CENTONE (dal lat. cento "veste o coltre di cenci di varî colori")
Nome generalmente usato per indicare un componimento letterario risultante dalla giustapposizione di parole, frasi, emistichi o versi d'altro autore famoso.
I primi centoni o poemi in greco (ὁμηρικοί κέντρωνες), tessuti con frasi e con emistichi tolti dai poemi d'Omero, furono d'argomento storico, mitologico o genealogico, e forse divennero frequenti nel sec. II dell'era volgare e sono ricordati nelle epigrafi (A. Letronne, Recueil d'escriptions d'Égypte, II, 347 f; G. Kaibel, Epigram. graec., 649, 998, 1009). Ma i centoni omerici d'argomento cristiano che ci sono pervenuti, g'incominciarono a scrivere assai tardi, non prima del sec. V, e per imitazione del centone di Proba, in sì gran fama presto gli eruditi d'Occidente. Non sappiamo chi fosse il primo a tentare l'impresa, ma per i documenti non c'è dato risalire più indietro d'Eudossia imperatrice, a cui i cronisti attribuiscono i centoni omerici, ὁμηρόκεντρα, che ci restano intorno alla storia biblica e alla vita di Cristo.
Le edizioni più notevoli di centoni sono quelle a cura di Aldo Manuzio del 1501 e del 1504 di Francoforte del 1541, a cura del Fabricius del 1564, di Lione del 1577, a cura di Enrico Stefano del 1578, di Parigi del 1589, dello Chapelet del 1609, a cura di L. H. Teucher del 1793, e finalmente quelle a cura di L. Ludwich del 1893 a Königsberg, e del 1897 a Lipsia. Sono brevi composizioni in esametri, senz'altro legame l'una con l'altra che non sia quello cronologico; forse sulla scorta dei centoni latini precedenti. Ogni gruppo di versi ha un titolo suo, ma sovente si sono uniti più centoni in uno o viceversa; da ciò segue che, mentre in alcune edizioni si contano fin 95 centoni, altre ne contano solamente 60, altre 41, e in ultimo il Ludwich ne numera 50.
I centoni latini, dei quali i greci sono sovente imitazione, furono numerosi, e per esercizio scolastico se ne tolsero da Ovidio, Lucilio, Lucano, Silio Italico e Stazio; pare tuttavia che Ovidio, come fonte, fosse preferito, perché, poeta di vena abbondante, offriva al centonario più ricca messe di vocaboli. Ma senza dubbio più celebri furono i centoni virgiliani, che sembra s'incominciassero a scrivere per diletto o come compito di scuola fin dal sec. II. Osidio Geta compose la sua tragedia Medea in versi virgiliani; Quinto Glitio Felice è detto nell'epigrafe vergilianus poeta, e veri poeti centonarî furono Ausonio, Proba, Luxorio, Pomponio e Mavorzio, chiamato dai contemporanei Maro iunior.
Questi singolari poemi sono in tutto sedici, e la maggior raccolta è nel codice Salmasiano, ora Parigino 10.318, che sarebbe stato scritto nel sec. VII.
La fama maggiore meritamente conseguì quello di Proba, la coltissima patrizia degli Anici. Essa veramente ne scrisse due, che corrispondono a due periodi diversi della sua vita. Il primo, perduto, narrava la guerra di Costanzo contro il ribelle Magnenzio e fu scritto quando forse la poetessa non era ancora cristiana; il secondo, composto tra il 360 e il 370, esponeva i fatti dell'Antico Testamento e la vita di Cristo in 694 esametri, e fu presto famoso. Ma la poesia centonariai che ebbe nel sec. IV e nel V la sua maggior diffusione, non poté a lungo sostenersi per il faticoso artificio che vi era connesso, e restò poi nei secoli seguenti esercizio isolato di qualche ozioso verseggiatore.
Bibl.: Poetae christiani minores, in Corpus script. eccles. lat., XVI, Vienna 1887; F. Ermini, Il centone di Proba e al poesia centonaria latina, Roma 1909; M. Schanz, Geschichte der römische Litteratur, IV, i, 2ª edizione, Monaco 1914, pp. 219-221.
Musica. - Anche in musica il centone è un insieme di pezzi raccolti qua e là. Nel 1700 si fecero centoni (detti anche pasticci) riunendo in un'opera di teatro frammenti anche di autori diversi, oppure inserendo pezzi nuovi in opere già esistenti, e i maestri medesimi non altrimenti si comportavano con pezzi tratti dalle loro opere precedenti. Ancora nel 1819 G. Rossini accomodava così Edoardo e Cristina. La pratica del centone non implica per necessità che l'opera debba rimanere su di un basso livello, e basti ricordare che la Messa in si minore di G.S. Bach, uno dei massimi monumenti della musica e dello spirito umano, comprende varie parti ch'erano state scritte prima e con altre parole, per varie cantate. Ma questo genere di rimpasti non poteva rispondere al senso ed al concetto del periodo romantico, e i centoni sparirono durante buona parte del sec. XIX. Verso la fine del secolo essi riapparvero ancora sotto forma di opere teatrali, rabberciate con musica presa dalle varie composizioni d'un dato maestro, il quale spesso era protagonista dell'azione. Oggi il centone è ritornato di moda, e non lo sdegnano compositori come I. Stravinski, A. Honegger, O. Respighi, ecc. Ma nel Medioevo esso stette a vera base della composizione musicale, tanto che comporre e centonizzare (fr. centoniser) erano sinonimi.
Nelle prime origini del canto liturgico (v.) si nota la tradizione ebraica di cantar testi in prosa con formule alla fine e alle divisioni dei periodi; da ciò tutto un formulario melodico, in certo modo di dominio pubblico, per ogni genere e grado di solennità dei canti. Ed ecco passata nella musica liturgica l'arte di avvicendare, di connettere frasi tipiche; arte tanto riconosciuta e legittima, che gli antichi scrittori dicevano centone. l'Antifonario con le melodie che S. Gregorio Magno aveva preparate (o fatte preparare) per la liturgia da lui riformata.
Si esprimeva così il senso dall'impersonale collettività, in certo modo riunita nella fraternità liturgica; senso che andò cedendo terreno all'espressione dell'individualità dell'artista singolo con tale lentezza, che soltanto nel periodo romantico fu del tutto chiara la missione spirituale dell'artista creatore, e la personalità dell'opera si ritenne canone e misura del genio.
Difatti, in musica, non solo in tutto il Medioevo i compositori adoperavano formule comuni, specialmente alle cadenze (che sono i momenti decisivi del periodo e quindi del discorso musicale); ma ancora nel sec. XVIII andamenti, modulazioni, progressioni, ecc., costituivano un vero formulario impersonale, che ognuno adoperava ai fini proprî. Quanta parte di questa tradizione sopravviva ancor oggi nessuno può dire con sicurezza; è probabile che tale tradizione abbia per base vere necessità imposte dal senso musicale, che in gran parte è rimasto ancora inesplorato, malgrado secoli di studî e di teorie.