CELIBATO
. Nell'antichità. - Secondo un concetto religioso antichissimo e generale, il culto dei defunti è necessario alla loro pace ultramondana; quindi la necessità di lasciare dopo di sé dei discendenti, che proseguano il culto della famiglia e dei morti: questo, in origine, in Grecia, in Italia, e dappertutto. Così, quando il diritto sacro diventa statale, l'organo politico interviene a raccomandare (Atene) o addirittura imporre (Creta, Sparta), il matrimonio (ἀγαμίου γραϕή). Ma il senso religioso e morale bastò spesso ad assicurare i matrimonî. L'apologia del celibato in Grecia comincia solo con la filosofia del sec. IV a. C., da Platone in poi. Fino a quell'epoca il matrimonio pare considerato generalmente come un peso, ma necessario: più ampie notizie ci mancano.
A Roma, l'avversione al celibato fu certo sentita molto in antico: una legge in proposito ebbe la gens Fabia (Dion. Hal., Ant. Rom., 22); del resto, solo per eccezione s'imposero le nozze, se la città appariva spopolata da qualche flagello (Plut., Cam., 2); stando alla tradizione, Valerio Massimo e Festo parlano anche di pene pecuniarie. Notevole il discorso de prole augenda, tenuto da Metello il Numidico (102 a. C.) e letto più tardi da Augusto in Senato, in appoggio della sua propaganda contro i celibi.
Pure, nonostante le proteste levate contro il celibato, empietà verso la patria e verso la religione, presto comparve il tipo, che pare romano, del celibe godereccio (Plaut., Mil., 678 sgg.). Augusto stabilì una legislazione regolare, ma sempre mite e non propriamente coattiva (Lex Iulia 18 a. C., Lex Papia Poppaea 8 d. C.). Essa sanciva privilegi per i coniugati e per i padri (ius liberorum) (Gell., 2, 15, 4; Ulp. Dig., 4, 4, 2, etc.) nel campo del diritto pubblico e privato.
La donna munita di ius liberorum fu esente da tutela ed ebbe capacità di testare. Gravi erano le limitazioni che escludevano dall'eredità i celibi per intero e gli orbi per metà, e riserbavano la portio caduca (e poi, col senatoconsulto Pegasiano, i fidecommessi e i codicilli) alle persone nominate nel testamento che avessero figli. Per l'esclusione da certi spettacoli, cfr. Dione Cass., LIV, 30.
Ma, se il principio, civitatem sine matrim0niorum frequentia salvam esse non posse (Gell., 1, 66) non si estinse mai in teoria, sin dalla fine della repubblica si evitò il matrimonio per il decadimento morale e per ragioni economiche. Le leggi di Augusto, nonostante la loro mitezza, trovarono forte ostacolo per essere approvate. Rimaste in vigore fino a Costantino che abolì i gravami del celibato e agli imperatori Onorio e Teodosio che abolirono i privilegi del ius liberorum, non ebbero mai grande effetto.
Bibl.: Per il celibato nell'antichità: Fustel de Coulanges, La città antica, trad. da G. Perrotta, Firenze 1924, p. 49 segg. Per il celibato in Grecia, W. A. Becker, Charikles, III, p. 341 segg. (ed. Göll, Berlino 1878); J. M. Lipsius, Att. Recht., II, i, Lipsia 1908, pp. 341-42 (sulla pretesa esistenza di una γραϕή ἀγαμίου ad Atene); L. Beauchet, Droit privé de la rép. athénienne, I, Parigi 1907, p. 187 segg. Per il celibato in Roma: Leonhard, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., III, col. 1253; Becker, Gallus, II, p. 57 segg. (ed. Göll, Berlino 1881); Friedländer, Sittengesch. Roms, 8ª ed., I, Lipsia 1910, p. 481 segg.; S. Marquardt e A. Mau, Privatalt., Monaco 1911, p. 366 seg.
Celibato ecclesiastico. - È l'obbligo di perfetta castità che la Chiesa cattolica impone ai suoi ministri sotto forma di voto perpetuo e solenne, implicito nell'ordinazione. Ha per fine d'ottenere in più alto grado la santità del clero, la dignità del servizio divino, e l'efficacia del ministero sacerdotale sui popoli. La Chiesa latina impone tale obbligo col conferimento del suddiaconato. Chi fosse già unito in matrimonio, non può ricevere ordini senza dispensa dalla S. Sede, e, se la ottiene, deve vivere nella continenza e separato dalla moglie. Chi ha ricevuto gli ordini minori può contrarre matrimonio, ma per ciò stesso decade dallo stato clericale. La legge del celibato è d'origine ecclesiastica, quantunque sia presentata dalla Chiesa come del tutto consona coi principî evangelici e gli esempî di Cristo e degli apostoli. Ai tempi apostolici si trova nelle lettere di S. Paolo (I Tim., III, 2; Tit., I, 6) la legge della monogamia clericale: l'episcopus (vescovo, ma detto allora anche dei semplici sacerdoti) non deve aver contratto matrimonio più di una volta. Questa legge, da una parte ammise eccezioni in Occidente e più ancora in Oriente, dall'altra fu estesa anche ai chierici inferiori (Costituzioni Apostoliche, sec. IV, Siria). Contemporaneamente moltissimi del clero maggiore (vescovi, preti, diaconi), praticavano il celibato, tanto che nel sec. IV era questa la forma prevalente, favorita del resto dai dottori e vista più benevolmente dal popolo. Dalla fine del sec. IV i papi si pongono a capo del movimento in favore dell'imposizione del celibato. Siricio dopo averlo decretato nel concilio romano del 386, lo prescrive all'Africa ed alla Spagna; quivi del resto il concilio d'Flvira (verso il 306) ne aveva già fatta una legge. Innocenzo I (1401-417) l'impone alle Gallie. I più grandi scrittori di questo periodo, quali S. Ambrogio, S. Girolamo, S. Agostino, difendono il celibato contro gli attacchi di Elvidio, Gioviniano, Vigilanzio. I concilî coadiuvano il movimento, pur temperando alle volte le pene contro i trasgressori. I vescovi, preti o diaconi, divenuti tali dopo che già erano uniti in matrimonio, potevano convivere con le loro mogli come con sorelle.
Anche in Oriente l'uso era in favore del celibato, e il fatto di Sinesio di Cirene lo conferma indirettamente almeno per i vescovi. Varî concilî però (es. Ancira, 314) credettero bene di schierarsi, entro certi limiti, in favore della libertà, soprattutto per chi avesse contratto matrimonio già prima di essere ordinato. Il codice Giustinianeo (I, 3, de episcop. et cler.) fissa che non si possa eleggere vescovo uno che abbia figli e che è meglio che il vescovo sia celibe o vedovo; in ogni caso, una volta vescovo, deve restare continente; preti, diaconi e suddiaconi non possono contrarre matrimonio dopo la loro ordinazione, ma possono restare nel matrîmonio già contratto. Tali decisioni vengono di nuovo prese dal concilio Trullano (692) e reggono tuttora l'Oriente ortodosso (per i cattolici orientali v. appresso). In Occidente il celibato dei suddiaconi, che si ritrova già sotto Leone Magno (440-461), non fu tenuto rigorosamente in vigore, cosicché papa Zaccaria (741-752) rispondeva a Pipino che ogni chiesa poteva seguire il proprio uso; ma sotto Carlo Magno ricominciò il movimento per la sua osservanza. Col sec. X s'inizia la decadenza morale del clero: i già sposati continuano nella vita matrimoniale, gli altri trascorrono facilmente a nozze, pur venendo queste stigmatizzate come "concubinato". Leone IX (1049-1054) inizia efficacemente la restaurazione, Gregorio VII (1073-1085), Urbano II (1088-1099), Callisto II (1119-1124), coadiuvati da molti concilî e superando le opposizioni in contrario (frasi di Scrittura, usi e privilegi, arduità della continenza), raggiungono lo scopo. Nel concilio Lateranense I (ecumenico IX, del 1123) l'ordine sacro (dal suddiaconato in poi) è posto tra gl'impedimenti, "dirimenti" il matrimonio. Tale disciplina vige ancora nella Chiesa latina e, pur essendo in astratto suscettibile di mutazioni, di fatto la Chiesa si rifiuta nettamente di introdurle.
Nella disciplina ecclesiastica orientale, il celibato non è obbligatorio nel senso che il conferimento del diaconato - anticamente anche del suddiaconato - a candidati ammogliati è permessa; tuttavia se la prima moglie viene a morire, è proibito prenderne un'altra. I monaci e i vescovi sono astretti al celibato. Alcune chiese orientali cattoliche hanno accettato la legge del celibato come nella chiesa occidentale; nelle altre il numero dei sacerdoti ammogliati diminuisce sempre più. Pur favorendo siffatto movimento, la S. Sede non ha mai voluto farne l'argomento d'una legge positiva, se non in poche circostanze.
Bibl.: Fra le molte opere che trattano dell'argomento segnaliamo F. Dugnani, Dissertazione sopra l'origine del clerical celibato, nella Nuova raccolta di opuscoli del Calogerà, VIII (1761), pp. 251-308; F. A. Zaccaria, Storia polemica del celibato sacro, Roma 1774 (Foligno 1785; traduzione tedesca di J. C. Dreysig, Bamberg-Würzburg 1781); J. Bickell, Der Cölibat, in Zeitschrift für kath. Theologie, II (1878), pp. 26-64; III (1879), pp. 792-799; F. X. Funk, Cölibat und Priesterehe im christl. Altertum, in Kirchengeschichtliche Abhandlungen und Untersuch., I, Paderborna 1897, pp. 121-153; E. Vacandard, Les origines du célibat écclésiastique, nelle Études de critique et d'histoire religieuse, s. 1ª, 4ª ed., Parigi 1909; H. Ch. Lea, History of sacerdotal celibacy in the Christ. church, 3ª ed., voll. 2, Londra 1907; A. Houtin, Courte histoire du célibat écclésiastique, Parigi 1929: gli ultimi due autori sono avversarî dell'istituzione.