocca sudici e neri, sporchi di cibo, di fanghiglia e fors'anche di sangue (Herc. furens 784 " [Cerberi] sordidum tabo caput "), il ventre largo, per il continuo divorare, le zampe artigliate, pronte ad arraffare e a sbranare il cibo. Vari particolari di questa descrizione di C. erano già presenti nella tradizione medievale (cfr., ad esempio, i versi pubblicati da A. Pey, Essai sur " Li romans d'Eneas " d'après les manuscrits de la Bibliothèque Impériale, Parigi 1856: " [Cerbère] gambes et pies a tos velus / et les ortels a tos crocus; / tels ongles a com uns grifons / et est couez com uns gaignons. / Agu dos a et recorbé / et le ventre gros et enflé: / une estrume a desor l'eskine / et maigre et sece la poitrine; / espalles grailes et bras fors, / les mains a teles com un tors. / Trois testes a tel com un chien. / Onques ne vi si laide rien "). È curioso come D. (e così molte chiose medievali e gli stessi versi francesi testé citati) non raccolga assolutamente un particolare pur tanto importante quale quello dei serpenti attorcigliati intorno ai colli di C., nonostante le indicazioni di Virgilio, Ovidio, Lucano, Seneca: il che fa pensare che D. riprenda la descrizione di C. da qualche chiosa o da qualche opera compilativa (come per Caco: v.), più che seguire direttamente il testo virgiliano. C. è poi appellato, con epiteto che è proprio del demonio (cfr. If XXXIV 108), gran vermo (VI 22), perché vive tra quella putrefazione e si ciba di terra (Gen. 3, 14). Per mostruoso che appaia, C. non è un animale, ma un vero e proprio demonio; e del demonio ha la perversione bestiale, in cui umano e animalesco sono fusi e caricaturati nel modo più abnorme. Forse prendendo spunto dal cenno virgiliano all'antro sanguinolento di C. e alle ossa che vi sono sparse (Aen. VIII 296-297), D. immagina che il mostro a forma di cane - cui in testi del tempo si attribuiva particolare ferocia (cfr. ad es. Libro della distruzione di Troia, in Schiaffini, Testi 181: " Tanti n'uccise intorno a sé, che gli Greci dicieano: Questi non è uomo: questi è Cerbero ") - azzanni, come cibo, quelle anime che vissero, come cani, solo in funzione del cibo. È discusso se C. si limiti a squartare i golosi o li ingoi (secondo una variante del v. 18 diffusissima nei codici). Il Barbi (Problemi I 264) osserva che " né prima né dopo non traspare nessuna conferma per una pena così notevole come sarebbe l'ingoiare; con le sue tre gole il mostro latra caninamente (v. 14); e anche dai vv. 31-32 sembra potersi dedurre che dalle bocche di lui altra pena non abbiano le anime se non quella d'essere intronate "; ma è difficile pensare che un cane squarti senza giovarsi anche delle zanne (e si ricordi anche la citata pseudo-etimologia addotta dai medievali). Non vi osta che non si parli della ricomposizione dei corpi (che comunque occorre ammettere anche per le dilacerazioni), giacché il poeta non vi fa cenno esplicito neppure per gli scialacquatori (If XIII 127-129).
I più antichi commentatori danteschi sono concordi nell'attribuire alle tre teste di C. significato allegorico (interessante l'interpretazione che di ogni particolare della figura del mostro fornisce il Boccaccio); i primissimi vi vedono i tre modi del vizio di gola: secondo qualità, secondo quantità, secondo continuo (cioè desiderio continuato di mangiare, senza preoccuparsi di quantità e qualità). Tale indicazione probabilmente coglie nel vero; ma ben poco aggiunge al significato della scena e alla viva rappresentazione del mostro, ritratto mentre assorda con i suoi latrati i dannati e li azzanna, e, quando compaiono i due estranei, tutto fremente di eccitazione e di desiderio di azzannare, anche per il triste ricordo di precedenti discese di vivi agl'Inferi. In If IX 98-99 il Messo rinfaccia appunto alle Furie, che si rammaricavano di non aver punito in modo esemplare l'assalto che Teseo portò alle forze'infernali, l'onta di C. vinto e strascinato a viva forza fuori dall'Averno da Ercole, sì che il mostro ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo. Al proposito è da ricordare che in alcuni inni cristiani e in varie descrizioni poetiche della discesa di Cristo agl'Inferi si descrive il terrore che colse il cane infernale all'apparizione del Redentore. E al Redentore - dietro i nomi pagani di Teseo e di Ercole - alludono le recriminazioni delle Furie e la risposta del Messo.
Bibl. - H.T. Silverstein, D. and Virgil the mystic,in " Harvard Studies and Notes in Philology and Literature " XIV (1932), 51-82; J.J. Savage, The medieval tradition of C., in " Traditio " VII (1949-1951) 405-410; G. Padoan, Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio, in " Lettere italiane " XI (1959) 449-456.