FERRAZZI (Feracci, Ferazzi, Ferrazzo), Cecilia
Battezzata a Venezia nella parrocchia di S. Lio il 20 apr. 1.609, era la quinta figlia di Alvise di Martin e di Maddalena Polis. Il padre, originario di Bassano, era un "casseler" (fabbricante di casse), a quanto pare abbastanza agiato. Uno o due anni dopo la famiglia si spostò nella vicina parrocchia di S. Marina, dove nacquero numerosi altri figli.
Le uniche notizie che abbiamo sull'infanzia della F. sono quelle da lei fornite alla Inquisizione veneta negli anni 1664-65, durante il processo per eresia, sia nel corso degli interrogatori sia in una dichiarazione separata, dettata ad un notaio: la F. afferma di aver cominciato a coltivare la sua inclinazione per la vita religiosa giovanissima: preghiere, confessioni frequenti, digiuni e altre penitenze, visioni. Divenuta adolescente, i suoi ricchi genitori cominciarono a formulare progetti per il suo matrimonio. La provvidenziale nascita di un'altra sorella, Maria, nel 1623, la salvò da un destino che desiderava evitare, e il padre acconsentì a farla entrare in convento. La F. sperava di essere accolta dalle clarisse di S. Maria dei Miracoli, ma i suoi genitori e tutti i suoi fratelli, eccetto Maria, morirono nella grande peste del 1630.
L'orfana venne raccolta da uno zio nella parrocchia di S. Aponal, ma, venuta a conoscenza della intenzione di quello di maritarla ad un notaio, fuggì di casa e venne posta sotto la protezione del presidente della contrada, il futuro doge Francesco Molin, che la mise "in salvo" nella casa di F. Maffei, dove rimase due anni. Dopo di allora visse per molti anni (ma la cronologia e la successione dei fatti a questo punto diventano confusi) con diversi protettori laici: la nobildonna Adriana Cuccina, la vedova Modesta Salandi (fondatrice di un "conservatorio" per orfane) e i patrizi Paolo Capello e sua moglie Marietta Morosini, per i quali fu una via di mezzo fra una figlia e una domestica. Durante questo periodo continuò ad avere visioni ed esperienze considerate da lei e da alcuni dei suoi amici come miracolose; soffriva anche di problemi digestivi (anoressia?) e di calcoli renali.
Verso il 1637, il suo confessore, il teatino G. B. Polacco, vicario sopra le religiose del patriarca di Venezia, si rese conto che la sua condizione spirituale era fuori dell'ordinario e, temendo che fosse posseduta dal demonio, chiamò altri esperti consiglieri spirituali per esaminarla ed esorcizzarla; uno di questi, il carmelitano B. Pinzoni, suo antico confessore, si convinse dell'autenticità delle sue esperienze spirituali e la ritenne una futura santa. Il Polacco, trovando impossibile tenerla sotto stretta sorveglianza, fuori portata di eventuali esaltati osservatori (ivi compreso il Pinzoni), i quali andavano spargendo la voce secondo cui la F. era una santa che viveva della sola comunione, si decise a chiedere l'aiuto del patriarca di Venezia, il cardinale Federico Corner. Il patriarca, preoccupato del fatto che la F. indossava, senza autorizzazione, un abito ecclesiale, ed ancora di più per certi segni sulle sue mani che ella sosteneva fossero stimmate impresse per opera divina, durante i due anni successivi la fece trasferire da una comunità all'altra di suore, le cappuccine di S. Girolamo, le pinzochere domenicane, le clarisse di S. Maria Maggiore. Ma tutte la considerarono un'ospite scomoda; finché la F. sfuggì alla sorveglianza e si rifugiò presso le carmelitane di S. Teresa, una casa fondata di recente dalla sorella Maria.
I documenti non riferiscono con esattezza quando e come terminarono le difficoltà della F. con il patriarca e le sue peregrinazioni da un convento all'altro, ma sappiamo che verso la fine degli anni Quaranta o verso l'inizio del decennio successivo svolgeva le mansioni di governante delle figlie del patrizio Paolo di Pietro Lion, nella contrada di S. Severo. Successivamente vennero affidate alle sue cure altre bambine, e ben presto si dedicò ad una occupazione insolita, quella di gestire le case di ricovero per orfane e altre "putte pericolanti", fanciulle abbandonate o vittime di abusi sessuali, che avevano bisogno di protezione. Il Lion la sistemò in un edificio vicino al suo palazzo dove, intorno al 1655, la F. aveva raccolto centoventi bambine; essendo divenuto troppo stretto quell'alloggio, si trasferì in una casa vicino alla chiesa di S. Giovanni Evangelista, dove rimase per due o tre anni, per spostarsi nuovamente, verso la fine di quel decennio (a causa dell'insalubrità dell'acqua), in Cannaregio vicino a S. Giobbe. Nel giro di due anni il numero delle sue ospiti era talmente aumentato che dovette traslocare di nuovo, e nel 1657 un patrizio che appoggiava la sua iniziativa, Francesco quondam Zuane Vendramin, le comprò un enorme palazzo (un antico albergo di proprietà dello Stato, usato per gli ospiti importanti della Repubblica) vicino alla chiesa conventuale di S. Antonio di Castello.
Che la F. stesse affrontando un urgente problema sociale veneziano è dimostrato - come ampiamente documentato nelle carte del processo - dalla rapidità con cui aumentava il numero delle bambine affidatele da genitori, da parenti, da persone pie e da preti. Alla metà del 1664, quando la F. fu processata, la casa di S. Antonio ospitava quasi 300 persone, fra bambine e giovani donne, dai 6 ai 25 anni, di differenti ceti sociali che andavano dalle monelle di strada alle figlie (naturali e legittime) di patrizi. Oltre a questa, la F. aveva da poco aperto una seconda casa a Padova, ma il fatto che né lei né i suoi contemporanei sapessero come chiamare quelle case - indicate semplicemente come "luoghi" - dimostra quanto la sua opera, portata avanti senza l'autorizzazione del governo o del clero, fosse insolita.
Non è chiaro il modo in cui la F. riuscisse a finanziare la sua opera, anche se il numero notevole di nobili (uomini e donne) che al processo testimoniarono in suo favore suggerisce che aveva numerosi ricchi sostenitori, che probabilmente fornivano i fondi per le necessità quotidiane e per la cura e il nutrimento delle giovani indigenti; il soggiorno e la retta delle altre venivano pagati dai parenti o dai protettori. Qualche entrata era anche fornita dalle stesse fanciulle, che facevano merletti e ricami su commissione dei mercanti. La F., chiamata dalle sue ragazze "la santa madre", si era assunta tutte le responsabilità dell'amministrazione, assistita da una portinaia e da quattro ospiti più anziane che fungevano da maestre; i suoi entusiastici sostenitori - il Vendramin e Sebastiano quondam Zuan Alvise Barbarigo - e diverse nobildonne le davano frequenti consigli; il fattore del Lion, Bartolomeo Ferlini, eseguì per lei una quantità di incombenze diverse durante i suoi successivi spostamenti.
L'anomala condizione indipendente dell'opera della F. cambiò nel 1661 a causa di un problema ricorrente: il suo rifiuto di restituire ai parenti le bambine affidate alla sua custodia, motivato dal fondato timore che venissero avviate alla prostituzione, a meno che non fossero stati presi accordi sicuri per maritarle o farle entrare in convento. La rumorosa protesta di un barcaiolo al quale non volle consegnare la nipote spinse il Consiglio dei dieci ad ordinare un'inchiesta affidata ai provveditori sopra i Monasteri. Questi redassero una regola per l'istituzione, che ricevette un nome (Seminario della Immacolata Concettione di Maria Vergine) e fu posta sotto la giurisdizione del patriarca, mentre la responsabilità della sorveglianza era affidata ai Provveditori sopra Monasteri.
Queste nuove disposizioni tuttavia non eliminarono il malcontento dei parenti che tentavano di riavere le bambine. Verso la fine del 1663 una padovana, Chiara Baccis, intraprese un'azione per riavere la custodia di due figlie e di una nipote che aveva collocato nella casa veneziana della F.; non essendo riuscita a raggiungere il suo scopo né con ripetute richieste né attraverso i normali mezzi legali (una petizione agli avogadori di Comun), denunciò la F. all'Inquisizione veneziana come "donna di molte imperfettione e forse vitti, si fa adorare per santa". Le dichiarazioni della Baccis e di altri testimoni chiamati dietro suo suggerimento, convinsero l'inquisitore, il domenicano A. Ugoni, e gli altri membri dell'Inquisizione, sia laici sia ecclesiastici, ad ordinare l'arresto della F. ed a metterla sotto processo per "affettata santità".
Quello della F. fu il secondo di tre casi di santità simulata perseguiti a Venezia fra il 1662 e il 1669, e di gran lunga il più lungo e il più complesso, tanto è vero che il suo dossier è fra i cinque più voluminosi dell'intero fondo S. Offizio, che copre più di due secoli. Le 131 accuse della sentenza finale, basate sugli interrogatori di almeno 300 testimoni pro e contro e su molti esami della stessa accusata, possono suddividersi in diverse categorie: false rivendicazioni di santità "per sé" (pretesa di portare le stimmate, di avere visioni e di ricevere messaggi dal cielo, vivere con pochissimo cibo, prevedere il futuro, fare miracoli), procacciamento di una falsa immagine della santità (incoraggiando la diffusione di notizie sulle circostanze miracolose della sua nascita e sui segni del favore divino, pretendendo che le bambine la salutassero con il TeDeum e con inni a s. Cecilia, conservando ritratti da lei fatti ritoccare perché apparisse somigliante a s. Teresa o alla Madonna dei Sette Dolori), maltrattamento delle bambine a lei affidate (usando torture fisiche e psichiche per punire le disubbidienze, costringendole a lavorare nei giorni festivi, privandole della possibilità di accostarsi alla confessione e agli altri sacramenti), rapporti sessuali con Bartolomeo Ferlini e usurpazioni delle funzioni ecclesiastiche (officiando senza la presenza di un prete, maneggiando recipienti sacri, ascoltando le confessioni delle bambine).
L'Inquisizione diede relativamente scarsa importanza alle accuse di crudeltà e cattiva condotta sessuale. A proposito di quest'ultima, nel processo non c'è alcun accenno a pretese di impeccabilità da parte della F. (che invece sarà elemento importante di molti processi per pretesa santità della fine del XVII e del XVIII secolo), né si ritrova alcun altro elemento "prequietista". È chiaro invece che la colpa più grave imputatale fu l'amministrazione del sacramento della penitenza, pratica forse desunta dalla regola carmelitana.
Nel settembre del 1665 la F. fu giudicata colpevole, "lievamente sospettata d'eresia", e le vennero inflitti sette anni di prigione e la proibizione perpetua, dopo la liberazione, di parlare del suo stato spirituale con persone diverse dal suo confessore e di occuparsi delle fanciulle. La F. si appellò immediatamente alla congregazione del S. Offizio di Roma e, con l'aiuto di sostenitori altolocati che ancora credevano in lei, lottò per ottenere la cancellazione o almeno la revisione della sentenza. Questi sforzi portarono i loro frutti: nel 1667 venne trasferita a Padova sotto la custodia del vescovo, il cardinale Gregorio Barbarigo, strettamente legato da vincoli di sangue e di matrimonio con molti dei suoi sostenitori, e il 29 genn. 1669, per effetto delle pressioni esercitate dal doge Domenico Contarini, il cardinale Francesco Barberini, per incarico della congregazione del S. Offizio, ordinò la sua liberazione.
Non si sono rintracciati documenti relativi agli ultimi quindici anni di vita della Ferrazzi. Morì nella parrocchia di S. Lio a Venezia il 17 genn. 1684 e fu fatta seppellire da Maria Fantini, un'amica di cui si parla nel processo.
L'istituto da lei fondato, fornito di sussidi e affidato alle cappuccine dal suo sostenitore Francesco Vendramin nel 1669, ha superato le vicissitudini della secolarizzazione ed esiste ancora oggi (anche se in mani secolari ed in un luogo diverso, le fondamenta Briati in Dorsoduro, non lontano dal convento della sorella, S. Teresa) come scuola professionale femminile "Vendramin Corner".
Fonti e Bibl.: La fonte principale per la vita della F. è il resoconto del suo processo: Archivio di Stato di Venezia, S. Uffizio, busta 112. Una parte del processo, un'autobiografia dettata, è stata pubblicata: C. Ferrazzi, Autobiografia di una santa mancata, a cura di A. J. Schutte, Bergamo 1990. Copie della sentenza sono a Venezia, Biblioteca civica Correr, ms. Donà delle Rose 131, cc. 185-192; Ibid., ms. Gradenigo 159, cc. 312-335; e Bibl. naz. Marciana, ms. Ital. VII, 1795 (7697), cc. 219-261. Importanti statistiche sulla famiglia Ferrazzi sono in due gruppi di registri parrocchiali conservati a Venezia presso la chiesa di S. Maria Formosa: S. Lio, Battesimi 1, Morti 1-2; S. Marina, Battesimi 2; Morti 3-5. Per i documenti relativi alla sua morte cfr. Archivio di Stato di Venezia, Provveditori alla Sanità, busta 892 (Necrologia 1683-84. Cfr. inoltre G. M. Fornari, Anno memorabile de carmelitani, II, Milano 1690, p. 814, che dà alcuni dettagli sugli anni immediatamente successivi alla morte dei genitori. Per il tentativo da parte della F. di entrare nelle carmelitane cfr. Roma, Archivio generale dei carmelitani scalzi, ms. Plut. 202a, c. 8v; altre testimonianze sul periodo precedente alla vocazione in G. B. Bagatta, Vita della serva di Dio M.re A. M. Pasqualifa, Venezia 1680, pp. 73-76. Per l'intervento del governo veneziano nella sua attività per le case di ricovero cfr. Archivio di Stato di Venezia, Provveditori sopra Monasteri, busta 1, capitolare II (1637-1702), cc. 14v-15r, 24r-26r; Ibid., Consiglio dei dieci, Parti comuni, filza 620 (documenti datati 12 e 19 sett. 1661) e registro 158, c. 274; Ibid., Senato. Terra, registro 168, cc. 384v-385r. Il suo testamento (1º luglio 1661) si trova Ibid., Sezione notarile, testamenti, buste 64-65 (Notaio Bronzini Andrea), n. 150. Le trattative fra Venezia e Roma sul caso della F. in Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di Venezia, 101, cc. 320v, 327r, 354v; 102, c. 389v; 106, cc. 88r-89r, 96r; 300, cc. 273r, 284r-285r; Ibid., Nunziature diverse, 196, cc. 63r-64r, 134r-v. Per un precedente processo davanti all'Inquisizione veneziana per "finzione di santità" cfr. F. Tomizza, La finzione di Maria, Milano 1981. La trasformazione dei ritratti della F. in immagini sacre è discussa in A. J. Schutte, "Questo non è il ritratto che ho fatto io"): painters, the inquisition, and the shape of sanctity in seventeenth-century Venice, in Florence and Italy. Studies in honour of Nicolai Rubinstein, a cura di C. Elam - P. Denley, London 1989, pp. 419-431. Per la somiglianza fra l'istituto della F. e quelli delle carmelitane cfr. Regola e costituzioni delle religiose primitive scalze dell'Ordine della Glonosa Vergine Maria del Monte Carmelo, Genova 1593, e Compendio de gli essercizi che si praticano nelli novitiati delle monache carmelitane scalze, Roma 1610. La sopravvivenza dell'istituto della F. sotto diverse denominazioni è documentata a Venezia, Istituto di ricovero ed educazione, Congregazione di Carità in Venezia, I.V.23, Posizione patrimoniale II/178 (copia del testamento di Francesco q. Zuanne Vendramin, 15 maggio 1669); Venezia, Biblioteca del Civ. Museo Correr, ms. Donà dalle Rose 134, cc. 81-91; F. Comer, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis illustratae, XII, Venezia 1749, pp. 396-400;G. Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 1887, p. 310; Relazione e regolamento per la scuola professionale femminile istituta a Venezia con deliberazioni consigliari 18 giugno e 12ag. 1891, Venezia 1891;Congregazione di Carità di Venezia, La beneficenza educativa a Venezia nel passato e nei nostri tempi: Ricordo per l'anno 1899, Venezia 1899, pp. 157-161;A. Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 1972, pp. 300s.