CENNINI, Cennino
Nacque da Drea (Andrea) a Colle di Val d'Elsa nella seconda metà del sec. XIV. Il padre era probabilmente pittore, e il C. si indirizzò sulla stessa via, facendo il suo tirocinio nella bottega fiorentina di Agnolo Gaddi, figlio e allievo di Taddeo Gaddi, che a sua volta era stato discepolo di Giotto. Quasi nulla sappiamo della sua vita. Il suo nome non compare, a Firenze, né nelle matricole dell'arte, né nella compagnia dei pittori; gli unici riferimenti cronologici puntuali provengono da due strumenti notarili del 1398 (Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico, 13 ag. 1398, notaio Bandino Bandini dei Brazzi; 19 ag. 1398, notaio Geremia d'Antonio), che attestano la sua presenza a Padova come pittore al servizio di Francesco da Carrara e l'avvenuto matrimonio con una Ricca di Cittadella.
A Padova il C. era giunto forse al seguito di Bonifacio Lupi, fondatore di quell'ospedale fiorentino di S. Bonifacio in cui era conservata l'unica sua opera pressoché sicura (Milanesi, 1859, pp. VI s.); nell'anno 1398 l'artista doveva risiedere a Padova ormai da tempo, dato che la moglie proveniva dal contado padovano. Altre notizie si possono desumere dal primo capitolo del trattato per cui egli è oggi ricordato, il Libro dell'Arte: nella sua "genealogia pittorica" parte dal suo maestro, Agnolo di Taddeo Gaddi con cui rimase dodici anni, per risalire a Giotto, dal C. proclamato padre della nuova pittura.
Come pittore, egli si definisce "piccolo maestro esercitante nell'arte di dipintoria", forse non tanto per coscienza del suo effettivo valore, quanto per una sorta di retorica modestia; comunque, dalle opere che di recente si è cercato di raggruppare intorno al suo nome (Boskovits, 1973), egli apparirebbe come uno dei tanti seguaci artigianali della tarda tradizione giottesca, quale si tramandava a Firenze allo scorcio del '300 nelle botteghe degli Orcagna, dei Gaddi e dei Gerini, che traduce le nuove notazioni naturalistiche e il gusto decorativo del gotico tardo in un "idioma campagnolo" e che sembra volutamente disinteressarsi di organicità compositiva e spaziale e di sofisticate eleganze. Il Vasari cita una Madonna e santi sotto la loggia dell'ospedale di S. Bonifacio, ancora ben conservata ai suoi tempi, che nel 1787 fu trasportata su tela in seguito al rifacimento dell'ospedale voluto da Pietro Leopoldo. L'affresco è stato identificato in un pezzo, ora pressoché illeggibile, in deposito presso le Gallerie fiorentine e presentato alla prima Mostra degli affreschi staccati al Forte del Belvedere (Firenze 1957; cfr. catal. pp. 28 s.); tuttavia U. Procacci (cfr. Boskovits, 1973) non crede che si tratti della Madonna citata dal Vasari che egli considera perduta.
Non hanno basi convincenti nemmeno le altre opere riferite al C. in passato: se ne veda l'elenco e la discussione nell'articolo del Boskovits (1973), a cui spetta la ricostruzione di un corpus piuttosto omogeneo di opere articolate intorno agli affreschi con Storie di s. Stefano, dell'abbazia di San Lucchese, vicino a Poggibonsi. Questi, tradizionalmente attribuiti a Taddeo Gaddi ma datati 1388, sonofirmati con l'iscrizione mutila "collensis patria" probabilmente riferibile, sia pur senza la certezza assoluta, all'autore di queste storie, cittadino di Colle quale era appunto il C. (Neri, 1903; Thieme-Becker). Intorno a questo ciclo il Boskovits ha raccolto altre due opere sicuramente legate a Colle di Val d'Elsa; cioè la Natività della Vergine nella Pinacoteca di Siena ma proveniente da una chiesa di Colle, e un tabernacolo con la Madonna col Bambino, per altro mutilo e molto alterato, tuttora in una via della cittadina toscana; inoltre due santi, Agostino (?) e Gregorio, scomparti di un polittico ora agli Staatliche Museen di Berlino-Dahlem e un gruppo di tre Madonne col Bambino, una a Greenwich (Conn.), coll. Hylard, e due ora di ubicazione ignota dopo essere passate sui mercati di Monaco e di Firenze.
Comunque, la fama del C. resta oggi affidata unicamente al suo Libro dell'Arte, importante trattato che riassume in modo esemplare le esperienze tecniche maturate nei laboratori della grande pittura toscana del Trecento. L'opera fu scritta di sicuro a Padova e dopo un certo lasso di tempo dalla partenza del C. dalla Toscana, probabilmente nei primi anni del sec. XV; lo si deduce dall'uso frequente di termini veneti, dalla presenza, fra gli altri santi invocati all'inizio dell'opera, anche di s. Antonio da Padova, e da un accenno ai costumi delle donne "pavane" che, contrariamente a quelle toscane, non usano né acque e né colori per "farsi belle" (capitolo 180).
Nato sullo sfondo della cultura fiorentina tardotrecentesca, sollecitata dalla straordinaria fioritura pittorica del secolo - oltre che dalle spinte dell'umanesimo nascente - a meditare sui problemi teorici e tecnici connessi con la pratica artistica (dal Boccaccio al Sacchetti, a Filippo Villani), il trattato si dimostra uno dei più interessanti incunaboli della moderna critica d'arte. Il tributo all'enciclopedismo scolastico è pagato solo nelle movenze iniziali: anzitutto la partenza da Adamo ed Eva, e la concezione che le arti, come le scienze, derivino per "necessità" dal lavoro de primi uomini (la pittura sarebbe, di conseguenza, ars mechanica). L'antecedente più prossimo del Libro, nel genere della trattatistica d'arte, è l'opera del prete Teofilo (sec. XII), forse neppure nota al Cennini. Vi è, del resto, una sostanziale diversità nei presupposti e nelle finalità che perseguono i due autori, riconducibile ovviamente alle sollecitazioni di ben diverse civiltà culturali. Teofilo non dimostrava alcun interesse per l'individualità artistica, attento unicamente alla funzione religiosa delle opere pittoriche; il C., consapevole umanisticamente che sono le tendenze naturali a condurre all'arte, vuole anzitutto insegnare a diventar pittore, secondo l'intuizione tutta rinascimentale che la fantasia creatrice debba essere sorretta da una consumata abilità tecnica. Dipingere per il C. è "avere fantasia e, operazione di mano di trovar cose non vedute (cacciandosi sotto ombra di naturali) e formar con la mano, dando a intendere quello che non è sia". È la consapevolezza dell'autonomia della forma artistica nel confronti del reale e del suo contenuto come contenuto di verità. La tendenza al disegno è per lui frutto di "amor naturale" e "animo gentile" (quest'epiteto inteso nella medesima accezione dello stil novo): ma essa va disciplinata, fin dalla primissima età, dalla guida di un maestro, verso cui l'allievo si disporrà in un rapporto di amore e soprattutto di obbedienza.
A più riprese il C. ribadisce l'importanza della scuola nella formazione di una personalità artistica: il discepolo si eserciti pure a copiare i disegni dei grandi maestri, ma abbia presto cura di sceglierne uno solo, possibilmente il migliore e di maggior fama, e perseveri lungamente in quell'esercizio. La preoccupazione sottesa a raccomandazione così precise è di evitare il pericolo dell'eclettismo, diffuso nella pittura fiorentina del secondo Trecento e identificato dal C. come il massimo ostacolo al raggiungimento di uno stile individuale. Il rischio di rimanere sterilmente legati al maestro sarà evitato dalla "fantasia" dell'allievo, che basterà a garantire l'acquisazione di una propria maniera. Dal maestro si apprende anche il modo di affrontare la natura, che per il C. è "la più perfetta guida" che l'artista possa avere, purché non sia la prima a sorreggerlo. Ma né l'imitazione della natura né quella del maestro conducono di per sé all'arte: è la capacità "fantastica" del pittore a far sì che il processo imitativo si rapprenda in forme originali. Il disegno, infatti, è ben altro che mero atto di imitazione meccanica: secondo il C., esso è soprattutto quello che è "entro la testa", cioè forma intellettuale, momento attivamente creativo. Perché poi il disegno acquisti plasticità, gli è necessario il chiaroscuro. Ma qui il C. ondeggia tra l'affermazione della necessità di tale artificio e la consapevolezza che esso viene a spezzare la compatta luminosità del colore, per cui suggerisce di non indulgere eccessivamente in pieghe ed ombre. Dei colori il C. avvertì fortemente il fascino. Si spiega così la minuziosità con cui nel suo ricettario ne distingue le tonalità, dà consigli sulla loro preparazione e conservazione, raccomanda la cura più meticolosa nella scelta delle materie prime. Altro elemento notevole del trattato è la definizione delle misure e delle proporzioni dell'uomo. Nel fissare la teoria delle proporzioni il C. non abbandona, peraltro, taluni pregiudizi propriamente medievali, come il rifiuto di studiare la figura femminile perché "la donna non ha alcuna perfetta misura".
Al di là degli elementi confluenti dal fondo antico e classico sotteso alla cultura coeva, la linea culturale del C. fa senz'altro capo a Giotto, il cui insegnamento gli giunge seppure mediato da due generazioni di pittori. L'autore ha piena consapevolezza della innovazione profonda operata dal grande maestro toscano. Per la prima volta compare nella trattatistica d'arte il termine "moderno", attribuito dal C. allo stile di Giotto, colui che "rimutò l'arte del dipignere di greco [cioè bizantino] in latino e ridusse al moderno". E il Libro dell'Arte, in fondo, ha la sua ragion d'essere proprio nella consapevolezza della superiorità della scuola giottesca, consapevolezza che fa tutt'uno con l'impegno a tramandarne il complesso dei risultati tecnici acquisiti. E insomma elementi indicativi di un nuovo modo di concepire l'arte si avvertono un po' in tutto il libro, fin dal primo capitolo: l'esaltazione della pittura, seconda solo alla scienza e coronata dalla poesia, il germe dei futuri "paragoni" delle arti che tanta parte avranno nella letteratura artistica, soprattutto del Cinquecento; l'affermazione del valore della "fantasia", nell'artista, accanto all'"operazione di mano", e della "gentilezza d'animo" (cap. 2), quale primo requisito per "coloro che si muovono di venire a quest'arte, piacendoli per amor naturale", che riscattano l'arte dalla concezione "meccanica" medievale. Estremamente moderno appare il consiglio di illuminare le figure dipinte sui muri delle cappelle secondo l'incidenza della luce naturale proveniente dalla finestra principale, "dotando [le figure] di ragione di rilievo"; un precetto che ha suggerito al Mesnil (1925-26) un rapporto di dipendenza dal testo del C. delle soluzioni di Masaccio nella cappella Brancacci al Carmine. Ultimo merito da ascrivere al C., ma certo di rilievo non minore, l'averci consegnato la terminologia tecnica e artistica usata nelle botteghe degli antichi pittori toscani.
Il Vasari, che conosceva il testo del C. attraverso un manoscritto in possesso di "Giuliano orefice senese" (probabilmente Giuliano di Niccolò Morelli, detto il Barba) e che per primo parla del Libro dell'Arte, denuncia una certa sufficienza nei confronti dell'antico pittore che "ebbe per gran segreti e rarissimi ... quelle cose [i dati tecnici] oggi notissime", ipotizzando un po' malignamente che il C. "volle sapere almeno le maniere dei colori, delle tempere, delle colle e dello ingessare ... poiché non gli riuscì imparare a perfettamente dipingere". Inoltre il Vasari pare fraintendere proprio uno dei passi più significativi - quello già citato su Giotto - interpretando il "rimutare" come un semplice "tradurre", annullando nelle parole del C. il valore innovatore di Giotto che lo scrittore aveva perfettamente intuito. Il Baldinucci si limita a trascrivere i passi biografici del Libro dell'Arte e del testo del Vasari, diffondendosi solo sul problema della pittura a olio per cercare di conciliare la versione del Vasari - che faceva risalire ad Antonello da Messina l'introduzione in Italia di questa tecnica "fiamminga" - con le "regole" contenute nei capitoli 89-94 del trattato dove risulta, ad una data molto precoce, la conoscenza da parte degli italiani di questa tecnica che il C. definisce "tedesca".
Il testo del C. non fu ignorato nei secoli successivi; C. Tambroni, che nel 1821 ne curò la prima edizione a stampa, cita A. M. Bandini (Catalogus codicum Italicorum Bibliothecae Mediceae-Laurentianae, Florentiae 1778, V, p. 307) e G. G. Bottari (note alla vita di Agnolo Gaddi nella rara edizione livornese delle Vite vasariane, 1767-1772) fra quanti conoscevano il testo del C., ed osserva che fu forse il disprezzo del Vasari che "levò l'animo a chi avrebbe potuto renderlo noto" con una pubblicazione a stampa. Ed è ancora il Tambroni ad avanzar l'ipotesi, pienamente giustificata, che anche Raffaello Borghini conoscesse perfettamente il testo del C. tanto da plagiarlo quasi alla lettera, senza citarne la fonte, nel secondo libro de Il Riposo (Firenze 1584), nel dialogo sulle tecniche della pittura (cfr. Cennini, capp. 7-26 e Borghini, pp. 138-146).
Il Libro dell'Arte suscitò interesse anche nel Lanzi che incaricò il Manni, per altro senza molto successo, di prenderne visione, finché solo nel 1821, come già detto, il Tambroni ne curò la prima edizione a stampa sulla base di un manoscritto, per altro lacunoso e incompleto, esistente nella Biblioteca Vaticana e scoperto da Angelo Mai (cod. Ottoboniano 2974). Nel 1859 comparve la seconda edizione curata da Carlo e Gaetano Milanesi sul codice più antico (Firenze, Bibl. Laurenziana, LXXVIII, cod. 23), datato 1437 e già noto al Baldinucci. Un terzo esemplare cinquecentesco è nella Biblioteca Riccardiana di Firenze (cod. 2190). Quanto al manoscritto, conservato in casa Beltramini a Colle di Val d'Elsa fino ai tempi del Manni (Milanesi, 1859, p. XXV), pare perduto, mentre è impossibile dire se quello visto dal Vasari in mano a Giuliano senese corrisponda a quello esistente attualmente alla Laurenziana, come afferma il Baldinucci. Una volta iniziate le edizioni a stampa, l'interesse per il libro del C. fu, almeno fino alla fine dell'Ottocento, essenzialmente tecnico, come rivelano gli articoli e i testi che al C. e al suo Libro dedicano ampio spazio: si veda Eastlake (1847) - nel 1844 era apparsa a Londra la prima traduzione inglese del Libro dell'Arte a cura di [M. Ph.] Merrifield -, Toman (1886), Berger (1897).
Quest'ultimo compì esperimenti di pittura con preparazioni e colori composti in base alle "ricette" del C. nel clima di quel rinnovato interesse per l'arte, intesa anche nel suo aspetto artigianale, e valorizzata anche nelle espressioni cosiddette "minori" che nel tardo '800 in certe correnti soprattutto inglesi e tedesche si contrappose alle "belle arti" di concezione accademica. D'altra parte non erano mancati anche assurdi misconoscimenti, come il giudizio di Xavier de Maistre (Benedetto, 1928-29) che, forte ormai di recenti cognizioni newtoniane, rinfaccia al C. l'ignoranza completa della natura dei colori; un giudizio negativo riscattato dall'interesse di Renoir a cui il trattato del C. capitò per caso in mano nel 1883 (cfr. Schlosser, p. 92). Fu il Toesca che nel 1900 mise in evidenza nel Libro del C. gli annunci che qua e là si avvertono di una nuova concezione dell'arte, e su questa strada ha proseguito prevalentemente l'analisi dell'opera del C. da parte della critica successiva (per ulteriore bibl. cfr. Mellini, 1965). Un nuovo testo critico è stato stabilito nel 1932 da Daniel V. Thompson (New Haven; ristampato nel 1954 a New York), ed un altro ne sta preparando G. L. Mellini. Intanto sono apparse ancora due ristampe del trattato, curate rispettivamente da F. Brunello (Vicenza 1971) e da F. Tempesti (Milano 1975). L'opera del C. è stata tradotta, oltre che in inglese, in francese, tedesco, russo e polacco.
Sono ignoti il luogo e la data della morte del C., che forse tornò in Firenze dopo la sconfitta dei Carraresi (1405).
Secondo il Dini (1905), sarebbe morto dopo il 1437; l'ipotesi fu suggerita dalla nota che conclude il manoscritto più antico dei Libro dell'Arte (Bibl. Laur., LXXVIII, 23), che ha la data del 31 luglio 1437 e la provenienza "ex stincarum", cioè dal carcere, fiorentino per debitori, detto delle "Stinche". Ma i registri del carcere dal 1396 al 1462 sono andati perduti (Dini, p. 81), e non ci sono prove quindi per sostenere l'autografia del codice, che fu probabilmente trascritto da un ignoto copista.
Bibl.: Per la storia della critica cenniniana cfr. il profilo di G. L. Mellini, Su C. C., in La Critica d'arte, XII(1965), 75, pp. 48 ss.; l'articolo è corredato da una ricca scheda bibliografica. L'elenco bibliogr. posto qui di seguito, oltre a indicare le voci critiche più significative, integra e aggiorna la scheda del Mellini: G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori…,a cura di R. Bettarini-P. Barocchi, II, Firenze 1967, pp. 248 s.; F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno, a cura di D. M. Manni, IV, Firenze 1769, pp. 478-487; F. Morozzi, Memorie di storia eccles., civile e letter. di Colle Val d'Elsa, Firenze 1775, p. 8; G. Tambroni, Trattato della pittura di C. C. messo in luce per la prima volta con annotazioni, Roma 1821; Ch. Eastlake, Materials for a history of Oil Painting, London 1847, pp. 71 s.; G. e G. Milanesi, Il "Libro dell'Arte" o Trattato della pittura, Firenze 1859; L. Biadi, Storia della città di Colle in Val d'Elsa, Firenze 1859, p. 242; A. Woltmann-K. Woermann, Gesch. der Malerei, I, Die Malerei des Mittelalters, Leipzig 1879, p. 437; G. B. Cavalcaselle-J. A. Crowe, Storia della pittura in Italia dal sec. II al sec. XVI, II,Firenze 1883, pp. 204 s.; H. Toman, Erklärung einer Stelle Cenninis im 67. Kapitel, in Reportorium für Kunstwissenschaft, IX(1886), pp. 245 s.; U. Nomi, Della vita e delle opere di C. C. di Colle Val d'Elsa, Siena 1892; G. Brogi, Inventario gener. degli oggetti d'arte della provincia di Siena, Siena 1897, pp. 494, 502; A. Berger, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der Mahltechnik. C. C.'s Traktat von der Malerei, München 1897, III, pp. 93-117; P. Toesca, Precetti d'arte italiani. Saggio sulle variaz. dell'estetica nella pittura del XIV e XV secolo, Livorno 1900, pp. 23-32; A. Neri, Cenno storico-artist. della chiesa di San Lucchese presso Poggibonsi, Firenze 1903, p. 58; F. Dini, C. diDrea C. da Colle Val d'Elsa, in Misc. d'arte della Val d'Elsa, XIII (1905), pp. 76-87; G. Vesco, L. B. Alberti e la critica d'arte, in L'Arte, XXII (1919), pp. 67-71; J. Schlosser, La letter. artistica [1924], Firenze 1967, pp. 9198, 710; L. Venturi, La critica d'arte alla fine del '300 (F. Villani e C. C.), in L'Arte, XXVIII (1925), pp. 237-244; B. Berenson, Due illustratori italiani…,in Boll. d'arte, V(1925-26), p. 381, fig. 61; J. Mesnil, Die Kunstlehre der Frührenaiss. im Werke Masaccios, in Bibliothek Warburg. Vorträge [1925-26], Leipzig 1928, pp. 145 s.; L. Venturi, Il gusto dei primitivi, Bologna 1926, p. 77; L. F. Benedetto, Un giudizio inedito di Xavier de Maistre sul Trattato della pittura del C., in Il Vasari, II(1928-29), pp. 96-106; L. Coletti, Studi sulla pittura del '300 a Padova, in Riv. d'arte, XIII(1931), pp. 324 s.; L. Venturi, Storia della critica d'arte [1948], Torino 1964, pp. 90-93; G. Urbani, Note al "Libro dell'Arte" del C. in rapporto ad alcuni problemi di tecnica del restauro, in Boll. dell'Ist. centrale del restauro, I (1950), 2, pp. 62-65; P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, pp. 649, 786, 861 s.; R. Longhi, Letter. artistica e letteratura nazionale, in Paragone, XXXIII (1952), 33, p. 10; L. Grassi, Costruz. della critica d'arte, Roma 1955, pp. 39-41; Id., Il disegno ital. dal Trecento al Seicento, Roma 1956, p. 11; F. Antal, La pittura fiorentina e il suoambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino 1960, passim; R. Assunto, La critica d'arte nel pensiero medievale, Milano 1961, passim; A. Prandi, L'attesa dell'arte nuova dalBoccaccio al C., in Convegno del Centro di studisulla spiritualità medioevale, III, Todi 1962, pp. 361 ss.; E. Panofsky, Il significato delle arti visive, Torino 1962, pp. 61-106; G. L. Mellini, RileggendoC.: chiaroscuro e gusto materico, in La Critica d'arte,XI (1964), pp. 43-47; Id., Studi su C. C., ibid., XII (1965), pp. 48-64; B. Degenhart-A. Schmitt, Corpus der ital. Zeichnungen 1300-1450, I, 1, Berlin 1968, p. XVII; L. Grassi, Teorici e st. della criticad'arte, I, Roma 1970, pp. 124-27; M. Boskovits, C. C. pittore non conformista, in Mitteil. desKunsthist. Instituts. in Florenz, XVII(1971), pp. 201-22; Id., Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento..., Firenze 1975, ad Indicem; G. Dalli Regoli, Il "piegar de' panni", in Critica d'arte, XXII (1976), pp. 35 ss.; V. I. Stoichita, prefaz. a C. Cennini, Tratatul de pictura, Bucaresti 1977; A. Chastel, Le "sì come gli piace" de C. C.,in Scritti di storia dell'arte in onore di U. Procacci, Milano 1977, pp. 32-34; C. Bertelli, Il modo dilavorare con la forma dipinta di panno, in Paragone, XXVIII (1977), 331, pp. 33 ss.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, pp. 282 s.; Enc. univ. dell'arte, XIV,coll. 93-95, s. v. Trattatistica.