PICCOLOMINI, Celio
PICCOLOMINI, Celio. – Nacque a Siena nel 1609 da Alessandro Piccolomini Carli e da Lucrezia Ugurgieri, appartenenti a importanti famiglie del patriziato locale.
A Siena il giovane Celio studiò grammatica e retorica presso le scuole dei padri gesuiti, con ottimi profitti, come avrebbe testimoniato più volte con orazioni pubbliche tenute davanti ai magistrati cittadini. Studiò anche filosofia ma si addottorò in utroque presso lo studio della sua città (Chacon, IV, 1677, col. 742), svolgendo in seguito professione di avvocato.
Quest’attività è testimoniata anche da una vertenza giudiziaria dell’autunno del 1648, richiamata in una lettera del principe Mattias de’ Medici a Piccolomini. Egli vi è ricordato come avvocato difensore di un’imprecisata controparte del marchese Pietro Corsini, e invitato da Mattias de’ Medici a procedere secondo l’etica del buon avvocato, che consigliava di non opporsi alla sentenza qualora fosse risultato favorevole al marchese Corsini (Archivio di Stato di Firenze, Misc. Med., 55/2).
Furono probabilmente le competenze legali a valere a Piccolomini l’ingresso nel mondo della burocrazia romana durante il pontificato Barberini, sotto il patrocinio del cardinale senese Alessandro Bichi suo cugino. A Roma Piccolomini occupò vari uffici dell’apparato curiale, senza abbandonare mai completamente l’esercizio dell’avvocatura, da lui ripreso dopo la morte di Urbano VIII. Durante il pontificato di Barberini ricoprì la carica di luogotenente civile dell’Auditore di camera; tra il 1630 e il 1634 venne inoltre inviato con funzioni informative presso il Bichi, nunzio in Francia, e in quell’occasione si guadagnò le simpatie di Luigi XIII. Accanto al Bichi il Piccolomini dovette inoltre occuparsi della pace tra il papa e i principi italiani a seguito della guerra di Castro (Chacon, IV, 1677, coll. 752-753), probabilmente i trattati che nel 1643 chiusero la prima fase del conflitto. Se la figura di Piccolomini sembra uscire di scena durante il successivo pontificato di Innocenzo X Pamphili, con Alessandro VII Chigi la sua carriera riprende decollando definitivamente: con il nuovo papa senese Celio divenne infatti cameriere segreto, canonico di San Pietro e Segretario dei memoriali.
Considerato fervido antigiansenista, Piccolomini si occupò della redazione della bolla Ad Sanctam Petri Sedem, promulgata l’11 ottobre 1656, con la quale il papa Chigi ribadiva la condanna delle cinque proposizioni di Giansenio già pronunciata da Innocenzo X. Nell’ottobre del 1656 fu nominato da Alessandro VII nunzio straordinario a Luigi XIV, in sostituzione di Niccolò Guidi da Bagno, mentre contemporaneamente a Madrid veniva inviato nunzio Carlo Bonelli allo scopo di favorire le trattative di pace tra le due nazioni. Sforza Pallavicino considerò la scelta del Piccolomini insolita e molto onorevole per il beneficiario, che al momento della nomina indossava da soli diciotto mesi l’abito paonazzo dei chierici (Sforza Pallavicino, Libro II, IV, p. 75).
In quello stesso 1656, con l’ordinazione a presbitero, Piccolomini fu nominato arcivescovo di Cesarea in Mauritania, sede di cui mantenne la titolarità fino al maggio del 1658; una nomina strumentale, quella alla chiesa orientale, che gli avrebbe consentito di potere esercitare le funzioni di vescovo nel corso della nunziatura di Francia (Sforza Pallavicino, 1839, p. 75). La scelta di Celio incontrava sentimenti contrastanti: gradita a Luigi XIV (Pastor, 1932, XIV, 1, p. 368), lo fu molto meno al Mazzarino, per la parentela che legava il nunzio al cardinale Antonio Bichi, a cui Mazzarino era fortemente ostile (Sforza Pallavicino, 1839, p. 73). Piccolomini tenne comunque la nunziatura ultramontana dapprima in forma straordinaria e poi con incarico stabile per circa sette anni, fino all’agosto del 1663. Durante la residenza uno dei compiti più importanti e delicati fu senz’altro rapppresentato dalla consegna della bolla Ad Sanctam all’assemblea del Clero francese, avvenuta il 4 marzo del 1657 (Pignatelli, 1972). Oltre alla ricerca di una continua e importante opera di mediazione politica, a Parigi in quegli anni il nunzio poté acquisire importanti informazioni sulle condizioni del cattolicesimo nelle colonie francesi d’America, e fornire ai cardinali dell’Inquisizione notizie e suggerimenti sul potenziamento del personale ecclesiastico nelle Indie occidentali (Sanfilippo, 2006, pp. 172-173). Assieme alle cruciali questioni sollevate dal clero giansenista, e alle istanze gallicane che sui contrasti con Roma facevano leva, durante la nunziatura di Francia Piccolomini si trovò implicato in questioni di rilevanza internazionale, come un imprecisato conflitto diplomatico su certi titoli di onore che l’imperatore Leopoldo I riteneva dovuti e che Luigi XIV gli aveva negato, probabilmente in occasione dell’elezione imperiale. Riuscendo là dove si profilava il fallimento sia del cardinale Mazzarino sia di Alfonso Perez de Vivero y Menchaca conte di Fuensaldaña, governatore uscente di Milano, Piccolomini sarebbe riuscito ad appianare le forti divergenze diplomatiche e a salvare la stipula di un trattato franco-imperiale che si deve identificare con la pace dei Pirenei tra Spagna e Francia, stipulata nel novembre 1659, a cui Fuenseldaña prese parte in funzione subalterna a Luis de Haro.
Nel settembre del 1662 Piccolomini fu richiamato bruscamente dalla legazione di Francia.
Da Chambery nel novembre di quell’anno informò con preoccupazione il nunzio a Firenze Stefano Brancacci delle notizie giunte da Parigi, dove si riferiva della partenza da Livorno del duca Carlo di Crequy, allora ambasciatore francese a Roma, che si era deciso ad abbandonare la sua sede diplomatica invitando tutti i cardinali della «fattione» francese a lasciare la città (Archivio di Stato di Firenze, Misc., 14/37, c. 1r, Crequy al maresciallo Antoine d’Aumont, Montefiascone 2 settembre 1662). Tutto ciò avveniva in conseguenza della «strepitosa» vicenda che aveva coinvolto la guardia corsa di papa Alessandro VII, il cui scontro con i familiari del diplomatico il 20 agosto 1662 – a seguito di provocazioni ricevute da questo – aveva causato il ferimento di alcuni di loro e la morte di un servitore del duca. Durante un ritorno abbastanza frettoloso, Piccolomini ebbe inoltre a patire il furto delle sue masserizie, saccheggiate, sembra, «dall’insolenza della plebe» (Pastor, 1932, p. 382).
Rientrato a Roma, il 21 aprile 1664 Piccolomini venne deputato da Alessandro VII al governo della legazione di Romagna, una regione tradizionalmente critica della periferia pontificia, dove entrò in carica nel giugno successivo. I resoconti di questo suo nuovo incarico sono segnati da giudizi contrastanti: per alcuni, infatti, egli governò con estrema severità, mantenendosi forse entro i limiti della giustizia, ma senz’altro fuori da quelli della moderazione; per altri, invece, avrebbe amministrato la legazione in maniera ineccepibile, riscuotendo il consueto favore popolare, testimoniato dai monumenti eretti in suo onore dalle comunità come segni di affetto e riconoscenza.
Piccolomini venne creato cardinale nella quarta promozione di Alessandro VII Chigi, il 14 gennaio 1664, con il titolo presbiteriale di S. Pietro in Montorio, dopo che il pontefice aveva insignito della porpora i concittadini Flavio Chigi, suo nipote, Scipione Pannocchieschi d’Elci, Antonio Bichi e Volumnio Bandinelli.
Nel dicembre del 1668 il cardinale Piccolomini figura tra i cardinali dell’Inquisizione chiamati a decidere sul caso dei quattro vescovi giansenisti francesi (Pastor, 1932, XIV, 2, pp. 529-31).
Tre anni dopo, nel solco di una lunga leadership della famiglia Piccolomini sulla chiesa di Siena, Piccolomini ne divenne arcivescovo il 15 marzo 1671, quando la diocesi gli fu resignata da Ascanio Piccolomini. Ricevuto l’arcivescovato durante il pontificato di Clemente X Altieri, Piccolomini lo tenne per circa un decennio, fino alla morte, allorché gli successe Leonardo Marsili, anch’egli di antica famiglia senese (1681-82).
Come arcivescovo di Siena il ministero di Piccolomini si distinse per il rispetto continuo degli obblighi imposti dalla residenza, per una moderazione e mitezza indiscusse, e per una spiccata attenzione al governo spirituale, promuovendo due visite pastorali (1673 e 1678-80) e tre sinodi. La corrispondenza di quegli anni lo restituisce pastore attento della condotta morale del clero diocesano, nonché guida premurosa delle comunità del feudo di giurisdizione arcivescovile, come appare in relazione alla gestione della condotta del cerusico, necessario al benessere delle genti di Murlo e Lupompesi (ottobre 1676). La guida della Chiesa senese non fu comunque semplice, e presentò momenti di aspra conflittualità, innescati soprattutto dai dissidi tra i vari corpi ecclesiastici che facevano capo alla cattedrale.
Un episodio di forte criticità si verificò in occasione dell’esposizione della reliquia del braccio di s. Giovanni Battista durante la festività pentecostale del 1677. La disputa era nata dall’alterazione del delicato equilibrio di compiti e precedenze cerimoniali tra i canonici del capitolo, che facevano capo all’arcivescovo, e gli uomini dell’Opera della Cattedrale. Secondo la relazione fatta da Piccolomini all’arcivescovo di Neocesarea, Gregorio Giuseppe Caetani, allora nunzio a Firenze, lo scontro nacque per responsabilità del rettore dell’Opera che, recatosi alla Cattedrale la mattina presto, avrebbe impedito ai canonici di assistere all’estrazione della reliquia dallo spazio di conservazione. La sacra spoglia veniva infatti custodita nella metropolitana in un luogo serrato da tre diverse chiavi, delle quali una era custodita dall’arcivescovo, una dal rettore dell’Opera e la terza dal capitano del popolo. La mattina in cui le parti si erano ritrovate per presenziare al rito dell’estrazione, il camerlengo inviato dal rettore in sua rappresentanza aveva malamente allontanato gli altri intervenuti, alterando un equilibrio cerimoniale consolidato. Coinvolto come parte in causa, l’arcivescovo fu costretto a chiedere consiglio al nunzio a Firenze, ricercando allo stesso tempo la mediazione del granduca attraverso l’abate Giovan Filippo Marucelli, allora segretario di Cosimo III, e l’auditore Ferrante Capponi. Nel contesto senese la vicenda si caricò di significati emotivi di non piccolo conto: davanti a uno straordinario concorso di popolo il braccio sarebbe infatti servito per dare la benedizione generale. Da questa forzatura del cerimoniale, al contrario sarebbe nato scandalo pubblico e discredito al clero senese, che certo avrebbe coinvolto lo stesso arcivescovo. Da Firenze si prestò orecchie alle richieste di Piccolomini, con l’intenzione di ristabilire gli equilibri tradizionali, ma fu tuttavia necessario l’intervento da Firenze dell’auditore Ferrante Capponi e a Siena, quello dell’auditore Bartolomeo Gherardini, per far rientrare le pretese del rettore dell’Opera. E non definitivamente: ancora tre anni dopo il nunzio a Firenze Carlo Francesco Airoldi, vescovo di Edessa, doveva dirimere la medesima questione, tornata, o rimasta, oggetto di discussione.
Piccolomini partecipò come cardinale elettore ai tre conclavi che elessero Clemente IX Rospigliosi, Clemente X Altieri e Innocenzo XI Odescalchi, e al successo di quest’ultimo sembra che Piccolomini abbia concorso in modo determinante.
Morì il 24 maggio 1681 (24 giugno, secondo il Battaglini, 1742) a Siena, dove era sempre vissuto dal momento della sua nomina ad arcivescovo, e qui venne sepolto nella chiesa cattedrale davanti alla tomba di s. Caterina.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Miscellanea Medicea, 14, ins. 37; 55, inss. 2, 6; 63, ins. 1; 99, inss. 26-27; 195, inss. 11-12; Siena, Archivio arcivescovile, Fondo storico della curia arcivescovile, 2911; Archivio di Stato di Siena, Consorteria Piccolomini, 5. c. 90r; Albero genealogico famiglia Piccolomini di Giulio di Francesco Piccolomini di Modanella.
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