NUCCOLI, Cecco
NUCCOLI, Cecco. – Non sono noti i dati biografici di questo poeta, il più sfuggente tra quelli attivi a Perugia nella prima metà del XIV secolo (all’incirca tra 1320 e 1350), documentati dal codice Barberiniano Latino 4036 della Biblioteca apostolica Vaticana.
Non risultando alcunché per via documentaria sulla sua persona, il pochissimo che si può affermare sul suo conto si ricava dai testi e dalla didascalia del codice unico, che lo indica come «S(er) Cecchus Nuccholi de p(er)ussio» (c. 17v.; si veda la tavola del manoscritto riportata in Bruni Bettarini, 1971). Da tale didascalia si deduce che fosse un notaio, al pari di Marino Ceccoli, altro poeta di spicco del gruppo; tuttavia «non risulta che sia mai stato iscritto nelle matricole perugine dell’arte e, per ora, non è mai stato ritrovato nessun atto da lui rogato» (Berisso, 2000, p. 120). La circostanza è sospetta, al punto da spingere Berisso a ipotizzare «che Nuccoli esercitasse il notariato non nella propria città ma altrove (non così lontano, però, da non poter intrattenere rapporti letterari coi suoi concittadini)».
È vero che il nome riportato dal codice potrebbe essere risolto in Francesco di Nuccolo o simile (Massèra, 1920, suggerisce che Nuccolo possa essere forma dialettale per Niccolo, equivalenza tendenzialmente negata da Berisso, 2000, p. 120), ma ugualmente i documenti d’archivio indagati dagli storici e dagli eruditi non hanno permesso di identificarlo in modo del tutto soddisfacente: non sembra risolutiva la proposta di riconoscerlo in un Ciccolus Nuccioli, cittadino perugino di alto censo documentato nel 1320 (Botterill, 1988, pp. 17 s.; si veda Berisso, 2000, p. 120, che parla anche di un Franciscus Nuccholi Tudertini); qualche pretesa potrebbe forse vantare Cecholus Nucoli Todinelli del rione perugino di Porta Eburnea, che compare come testimone in un documento del 1348 (il regesto in Sartore, 2005, p. 220), ma manca il titolo di «ser». Certo è che sul personaggio e sulla sua consistenza storica «ogni inchiesta è ancora apertissima» (Berisso, 2000, p. 121).
Nuccoli è il meno definibile dei poeti perugini – operanti in una lingua venata di municipalismi e con ricercatezze tecniche soprattutto in rima – anche in senso letterario. Intanto, il testimone che ha consegnato alla memoria dei posteri l’attività del gruppo sembra averlo inserito nel progetto antologico solo in un secondo momento e in modo desultorio, senza garantire al suo corpus una forma omogenea e continua (quale presenta la produzione di Nerio Moscoli e, almeno in parte, anche quella di Ceccoli: Berisso, 2000, pp. 39-112, in particolare 99-102). Inoltre i testi del poeta sembrano sfuggire (in parte ciò vale anche per Moscoli e Ceccoli) a una definizione stilistica unitaria. L’insieme delle sue rime ammonta a 30 sonetti compresi quelli con cui partecipa a tenzoni con diversi poeti (e includendo l’adespoto Tacer vorrei, ma pur conven ch’io sbocchi; Berisso, pp. 99 s., annota inoltre che andrebbe «forse aggiunto anche Se io vivesse, dico, ben mill’anni [c. 76 v.], adespoto in B e attribuito con cautela da Massèra a Nuccoli»).
Questo gruppo di testi, piuttosto ricco nell’economia complessiva della cerchia perugina (qualche unità in più rispetto a Ceccoli, mentre sono molto più numerosi i componimenti di Moscoli), risulta alquanto vario: se in diversi sonetti (anche in tenzone) Nuccoli si avvicina a una rimeria di tipo giocoso ascrivibile alla linea angiolieresca, condividendone motivi, lessico e stile (si pensi per esempio a Rabbia mi morde el cor con magiur izza, giocato su rime aspre ed espressionistiche nelle quartine e costruito sul motivo del vituperium), altri componimenti si inseriscono in una sorta di tardo-stilnovismo analogo a quello praticato da Moscoli (ma con sistematico indirizzo non alla donna bensì all’amato, secondo la declinazione omoerotica caratteristica anche di Ceccoli), mentre non manca qualche traccia di motivi politici (si veda Mostransi chiaro per divin giudizio, contro i Tarlati) e religiosi (il sonetto Pecchavi, Deus, miserere mei; non sembra persuasiva la lettura di Berisso, 2000, pp. 102-03, secondo cui questo rimanderebbe, sotto l’ammanto di moduli biblici, a un contenuto erotico). Si potrebbe perciò riferire a Nuccoli il giudizio più generale di Achille Tartaro sui perugini (1971, p. 425): «Il repertorio comico non è assente, ma tenuto ai margini di un esercizio letterario che alla beffarda parodia anticortese preferisce il gioco ambiguo di una cortesia omosessuale, né perciò meno intenerita e trepida di quella stilnovistica».
Proprio l’interpretazione da dare alle rime d’amore scritte da Nuccoli per il più giovane Trebaldino Manfredini (condannato nel 1361 per aver partecipato a una congiura contro il governo della città: documenti in Sartore, 2005, pp. 329-30) ha diviso i critici. Se Mario Marti ha sempre riconosciuto al motivo una patina esclusivamente letteraria, come elemento parodico rispetto alla lirica cortese e senza corrispondenze sul piano biografico, Steven Botterill (1991) ha insistito sulla natura limitante di una simile prospettiva e sulla possibilità che tali rime, piuttosto raffinate nel loro gioco intellettuale, abbiano un’effettiva base biografica (del resto una cauta revisione della lettura puramente giocosa del motivo era già in altri interpreti, come Baldelli e Tartaro).
Lo stesso dibattito depone a favore della complessità dell’operazione letteraria di Nuccoli, non a caso considerato da Berisso (2000, p. 99) «l’autore di più spiccata originalità stilistica» del gruppo perugino (anche in senso plurilinguistico, con inserti in latino e in tedesco): si ricordi per esempio che sia Mancini 1996 (editore di quasi tutto il corpus trasmesso dal Barberiniano Latino 4036; pur con qualche residuo problema ecdotico, per esempio in ambito prosodico, è questa l’edizione di riferimento) sia Berisso 2000 considerano il sonetto Andando per Via Nova e per Via Maggio un testo interamente cifrato in senso furbesco e osceno, tale da istituire un significato ulteriore rispetto a quello letterale.
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