CELESTINO da Verona
Figlio di Lattanzio Arrigoni da Verona, il suo vero nome era Giovanni Antonio. Non conosciamo né la data di nascita né quella del suo ingresso nell'Ordine francescano dei frati minori cappuccini. Sappiamo soltanto che fu chierico professo e suddiacono; cioè non raggiunse che gli ordini minori.
Nel 1587 C., subì il primo processo per causa di eresia davanti al tribunale dell'Inquisizione romana e abiurò "de vehementi" (il 17 febbraio) le opinioni che aveva professato e di cui era stato accusato: opinioni intorno alle quali non abbiamo però alcuna notizia. Qualche anno dopo, per una "pretensa reincidentia in haereses", fu arrestato e incarcerato, probabilmente a Verona; quindi venne sottoposto a un nuovo procedimento da parte del S. Uffizio di Venezia. Nella prigione di S. Domenico di Castello, dove restò incarcerato a disposizione dell'inquisitore all'incirca dal settembre del 1592 fino al successivo mese di settembre del 1593, incontrò Giordano Bruno ed ebbe modo di conversare con lui in materia di religione.
Dopo che la Congregazione romana del S. Uffizio, visti gli atti definitivi del processo veneziano cui era stato sottoposto, gli decretò il soggiorno obbligato in un convento del suo Ordine posto nel territorio dello Stato della Chiesa, C. presentò una particolareggiata denuncia delle opinioni religiose espresse dal Bruno durante la comune detenzione veneziana.
Sembra che sospettasse (o accusasse) il suo compagno di prigionia di una delazione calunniosa e volle perciò mettere per iscritto il proprio resoconto del punto di vista del Bruno sulle dottrine cattoliche. Ma è evidentemente del tutto improbabile che il Bruno abbia denunciato Celestino. Nell'andamento della vicenda si riconosce infatti piuttosto chiaramente l'uso di uno dei principali stratagemmi inquisitoriali al fine di estorcere delle notizie più dettagliate su di un imputato il quale non "collaborava" con i giudici nella ricerca della "verità". Il frate citò anche, come testimoni oculari, tre persone che erano state presenti alle loro conversazioni perché detenute contemporaneamente insieme a lui e al Bruno a Venezia. Su questa nuova base offertagli dal frate l'inquisitore veneziano - che si trovava ormai di fronte a una fase di stallo del processo bruniano, non avendo trovato elementi. concreti per farlo proseguire malgrado la espressa necessità "romana" di doverlo continuare - fu costretto a procedere agli interrogatori dei testimoni citati e a verificare la fondatezza delle rivelazioni di frate C., che fece aprire così un'altra fase dell'inchiesta giudiziaria a carico del Bruno. Da notare che il memoriale presentato al S. Uffizio, pur facendo esclusivo riferimento a delle conversazioni in materia di fede tra due interlocutori, non riporta mai l'opinione religiosa o la posizione dottrinale tenuta da Celestino. Non abbiamo quindi alcuna possibilità di ricostruire i termini reali dell'eterodossia del frate cappuccino, che sembra aver steso il documento come se non vi fosse stato coinvolto.
Nell'anno 1599 C. risulta essere a San Severino Marche, cioè ancora presente nel territorio ecclesiastico. Di qui inviò, il 6 maggio, una autodenuncia alla Congregazione del S. Ufficio e chiese di poter essere convocato dal tribunale romano.
Si tratta di un'azione clamorosa (di cui però non si riesce a decifrare le determinazioni e a ricostruire i contorni) che acquista un senso solo se letta insieme all'andamento del processo bruniano giunto alla sua fase conclusiva. La difficoltà di orientamento è poi ulteriormente accresciuta dal fatto che il contenuto di questo secondo memoriale ci è rimasto ignoto. Sappiamo soltanto che i cardinali preposti all'Inquisizione risposero, con una lettera datata il 3 di giugno, "quod veniat ad sanctum officium et deponat quae sibi occurrunt".
Nel frattempo l'inquisitore veneziano ricevette un'epistola anonima (scritta il 20 giugno) e ne trasmise una copia a Roma. Clemente VIII in persona, dubitando che sotto l'anonimato si potesse celare lo stesso C., intervenne nella questione che si era aperta ordinando una perizia calligrafica sull'originale (comparatio scripturae) usando gli archivi dell'Ordine cappuccino e quelli dell'Inquisizione per appurare l'esattezza del sospetto.
Tra il 9 e l'11 luglio del 1599 C., che si era recato a Roma su convocazione dell'Inquisizione, subì i primi due interrogatori. Il giorno 15 i costituti vennero letti per extensum ai membri della Congregazione del S. Uffizio romano, ai quali il pontefice ordinò il più rigoroso silenzio intorno a tutta la questione che coinvolgeva il frate. Il 5 agosto Clemente VIII comandò che venisse preparata la sentenza definitiva che venne conclusa il giorno 17 dello stesso mese. Il 19 C. presentò - così come prescriveva il formulario inquisitoriale - le proprie difese, che però non servirono a nulla (e non potevano servire a nulla) essendo egli "caduto" nell'eresia ormai due volte. Venne infatti condannato come "relapsus". Ma quello che importa maggiormente è il fatto che la sentenza aggiunge: "Impoenitens et pertinax haereticus". Il che significherebbe che C. non si era "piegato" all'abiura, ma aveva rivendicato come propria l'opinione della quale si era accusato.
La più assoluta mancanza di pubblicità, ordinata dal pontefice, fece perfino infrangere alcune tradizionali regole di comportamento relative al supplizio. Emanata infatti la sentenza ufficiale il 24 di agosto, essa non venne letta davanti a tutto il popolo radunato come di consueto, ma fu pronunciata in gran segreto all'interno della sede del tribunale. Il condannato poi non venne consegnato, infrangendo un'altra norma della tradizionenelle mani del potere secolare, cioè al governatore della città, e nemmeno venne incarcerato in Tor di Nona. Fu lasciato invece nel palmo dell'Inquisizione, dove alcuni teologi esperti dell'arte di far abiurare (cappuccini, domenicani, gesuiti) compirono numerosi tentativi al fine di ottenere una riduzione in extremis alla fede cattolica.
Infine, portato direttamente "ad locum iustitiae", non essendosi concluso nulla di positivo nel tentativo di conversione del "relapsus", C. fu bruciato vivo, nella notte (o "a punto su l'alba") del 16 sett. 1599, "legato a un palo, ignudo", e restò "ostinatissimo" fino alla fine, secondo quanto recitano gli atti dei "confortatori" della Compagnia di S. Giovanni decollato.
L'unica informazione sull'eresia di frate C. trapelata all'esterno del tribunale proviene da una lettera dell'ambasciatore mediceo residente a Roma, Francesco Maria Vialardi, che scrisse al granduca di Toscana un breve resoconto dell'avvenimento con un messaggio del 27 settembre. Risulterebbe che questo "huomo scelleratissimo" sosteneva l'dea che Gesù Cristo "non ha redento il genere humano". Si tratta di una tesi radicale che era ampiamente circolata negli ambienti più eterodossi della diaspora ereticale italiana in Svizzera fin dai tempi di Bernardino Ochino (cfr. D. Cantimori, Ereltici italiani del Cinquecento, Firenze 1939, pp. 284 s.) ed era confluita - con diverse motivazioni dottrinali e diversi esiti pratici - sia nella teologia sociniana che in quella bruniana. Secondo lo Spini, che ha notato la vicinanza con questa ultima posizione, potrebbe trattarsi di dottrine di "sapore anticristiano" non del tutto dissimili da quelle imputate al Bruno. Dagli altri due "avvisi" diplomatici, che ci sono noti attraverso le ricerche archivistiche dell'Amabile, non si ricavano ulteriori informazioni sulla cristologia di Celestino. I dispacci ritrovati si limitano infatti a segnalare semplicemente che il suo "peccato" era quello di essere - "heretico formale ostinato" oppure a dire, ancor più genericamente, che egli era "perfido heretico". Insistono ambedue solo sul fatto (che non si sa bene come valutare) che C. non sarebbe stato veramente un religioso regolare ma un travestito: "Se bene non era religioso da sé si haveva preso il detto abito"; "Fingendosi religioso era perfido heretico". Interessante poi la notizia secondo la quale C. "fu abbruggiatocosì di notte perché l'ambasciatore francese non vuole che avanti al suo palazzo si faccino simili giustitie, non perché non voglia che si castigano gli heretici, come dicono suoi malevoli, ma per non sentir né veder quello horrore".
L'Amabile (1882) propose, con cautela, di identificare frate C. con quell'anonimo "fuggitivo hebraizante" che a Padova disputò "de fide" con Tommaso Campanella e venne poi incarcerato a Verona. Il Mercati ritenne di poter dare maggiore fondamento storico a questa ipotesi accogliendola nella sua ricerca. Ma il Firpo ha fatto definitivamente cadere la tesi proposta dall'Amabile e difesa dal Mercati con l'argomento che la disputa padovana del Campanella avvenne quando già frate C. era prigioniero dell'Inquisizione veneziana ed era quindi nella più assoluta impossibilità di parteciparvi.
Bibl.: L. Amabile, Fra' Tommaso Campanella; la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, I, Napoli 1882, p. 69; Id., Fra' Tommaso Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, II, Napoli 1887, p. 124; A. Bertolotti, Martiri del libero pensiero, Roma 1891, p. 127; L. Amabile, Il Santo Offizio dell'Inquisizione in Napoli, I, Città di Castello 1892, p. 346; D. Orano, Liberi pensatori, Roma 1904, pp. 86 s.; A. Mercati, Il sommario del processo di Giordano Bruno, Città del Vaticano 1942, p. 5; L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, in Riv. stor. ital., LX(1948), pp. 579-586 e passim; G. Spini, Ricerca dei libertini, Roma 1950, pp. 70 s.; G. Di Napoli, Studi sul Rinascimento, Napoli 1973, p. 519.