CAVE DI MARMO (λατομεία, lapicidinae, anche metalla)
Dal momento che le tecniche di estrazione del marmo non differiscono molto da quelle di altri materiali lapidei, lo studio delle c. di marmo va necessariamente compreso in una trattazione generale sull'estrazione di tutti i tipi di pietra. Da un punto di vista artistico tutti i materiali dei quali era possibile il polimento (p.es. i graniti, i porfidi e altre rocce calcaree) furono impropriamente considerati dagli antichi come marmi.
In relazione alla loro consistenza i materiali lapidei possono essere classificati come molto teneri, teneri, semiconsistenti, consistenti, duri (alami calcari) e freddi (marmi, graniti, ecc.). Le pietre tenere potevano essere estratte e lavorate con gli stessi strumenti impiegati per la lavorazione del legno. A tale scopo non era necessario aprire vere e proprie c.: è il caso delle steatiti, delle serpentiniti, delle cloriti e dei gessi utilizzati nella Creta minoica sia in architettura, sia nella manifattura di vasi (Becker, 1976). Per le altre pietre si svilupparono, invece, tecniche idonee alla loro durezza.
Origine e sviluppo delle c. antiche. - Già in epoca preistorica è attestato un largo uso di materiali lapidei facilmente estraibili. I primi idoli di marmo, realizzati con ciottoli o scapoli, erano diffusi nel mondo egeo (Peloponneso, Attica, Cicladi) già nel Neolitico Medio e Tardo. Mentre, generalmente, il materiale per la manifattura di questi oggetti era raccolto in superficie, su spiagge o in ambienti montani, dove si depositava in seguito a fenomeni naturali di erosione, una recente scoperta ha dimostrato che, nella valle del Nilo, già nel Paleolitico Medio esistevano miniere sfruttate per l'industria litica della selce. Inizialmente (c.a 50.000 anni fa) la tecnica impiegata era molto semplice e la raccolta avveniva in trincee e fosse scavate a cielo aperto con utensili in materiali organici (legno, osso). Già nel Paleolitico Superiore (c.a 30.000 anni fa) si praticavano pozzi verticali, dai quali si diramavano piccole gallerie sotterranee; a tale scopo erano impiegati strumenti di corno e di pietra (Vermeersch, Paulissen, 1989).
Nell'Egitto predinastico e nelle Cicladi dell'Antico Bronzo il materiale litico per l'architettura e la scultura si estraeva anche con la tecnica della sfaldatura, consistente nel distacco, con l'aiuto di cunei di legno (o di bronzo, nell'area cicladica, durante la fase di Keros-Syros), di pietre già parzialmente separate dal nucleo roccioso o in cui gli strati naturali erano tra loro distinti da diaclasi. Questo procedimento, che permetteva di ottenere anche blocchi di grandi dimensioni in materiale duro, non può ancora propriamente definirsi una vera tecnica di estrazione. È stato accertato che le prime c. di pietra sfruttate per l'architettura e la scultura furono aperte in Egitto durante l'Antico Regno (inizio del III millennio a.C.). Si tratta tanto di c. di pietre dure (come il granito di Assuan o la pietra bekhen di Wādī Hamāmāt), quanto di pietre tenere (arenaria di Gebel Silsila, calcare di Tura). Per l'estrazione di queste pietre gli Egiziani avevano sviluppato tanto la tecnica delle trincee, per isolare i blocchi di roccia, quanto, probabilmente, quella del distacco con l'aiuto di cunei. Il materiale tenero era estratto sia a cielo aperto sia in galleria. Probabilmente nel corso del II millennio a.C. queste tecniche si diffusero dall'Egitto verso l'Asia Minore e il mondo egeo. Così a Creta, nel periodo Medio Minoico, sarebbero state aperte le prime c. di pietre tenere, come l'arenaria (Mallia, Palekastro, Kato Zakro e Mochlos) e il pòros (Cnosso, Festo, Archanes). Il gesso, impiegato anche in precedenza, poteva essere estratto con tecniche molto semplici. Sul continente greco, invece, le prime c. (conglomerato di Haghios Elias, presso Micene, calcari di Micene e Tirinto) non furono aperte prima del XV sec. a.C.
Dopo la catastrofe degli inizi del XII sec., il mondo greco non conobbe c. di pietra prima del VII sec. a.C. Nel periodo che intercorre tra queste due date furono utilizzate solo pietre raccolte in superficie (i lìthoi logàden menzionati da Tucidide, IV, 4). In Asia Minore, invece, la tradizione delle c. di pietra non subì interruzioni. Infatti gli Ittiti, già dal XIV sec., avevano aperto c. di arenaria, di calcare, di conglomerato, di basalto e di granito. Dopo la fine del regno ittita, le tecniche di estrazione furono riprese nelle città dell'Anatolia meridionale e della Siria settentrionale appartenenti alla civiltà neo-ittita. È molto probabile che nel VII sec. a.C. i Greci avessero appreso tali tecniche dalle città levantine, con le quali avevano stretti rapporti e dalle quali provenivano i prototipi delle sculture più arcaiche e dei perirrhantèria. Le prime statue femminili in calcare, nel c.d. stile dedalico del secondo quarto del VII sec. a.C., provenienti da Creta, furono imitate in marmo dagli scultori cicladici già verso la metà del secolo. Sembra tuttavia che, in un momento di poco più antico, la lavorazione del marmo in area greca fosse già in uso in Laconia per la produzione di perirrhantèria (Carter, in Herz, Waelkens, 1988).
Anche le prime c. aperte per uno sfruttamento a scopi edilizi si trovavano nel Peloponneso, dove i Corinzi, nella prima metà del VII sec. a.C., iniziarono l'estrazione del pòros per la costruzione del Tempio di Apollo. I primi edifici in marmo furono eretti nelle Cicladi e successivamente nelle grandi città della Ionia. Del resto, l'Asia Minore, insieme con la Grecia, possiede la maggiore concentrazione di marmi bianchi e colorati di tutto il bacino del Mediterraneo. In seguito all'incremento dell'uso della pietra nell'architettura greca e alla fioritura della scultura, già nel VI sec. a.C. i giacimenti più importanti erano largamente sfruttati: è il caso, per l'Asia Minore, delle c. del Proconneso, di Efeso, di Eraclea, di Mileto, della c. presso Uşak (Temenothyrai) e di Dorylaio; come, per la Grecia, di quelle di Nasso, di Paro, di Thasos, di Dolianà per il marmo bianco, del Tenaro, del Pentelico e forse anche dell'Inietto. Le c. di Marmari nel Peloponneso e quelle di Docimio in Frigia furono aperte al più tardi all'inizio del V sec. a.C. È verosimile che il numero di c. di calcare o di altre pietre tenere fosse ancora maggiore. Si possono elencare, per il VI sec. a.C., accanto all'arenaria di Calidone, i calcari di Corinto, di Eleusi, dell'Imetto, del Pireo, di Egina e di Delfi.
L'architettura greca classica e tardo classica fece un uso limitato di pietre policrome, sia calcari (Atene, Epidauro), sia marmi (p.es. il marmo scuro di Chio). La combinazione di marmi bianchi di origine diversa (pentelico, pario, docimeno, efesio, locale) in uno stesso edificio è stata dimostrata per il Mausoleo di Alicarnasso (Walker, 1988). L'uso di segare il marmo (proconnesio) in lastre per rivestire le pareti di un palazzo fu ugualmente attribuita a Mausolo (Plin., Nat. hist., XXXVI, 47). Il marmo proconnesio sembra tuttavia assente nella decorazione del Mausoleo stesso. Nondimeno, in età ellenistica, la decorazione dipinta (p.es. i finti marmi degli ipogei alessandrini del III sec. a.C.) suggerisce per questo periodo la diffusione di vere incrostazioni marmoree. Per il III sec. a.C. la combinazione di marmi bianchi (pario), grigi (dell'Imetto) e colorati (granito di Syene) è attestata ad Alessandria (Heclsberg, 1981), mentre il «rosso antico» di Capo Tenaro era già esportato a Cirene nel 108-100 a.C. (Fraser, 1956-1958). La prima utilizzazione del «giallo antico» della Numidia si ebbe nel monumento eretto da Micipsa per Massinissa nel 145 a.C. È probabile che, subito dopo, questa qualità di marmo fu esportata a Roma, dove venne impiegata in piccole lastre per pavimentazione. Non è da escludere che nel II sec. a.C. il «giallo antico» e il pavonazzetto importato da Docimio fossero entrambi impiegati per statue di barbari, insieme al «rosso antico» e al marmo rosso di lasos, scelti per altri tipi della statuaria ellenistica.
In ogni caso, a Roma, dopo l'introduzione di marmi bianchi nella seconda metà del II sec. a.C. - forse in origine solo con il valore di spoglie belliche (statue: Vell., I, Il, 3-5; colonne: Plin., Nat. hist., XXXVI, 45) - dall'inizio del I sec. a.C.i prese avvio l'uso di impiegare marmi policromi anche per colonne poste all'interno di edifici, per pavimenti e per rivestimenti di pareti. Tra questi si annoverano l'alabastro di Egitto (c.a 100 a.C.), il «giallo antico» o marmo di Numidia (78 a.C.), l'africano o marmor luculleum di Teos (74 a.C.), le cui c. forse erano state acquistate da Lucullo, il «cipollino antico», o marmor carystium dell'Eubea e il «portasanta» (età cesariana), forse anche il «porfido rosso antico» (lapis porphyrites del Gebel Dukhan, o Mons Porphyrites, nell'Egitto orientale). In età augustea questi marmi erano già ampiamente diffusi a Roma, dove il loro impiego subì un notevole incremento con l'apertura di nuove c. o con l'importazione di altri marmi colorati come il «pavonazzetto antico» (marmor phrygium o synnadicum, lìthos dokìmenos) da Docimio, il marmor hierapolitanum (un alabastro di cui si sono rinvenute le c. presso Hierapolis di Frigia: Waelkens, 1982), la «breccia di Settebassi», o «breccia di Sciro», il «porfido verde antico» (lapis lacedaimonius) dal Peloponneso e il granito rosso di Syene (Assuan). Nel periodo postaugusteo, ma sempre sotto la dinastia giulio-claudia, furono introdotti a Roma il marmo «rosso antico» del Capo Tenaro e il «granito del Foro», che in realtà è una grano-diorite (marmor claudianum da Gebel Fatira, o Mons Claudianus, nel deserto egiziano orientale).
Questa diffusione rapidissima delle pietre policrome a Roma spiega perché - secondo quanto riferisce Strabone (IX, 437) - le colonne monolitiche e le lastre di marmo colorato avevano ormai deprezzato il marmo bianco. Già Cesare, infatti, avrebbe imposto una tassa suntuaria sulle colonne importate a Roma (Cic., Att., XIII, 6, 1). Nel II e nel I sec. a.C. il marmo bianco importato a Roma era soprattutto pentelico e dell'Imetto (c.a 95 a.C., introdotto da L. Licinio Crasso: Plin., Nat. hist., XXXVI, 7). Un radicale mutamento avvenne poco dopo la metà del I sec. d.C., quando forse Mamurra, praefectus fabrum di Cesare in Gallia, avrebbe preso l'iniziativa di aprire nuove c. a Luni (Carrara), il cui marmo sembra fosse già sfruttato su piccola scala da etruschi e liguri. Il suo impiego era stato probabilmente previsto per i programmi architettonici di Cesare. In ogni caso il marmor lunense fu utilizzato per la prima volta a Roma nella casa di Mamurra (Plin., Nat. hist., XXXVI, 48) e fece la sua comparsa in edifici pubblici durante il decennio 40-30 a.C. Mentre si continuò a importare dalla Grecia il marmo statuario, per un secolo il marmo bianco usato nell'architettura pubblica in Italia fu quasi esclusivamente quello del nuovo giacimento di Luni, tanto amato anche da Augusto. Proprio in età augustea furono aperte altre c. di marmo bianco, che, tuttavia, furono sfruttate solo per uso locale, p.es. nei Pirenei (St Béat) e nelle Alpi occidentali (valle della Dora). Le c. di un altro marmo bianco con fitte striature bluastre, detto generalmente «greco scritto», identificate con quelle di Cap de Garde presso Ippona (Tunisia), erano già sfruttate nel I sec. a.C., ma il marmo non era ancora esportato verso l'Italia.
Uno degli eventi più importanti per la storia delle c. antiche fu la conquista dell'Egitto da parte di Augusto. Questo territorio, acquisito come provincia dell'impero, aprì nuove possibilità di rifornimento, poiché tutte le c. egiziane, fino ad allora di proprietà dei Tolemei, entrarono a far parte del Patrimonium Caesaris. Anche la profonda trasformazione nell'estrazione e nell'esportazione del marmo di Docimio segnalata da Strabone (XII, 8, 4), insieme al fatto che questo marmo, nello stesso passo, è già detto «sinnadico» (da Sinnada, centro amministrativo imperiale per i marmi della Frigia), sta probabilmente a indicare che queste c. erano divenute di proprietà imperiale con Augusto (Fant, 1989). Poco prima del suo principato le c. reali della Numidia a Simitthu, che producevano il «giallo antico», sarebbero divenute proprietà della repubblica romana. Il fatto che in età tiberiana altre c. siano passate in proprietà imperiale (Suet., Tib., 49) non va dunque considerato come un'innovazione rivoluzionaria. In ogni caso, prima della fine del I sec. d.C. un gran numero delle c. più importanti del mondo antico era stato acquisito o conquistato dagli imperatori. Durante il I sec. d.C. ebbe inizio anche l'esportazione di altre pietre policrome, come il «fior di pesco» di Calcide (Eubea) o la «breccia corallina» della Bitinia. Un certo numero di graniti, forse estratti già in precedenza per un uso locale, si ritrovano in Italia e altrove a partire dal II sec. d.C.; tra questi il granito violetto (marmor troadense) estratto in più di una località sul Ciğri Dağ nella Troade, il granito grigio dell'Elba e i graniti rosei estratti presso le Bocche di Bonifacio tra Corsica e Sardegna. Una delle ultime pietre colorate impiegate su larga scala fu il «verde antico» (marmor thessalicum), una breccia con elementi scuri e bianchi, proveniente da c. nei pressi di Larissa in Tessaglia, attive dall'epoca di Adriano fino a quella di Giustiniano.
Come si può osservare nei centri campani, l'impiego di tutti questi marmi fu di poco posteriore in queste città rispetto a Roma. Un gran numero di essi era, tuttavia, già impiegato in età flavia. Il forte aumento delle richieste condusse gradualmente a una riorganizzazione delle fonti di rifornimento private o pubbliche. Numerose città, soprattutto in Asia Minore, cominciarono o continuarono a sfruttare i propri giacimenti per un uso locale o per una limitata esportazione (p.es. Afrodisiade e Thasos).
Vasti programmi edilizi, come quelli di Domiziano e poi di Traiano, determinarono un considerevole incremento nella produzione delle c. imperiali, già dall'inizio sfruttate per opere pubbliche; tale incremento rese necessario apprestare depositi per l'accumulo di materiali, come quelli di Porto (Ostia), della Marmorata e del Campo Marzio a Roma. Le iscrizioni di c. in Asia Minore (Frigia, Teos) indicano un'estrazione in serie, ben controllata a partire dal regno di Domiziano in poi. Le c. del deserto egiziano mostrano, invece, un aumento della produzione soprattutto in età adrianea e traianea. Nello stesso periodo il marmo di Luni cominciò a perdere mercato a Roma e in Italia; infatti, già alla fine del I sec. d.C., i marmi dell'Attica e del Proconneso avevano iniziato a prendere il suo posto nelle costruzioni pubbliche. Nel III sec. d.C. i marmi di Thasos e del Proconneso sostituirono a Roma quello di Carrara anche nella produzione di sarcofagi. Nel II sec. d.C., come conseguenza della riorganizzazione del sistema di produzione operata nel secolo precedente, una crescente quantità di marmi - provenienti sia dalle c. imperiali sia da c. private - poteva essere acquistata nelle città provinciali che non avevano proprie possibilità di rifornimento. Sembra, tuttavia, che alcune fra le c. imperiali indirizzassero le loro esportazioni quasi esclusivamente verso Roma e l'Italia (è il caso dell'africano e del «giallo antico»). Nondimeno, dal II sec. d.C. in poi, il marmo statuario, fino a questo momento assai raro, sembra essere stato estratto in quantità idonea alla realizzazione di statue di grandi dimensioni, ricavate da un solo blocco, in molti casi con una disposizione della figura maggiormente estesa nello spazio che comportava un dispendio superiore di materiale.
Non vi è alcun dubbio che il II sec. d.C. costituisce il periodo di massima espansione dello sfruttamento delle c. di marmo. Per fare un esempio, tra il principato di Traiano e quello di Antonino Pio in una sola c. di Docimio furono estratti non meno di 500.000 m3 di pavonazzetto. In età adrianea venne attuata una riorganizzazione amministrativa, finalizzata a un controllo più diretto delle c. imperiali, ampiamente documentata da iscrizioni di cava. Anche se è possibile che siano stati impiegati altri tipi di marchi di c., il fatto che tali iscrizioni diminuiscano nel III sec. è un chiaro indizio del fatto che numerose c. avevano superato l'acme della loro produzione. Fra queste certamente le c. di Teos (africano) e di Chio (portasanta), il cui marmo continuò a essere ricercato fino all'epoca di Diocleziano, ma la cui produzione cominciò a diminuire, se non a cessare, già dopo gli Antonini.
Gli enormi depositi di marmo esistenti a Roma e in altre città potrebbero spiegare, avendo provocato una saturazione del mercato, un certo declino delle attività di estrazione; è quasi certo che questo fu anche determinato dalla crisi economica e dalle invasioni del III sec. d.C. Così l'effettiva produzione del marmo pentelico e di quello dell'Imetto venne meno nel 267 d.C., in seguito all'invasione degli Eruli. L'invasione dei Goti, nel terzo quarto del III sec., molto probabilmente provocava l'abbandono delle c. di Mileto, il cui materiale era servito per la costruzione del Didymàion, e un declino di quelle di Docimio. Verso la fine del III sec. d.C. anche l'esportazione del marmo di Numidia, del porfido e del granito di Egitto cominciò a decrescere. Ancora ai tempi di Diocleziano, tuttavia, il commercio dei marmi era un fenomeno di tale portata da richiedere, nel 301, una normativa imposta da un decreto imperiale. Si riprese l'attività in parecchie c. come quelle di Simitthu, del Mons Porphyrites e del Mons Claudianus, mentre se ne aprirono di nuove nei Pirenei (attuale versante francese) che continuarono a rifornire la Gallia, ma anche Roma, fino agli inizi del Medioevo. Altre c., però, cessano di nuovo la loro attività intorno alla metà del IV sec. (p.es. quelle del Mons Claudianus) o del V (p.es. Mons Porphyrites e forse anche Luni). Anche i numerosi editti particolari del IV-V sec. e le leggi del codice teodosiano riguardanti lo sfruttamento delle c. illustrano il decadere di questa industria.
I marmi accumulati nei depositi di Roma erano, tuttavia, talmente abbondanti da permetterne un uso ancora fino alle soglie del nostro secolo. D'altra parte, in Oriente, in epoca bizantina, tornarono a prosperare giacimenti che si trovavano in una posizione favorevole per rifornire Costantinopoli: fra questi le c. di Larissa, di Hierapolis, di Docimio, del Proconneso e della Troade, sempre attive nel V e nel VI secolo. In quest'epoca il proconnesio era, fra tutti, il marmo più largamente usato, ma anche altre c. trassero vantaggio dalla loro vicinanza al mare, come le c. di Aliki a Thasos e di Caristo in Eubea, o a un centro amministrativo, come quelle di Afrodisiade, che era divenuta capitale provinciale. Le c. di Thasos vennero presto abbandonate nel VI sec., dopo l'invasione degli Slavi e, con le eccezioni di Docimio (che ebbe ancora una limitata attività fino al X sec.) e del Proconneso (ancora sfruttato in epoca ottomana), dal periodo medio bizantino in poi, anche in Oriente i marmi provenivano normalmente dai depositi quasi inesauribili presenti nelle città e nelle c. abbandonate. Mentre l'attività estrattiva a Luni riprende già tra il X e il XII sec., un gran numero delle c. orientali ha ripreso la sua attività solo da una generazione. Sfortunatamente i moderni metodi di lavorazione e l'estrazione su larga scala oggi praticata, provocano la completa sparizione di tutte le tracce del lavoro antico all'interno delle cave.
La tecnica di estrazione nelle c. - Per quanto riguarda le tecniche di lavoro nelle c., le fonti scritte sono molto scarse e costringono alla ricerca di tracce materiali nell’ambito delle c. stesse. Un'altra fonte d'informazione può essere costituita dall'osservazione dei procedimenti usati in piccole c. di epoca moderna, dove la tecnica di estrazione, ancora nella passata generazione, non aveva subito trasformazioni significative.
La scelta di una c. era il risultato della valutazione di diversi fattori, come la qualità della pietra, le possibilità - dipendenti dall'esistenza di diaclasi e dalla durezza del materiale - di distaccare blocchi di grandi dimensioni, la preferenza per determinati colori o altri caratteri qualitativi, la presenza di acqua da usarsi nelle fucine delle c., la posizione vantaggiosa in relazione al trasporto marittimo o stradale. Tutte le operazioni di estrazione erano pertanto precedute da prospezioni e da saggi, atti ad accertare la presenza di consistenti banchi rocciosi della qualità di pietra desiderata. La prima operazione consisteva nell'esame della situazione litoclastica generale. La stratificazione della pietra, infatti, può presentarsi omogenea, con andamento orizzontale o obliquo, o, viceversa, può risultare interrotta da diaclasi; in terreni calcarei questo frazionamento può essere infinitesimale. Si cercava, dunque, di sfruttare i piani di sedimentazione con le loro inclinazioni e le litoclasi che si presentano naturalmente perpendicolari ai piani di sedimentazione. In tal caso era spesso sufficiente la tecnica della sfaldatura che, con l'aiuto di cunei o di una leva, opera il distacco di blocchi da strati separati da litoclasi. In zone caratterizzate dalla presenza di pietre magmatiche (come le più antiche c. di granito di Assuan, le c. di granito nell'Odenwald, o le c. di basalto usate dagli Ittiti) le rocce erano in molti casi già sezionate, in conseguenza di fenomeni di erosione, in blocchi enormi ed era sufficiente tagliarle nella forma desiderata.
Un aspetto tipico delle formazioni metamorfiche, come quella del marmo, è rappresentato da fratture o litoclasi, chiamate «peli» dai cavatori, all'interno delle quali la massa si presenta disposta in porzioni prismatiche di spessore variabile, ma compatte. Poiché una data situazione litoclastica determinava gli sviluppi del taglio in una direzione piuttosto che in un'altra e anche le dimensioni dei blocchi, l'andamento dei peli principali doveva essere ben chiaro prima di iniziare il lavoro. I blocchi estratti, infatti, dovevano avere facce parallele ai piani dei peli. Per quanto riguarda la conformazione mineralogica possono verificarsi differenze sensibili anche tra varí filoni della stessa c., sia per le caratteristiche petrologiche intrinseche, sia per il particolare tipo di resa che ci si prefigge di ottenere. Tutte queste differenze sono ricollegabili ai modi diversi con cui il marmo - o in genere pietre di consistenza dura - risponde ai metodi impiegati nel procedimento estrattivo. Questo bagaglio di conoscenze empiriche, che si formavano nel quotidiano contatto con la pietra e che richiedevano un certo periodo di adattamento alle particolarità di ogni nuovo filone, divenne uno strumento che i cavatori sfruttavano non solo per individuare i filoni diversi, ma anche per ottenere una resa ottimale della cava.
Una volta esaminata la situazione litoclastica generale si procedeva all'estrazione di qualche campione scavando alcune trincee o qualche pozzo (p.es. nel granito di Assuan o dell'Odenwald) o estraendo blocchi di piccole dimensioni (p.es. Nasso e Thasos). In tal modo si poteva anche individuare il reciproco rapporto esistente tra i peli principali. Dati sulle caratteristiche strutturali interne erano inoltre forniti da fenditure aperte con l'aiuto di cunei e mazze. Dopo queste operazioni si passava allo scavo del materiale che consisteva dapprima nella rimozione del manto di terra, vegetali o roccia, chiamato «cappellaccio», che ricopriva il giacimento. Questa operazione, quando era possibile, si eseguiva con la tecnica della sfaldatura. Mentre la parte superiore è di solito inutilizzabile, gli strati più bassi del cappellaccio potevano essere sfruttati per il taglio di pietrame minuto. Spesso si eseguiva una sezione in parete per isolare il punto di separazione tra il cappellaccio e la pietra da estrarre (p.es. a Belevi, a Siracusa, ecc.).
Lo spessore dello strato di cappellaccio determinava anche la modalità di estrazione, a cielo aperto o in galleria. Il primo sistema appare adoperato con maggior frequenza e fu applicato per la prima volta in Egitto, all'inizio del III millennio, per filoni di calcare. L'estrazione poteva essere realizzata a strati successivi su terreni pianeggianti (p.es. vicino alle piramidi della IV dinastia) o a gradoni in zone collinari (p.es. nelle c. di arenaria a Gebel Silsila). In entrambi i casi il risultato era una fronte di cava. Lo sfruttamento aveva inizio dalla sommità (testa) del filone e si sviluppava dall'alto verso il basso. Su terreni collinari furono invece creati terrazzamenti che facilitavano l'accesso.
Il taglio della pietra era preparato da un tracciato di linee, dipinte o realizzate con punciotti, che disegnavano la forma e le dimensioni di un singolo blocco, ovvero di un reticolo, qualora si volessero estrarre pezzi in serie. Dopo aver delineato il perimetro del blocco si procedeva con la tecnica «a tagliata» o caesura; si tagliava, cioè, una trincea di profondità variabile intorno al blocco da estrarre. Il taglio di un reticolato di trincee sul terreno (p.es. nelle c. presso le piramidi, o in quelle di Mallia) consentiva di usare ogni trincea per due blocchi contigui con un distacco in rapida successione e permetteva, inoltre, un grande risparmio di energie. Se il materiale si distaccava facilmente, la profondità della trincea poteva essere inferiore all'altezza del blocco da cavare; con materiale di più difficile estrazione la profondità della trincea doveva invece essere maggiore. Anche la larghezza della trincea era determinata dalle dimensioni del blocco da estrarre.
In Egitto, nelle c. di arenaria o di calcare, fino all'epoca romana questo lavoro si faceva normalmente con un mazzuolo e uno scalpello, prima di rame, poi di bronzo e infine anche di ferro (D. e R. Klemm, 1981). Per il distacco della faccia inferiore dei blocchi si sfruttavano, quando ciò era possibile, le fratture naturali del giacimento, utilizzando leve di metallo e pali di legno. In strati più compatti gli Egiziani impiegavano lo scalpello per distaccare il blocco dalla roccia con una serie di colpi o con una formella inserita in profondità (p.es. a Gebel Silsila). Può darsi che in alcuni casi siano stati impiegati cunei di rame o di bronzo; non è da escludere, tuttavia, che gli esemplari di tali utensili rinvenuti in Egitto, in realtà fossero stati usati non nelle operazioni di estrazione ma nella successiva fase di divisione e rifinitura dei blocchi, che avveniva in officine e cantieri.
Nel caso di rocce particolarmente dure (graniti, pietra bekhen), gli Egiziani adoperavano la stessa tecnica, utilizzando però strumenti diversi. Per facilitare le operazioni, almeno nello strato superiore di cappellaccio, è certo, in alcuni casi (per la pietra bekhen), l'uso del fuoco immediatamente seguito da un raffreddamento con acqua. Per i graniti di Assuan non è neppure da escludere, per il periodo più antico, la scelta di blocchi già distaccati in seguito a erosione (i c.d. Felsenmeere). Pare che già nella IV dinastia venissero impiegati cunei di legno asciutto per fendere verticalmente i monoliti (Stoßspaltung). In un secondo momento questi cunei di legno venivano bagnati in modo che, dilatandosi, provocassero una fenditura nel blocco grazie alla pressione uniforme esercitata. Almeno dal II millennio a.C. anche nelle masse compatte di granito furono tagliate trincee attorno ai blocchi da estrarre; a tale scopo, se la pietra era troppo dura per gli strumenti di rame o di bronzo, i cavatori ricorrevano a martelli di diorite.
Per quanto riguarda il distacco del blocco, è ovvio che l'uso di cunei di legno non serviva a sezionare blocchi di grandi dimensioni, già isolati superiormente e sui quattro lati, perché la posizione obliqua degli strati di granito ad Assuan non permetteva di bagnare i cunei in maniera omogenea e quindi non si aveva una pressione uniforme su tutta la superficie. A seconda delle dimensioni del blocco il metodo utilizzato sembra essere stato quello di scavare una trincea con l'aiuto di martelli di diorite sotto tutta o solo una parte della massa da staccare; dopodiché si impiegavano per il distacco pali di legno usati come leve o introdotti in una trincea per far pressione su un lato del blocco. I cunei di ferro non entrarono in uso prima della seconda metà del I millennio a.C. Nelle c. di granito pare che gli scalpelli di ferro non abbiano fatto la loro apparizione prima dell'epoca tolemaica.
Quando lo strato di cappellaccio era troppo spesso, gli Egiziani effettuavano, già nell'Antico Regno, anche l'estrazione sotterranea, praticando gallerie e cunicoli all'interno di un monte, avendo cura, però, di lasciare, a sostegno della volta, pilastri ricavati nella roccia stessa (p.es. nelle c. di calcare di Tura, o in quelle di arenaria a Gebel Silsila). Il procedimento di distacco del materiale dalle pareti era sostanzialmente simile a quello seguito nell'estrazione a cielo aperto, anche se nelle gallerie si ricavava normalmente lo spessore di un blocco su tutta l'altezza e la larghezza della galleria prima di proseguire sulla parete successiva. Gli strumenti utilizzati erano, anche in questo caso, scalpelli e cunei metallici. Nel II millennio le stesse tecniche degli Egiziani erano in uso a Creta, dove, per le pietre tenere (arenaria, pòros) si praticavano trincee laterali cui seguiva il distacco della faccia inferiore dei blocchi. Anche qui si ritrovano estrazioni a strati successivi (Archanes, Mallia) o a gradini (Cnosso, Mochlos, Palekastro, Kato Zakro).
Le c. si trovano quasi sempre in prossimità del mare o di un fiume, forse non solo per rendere più agevole il trasporto del materiale estratto, ma anche perché non è da escludere l'uso dell'acqua nelle operazioni di distacco delle pietre tenere. Le tracce presenti nelle c. mostrano che i cavatori utilizzavano solo strumenti di bronzo, scalpelli o picconi a seconda della pietra (per picconi di bronzo usati a Cipro: Karageorgis, 1969). Per il distacco della faccia inferiore dei blocchi non esistono tracce dell'uso di cunei di legno o di metallo. È verosimile che in alcuni casi fosse sufficiente l'impiego di leve di bronzo o l'inserimento di pali di legno. Talvolta per favorire il distacco, con l'aiuto dello scalpello o del piccone, si inseriva alla base stessa del blocco una formella che causava fessure interne.
Le pietre dure usate nell'architettura minoica (sideròpetra, conglomerato, ecc.) si trovano sempre in strati attraversati da diaclasi, in cui bastava agire sui peli mediante leve per sezionare i blocchi. È molto probabile che presso i Micenei fossero in uso le stesse tecniche di estrazione. Data l'interruzione in Grecia di ogni attività edilizia monumentale tra l'XI e il VII sec. a.C. è quasi da escludersi che i cavatori di età arcaica abbiano recepito tradizioni tecniche dell'Età del Bronzo. È quindi verosimile che le tecniche di estrazione fossero giunte in Grecia direttamente dall'Oriente e in particolare dalla Siria e dall'Anatolia meridionale, piuttosto che dall'Egitto. Le prime sculture greche di calcare e di marmo mostrano manifeste influenze levantine. Come strumento per l'estrazione, inoltre, i cavatori greci utilizzarono, fin dall'inizio, il piccone, utensile che non fu mai adoperato in Egitto fino all'epoca tolemaica (p.es. nelle c. di calcare di Gebel Tuš e nelle c. presso Alessandria). È dunque chiaro che il piccone, come utensile di c., fu introdotto in Egitto dai Greci.
Le tracce più antiche di strumenti in una c. di marmo greca (Apollonas a Nasso) sono identiche a quelle che si trovano nelle c. di calcare di Khattuša/Boğazköy, la capitale degli Ittiti. La loro datazione non è certa, ma le stesse tracce sono state identificate all'interno del bacino con leoni, rinvenuto nel tempio principale della città, ricavato nel XIII sec. da un monolite di calcare (Neve, 1987, figg. 12-13). È chiaro che tali tracce furono lasciate da un piccone (di bronzo ?) ed è probabile che lo stesso strumento fosse impiegato nelle c. dei neo-ittiti. Un rilievo del palazzo di Sennacherib a Ninive (704-681 a.C.) mostra che anche nelle c. di alabastro a Balata le trincee di c. erano realizzate con l'aiuto di picconi (Orthmann, 1975, fig. 234 a-b). Il piccone come strumento di c. potrebbe aver avuto le sue origini in Oriente e fu in seguito recepito in Grecia e qui impiegato per la prima volta nell'estrazione di pietre dure come il marmo. D'altra parte, poiché gli Ittiti, per il distacco dei blocchi, sembrano aver applicato le stesse tecniche dei Minoici, non è da escludere che l'uso dei cunei nelle c. greche fosse invece di origine egiziana.
Le tecniche adoperate dai cavatori greci partivano di nuovo dal taglio, laterale e posteriore al blocco, da una trincea di profondità variabile a seconda della pietra e delle dimensioni del blocco; stesso. Questo taglio fu effettuato con un piccone leggero, ma abbastanza lungo e diritto, con punta singola o doppia (forse il latomìs delle fonti greche), simile all'escoude dei cavatori della Gallia. Si tratta di uno strumento che all'origine fu solo impiegato in c. di pietre tenere (tufo, arenaria, calcare tenero), nelle quali il suo uso è ancora certo per il periodo imperiale e moderno (p.es. esso è raffigurato nelle c. romane di tufo a Kruft: Röder, 1957, tav. XXI). Sulle pietre tenere questo piccone lasciava tracce di linee oblique (p.es. nel tufo di Cuma e nel calcare di Siracusa) o leggermente curve (a Rocca di Cusa). Tuttavia, per i calcari duri (p.es. i calcari presso Delfi) e per i marmi, questo strumento non era del tutto efficace: la pietra non veniva tagliata, ma piuttosto frantumata. Le tracce costituite da linee orizzontali sono indizio del fatto che il cavatore dopo ogni colpo faceva un passo indietro, dato che non era facile penetrare subito in profondità. Così la trincea procedeva per strati orizzontali successivi e molto sottili, risultando con una fronte di c. piuttosto liscia e verticale. La perdita di materiale era minima, il lavoro molto preciso e il numero dei cavatori limitato. L'unico svantaggio era il basso ritmo di lavoro, ma la tecnica era perfetta per l'uso greco di scavare solo blocchi singoli, ciascuno per un impiego particolare. L'uso di scalpelli era quasi esclusivamente riservato a correggere le pareti dopo il distacco dei blocchi, operazione necessaria perché le trincee posteriori, poco profonde, presentavano, dopo il distacco, una superficie molto irregolare.
Nelle c. sotterranee per regolarizzare il fondo delle trincee si impiegavano anche l'ascia-piccone o il piccone a punta e a penna. La trincea posteriore o laterale praticata con il piccone fu sostituita in alcuni casi, completamente o in parte, a seconda delle caratteristiche litoclastiche della pietra, da cunei di legno (c. di arenaria di Persepoli nel V sec., c. di marmo di Dolianà nel VI o nel IV sec. a.C.) o di ferro (c. di marmo ellenistiche a Filippi). In generale i fori profondi di forma quadrangolare praticati con uno scalpello per introdurvi i cunei lignei erano più curati, più grandi (lungh. superiore a 20 cm) e normalmente meno fitti (a Dolianà era sufficiente un solo foro) rispetto a quelli eseguiti per cunei di metallo.
Sotto questo aspetto il patrimonio di nozioni empiriche dei «marmorari», formatosi attraverso il quotidiano contatto con la lavorazione della pietra, determinava ancora la scelta della tecnica adoperata. Queste conoscenze furono anche impiegate per il distacco del materiale. È chiaro, adesso, che i diversi tipi di fori per cunei e la loro frequenza non corrispondono a un'evidente evoluzione in senso cronologico, come suppone J. Röder; già nel VI sec. a.C., infatti, le tecniche di distacco furono adattate alle contingenti situazioni litoclastiche e alla durezza del materiale stesso. In alcuni casi (p.es. il calcare tenero di Egina nel V sec. a.C.) il distacco era effettuato mediante una piccola trincea tagliata fino a un livello inferiore alla metà dei blocchi, ma fin dall'inizio dell'età arcaica la tecnica normalmente usata prevedeva l'impiego di cunei di ferro (p.es., nel VI sec. a.C., nelle c. di arenaria a Calidone e nelle c. di marmo ad Apollonas di Nasso, a Belevi e a Thasos). La quantità dei cunei impiegati era in diretta relazione solo con la situazione litoclastica, favorevole o sfavorevole, del materiale. Pare che, a eccezione di un caso nella Gallia meridionale dove i fori furono praticati sotto il livello del fondo della trincea per permettere una irrorazione continua di acqua, i cunei di legno non furono mai usati dai Greci per il distacco orizzontale.
Nelle c. del VI sec. a.C. (p.es. a Thasos) si possono osservare numerose tracce di un distacco irregolare (cioè obliquo) con una perdita notevole di materiale. Questo fatto potrebbe spiegare anche lo scarso spessore delle statue arcaiche del VII sec. a.C. Ben presto, tuttavia, gli scavatori iniziarono a sviluppare tecniche di controllo. Già nel VI sec. il distacco mediante cunei di ferro su un lato lungo fu combinato con il metodo dei punciotti su uno o tre degli altri lati (p.es. a Thasos e a Belevi). Questo metodo, finalizzato a ottenere una migliore superficie di distacco prevedeva, lungo la linea di taglio inferiore del blocco, una serie di punciotti che, battuti con un punteruolo e un mazzuolo, causavano fessure interne al livello desiderato. Per blocchi di piccole dimensioni la tecnica dei punciotti fu anche adoperata da sola fino all'epoca bizantina. Un'altra tecnica per favorire un distacco più regolare, già sviluppata nel VI sec. a.C. (Belevi) e adoperata fino all'epoca bizantina, consisteva nell'inserimento di una formella a V nella superficie della roccia, in cui successivamente potevano essere aperti i fori per i cunei di ferro. Questo metodo fu impiegato tanto per il distacco orizzontale quanto per quello verticale. Per quest'ultimo tipo di distacco si svilupparono anche altri sistemi di controllo. Già nel V sec. a.C. (a Persepoli) i fori per i cunei furono praticati entro una scanalatura poco profonda, che superava lo strato esterno, meno compatto e alterato, e, nel caso di impiego di cunei lignei, permetteva un migliore scorrimento dell'acqua necessaria a bagnarli. Al più tardi in età ellenistica i fori per i cunei usati per il distacco verticale furono anche praticati alla base di una trincea profonda.
Un certo numero di c. della Grecia arcaica, classica ed ellenistica si presentano come pozzi piuttosto piccoli e molto distanziati l'uno dall'altro, in cui furono scavati singoli blocchi, ciascuno per un impiego particolare (p.es. le c. di Agrileza per il Tempio di Apollo a Capo Sunio; ancora in epoca imperiale le c. di Mileto usate per il Didymàion). Al contrario le c. sfruttate per grandi complessi monumentali (quelle di Belevi per l'Artemìsion di Efeso, quelle di Rocca di Cusa per il tempio G di Selinunte) o per rifornire le grandi città avevano già dimensioni enormi; le c. di calcare del Pireo e di Siracusa potevano essere addirittura usate come luogo di contenzione per migliaia di prigionieri (Xenoph., Hell., 1, 2, 14; Thuc., VII, 86, 1; Cic., Verr., V, 27, 68). Più tardi i Tolemei avrebbero aperto nel Gebel Silsila c. tra le più grandi del mondo antico.
Per raggiungere giacimenti posti a una qualche profondità o per seguire un filone molto puro, i cavatori greci praticavano anche l'estrazione sotterranea, seguendo il procedimento già adoperato dagli Egiziani. L'esempio più famoso è rappresentato dalle c. di Paro, dove le qualità di marmo sono, in realtà, più di una. Un marmo bianco a grana piuttosto grossa si estraeva a cielo aperto in due valli su entrambi i versanti dello stesso monte, presso Marathi. L'attività estrattiva nella valle occidentale (Chorodaki) era più importante di quella della valle orientale (Stephani), ma in quest'ultima si trovava un filone composto da materiale più fine, caratterizzato da una notevole translucidità e ottimo per la scultura; era questo il marmo statuario antico più noto e pregiato, chiamato anche lychnites (Plin., Nat. hist., XXXVI, 14). Il filone, piuttosto ristretto, del lychnites emerge in superficie solo in alcuni punti, con un'inclinazione da 20o a 40 o; di conseguenza il marmo fu estratto in almeno quattro gallerie sotterranee, la più importante delle quali partiva da una cavità naturale e penetrava per almeno 130 m nelle pendici della montagna, fino a una profondità di 64 m sotto il livello dell'ingresso. Da questa galleria, chiamata Grotta delle Ninfe per un rilievo posto al suo ingresso, che testimonia la sua esistenza già nel IV sec. a.C., sono stati estratti, prima del periodo tardoantico, non meno di 50.000 m3 di marmo. Le c. più impressionanti per estrazione sotterranea sono, tuttavia, quelle di Siracusa, dalle quali, in età arcaica e classica, fu estratto un calcare di buona qualità. Per ottenere un rendimento ottimale il taglio delle pareti fu effettuato con un'inclinazione sempre più forte dall'alto verso il basso. Lo stesso sistema si ritrova, più tardi, nelle c. di calcare della Mareotis presso Alessandria.
All'inizio dell'epoca imperiale, almeno fino alla metà del I sec. d.C., i sistemi per l'estrazione e gli strumenti di lavoro rimasero nella maggior parte dei casi identici a quelli impiegati in precedenza. Solo in Gallia si aprirono c. di calcari più duri, nelle quali sembra essere stato introdotto, già in età augustea, un piccone del tipo escoude, a punta dentata. La trasformazione dei sistemi imprenditoriali in organizzazioni che lavoravano su vasta scala e l'introduzione, dall'età flavia in poi, di un sistema di produzione standardizzato, in cui blocchi di misure e di qualità fuori dall'ordinario erano estratti solo su ordinazione, gradualmente influì anche sugli strumenti di lavoro. Soprattutto nelle c. statali e in quelle delle grandi città provinciali il vecchio piccone di c. sopra descritto fu sostituito da un piccone più resistente a due punte piramidali e assottigliato nella parte mediana (per un esempio antico dalle c. di calcare presso Mitilene: Daux, 1962, p. 876, fig. 4), che assomiglia all'attrezzo usato ancor oggi nelle c. per sbozzare i blocchi. Questo strumento penetrava più facilmente in una massa dura e, permettendo l'impiego contemporaneo di più operai, forniva un rendimento più elevato. Questo tipo di piccone ha lasciato sulle pareti tracce curvilinee, con un caratteristico andamento «a festoni», in cui ogni «festone» indica il raggio d'azione di un singolo marmorario. La parte mediana, più sottile, dello strumento, obbligava però l'operaio a tenersi più distante dalla parete, man mano che penetrava in profondità e a cambiare regolarmente la direzione di lavoro. L'impiego del nuovo strumento aveva come conseguenza una facciata di c. più irregolare e comportava una maggior perdita di materiale. Forse, in un regime di sfruttamento intensivo quale fu quello praticato nelle c. statali, lo svantaggio fu compensato dall'aumento della produzione. In diverse c. appaltate e sfruttate da privati che impiegavano un numero minore di operai, lo scavo continuava, comunque, con il vecchio tipo di piccone. Le c. imperiali si presentano per lo più come enormi pozzi, con pareti alte varie decine di metri (Pentelico, Docimio). In epoca tardo-imperiale e bizantina, forse per la difficoltà di reperire maestranze in grado di segare in lastre il marmo nei cantieri di costruzione, risulta che in alcune c. (Larissa, Docimio, Proconneso e forse anche Simitthu) questa operazione veniva effettuata direttamente in parete. È anche possibile che tale uso fosse determinato dall'esigenza di evitare l'invio di lastre difettose.
Preparazione del materiale estratto. - Dopo il distacco, il materiale cavato subiva un ulteriore trattamento in cantieri allestiti nell'ambito delle stesse c. o nelle vicinanze. Qui i blocchi per semplici strutture murarie venivano squadrati e regolarizzati, mentre quelli destinati a elementi architettonici (colonne, basi, capitelli) o a manufatti d'uso comune (sarcofagi, vasche, trapezofori, ecc.) subivano una sbozzatura sommaria o una parziale lavorazione. Tali operazioni erano eseguite allo scopo di adeguare le misure a quelle eventualmente richieste, di ottenere un prodotto semilavorato di valore commerciale superiore e, infine, di ridurre in maniera sensibile i problemi di trasporto legati a un inutile eccesso di peso. Nella Grecia di età classica ciascun blocco, per quanto riguarda le misure e la sgrossatura, era tagliato e preparato secondo le richieste dell'architetto. Sembra che generalmente il lavoro di rifinitura fosse lasciato alle stesse maestranze o almeno alla supervisione della stessa persona responsabile dell'estrazione del materiale (IG, ι2, 349; II, 25B, 26B, 29, 32, 40; IV2, Ι, 102; Inscr. Délos, 365). Nelle c. imperiali, almeno dal regno di Antonino Pio in poi, fu invece praticata una vera e propria prefabbricazione senza ordinazioni specifiche; i lavori di sbozzatura e squadratura erano affidati a maestranze diverse (officina) dal personale responsabile dell'estrazione (il gruppo addetto alla caesura). Al più tardi dal regno di Domiziano in poi, accanto a blocchi semplici, che servivano da materiale edilizio, quelli destinati a essere segati in lastre ricevevano già nelle c. una forma parallelepipeda, mostrando per lo più su tutte le facce una lavorazione «a gradini» di altezza e profondità molto variabile. Tale forma irregolare era forse determinata in primo luogo dai piani di fenditura da cui si eliminavano solo le imperfezioni con il minore spreco possibile di materiale, creando contemporaneamente settori squadrati in modo da favorire la segatura delle lastre di rivestimento nei luoghi di destinazione. Si può anche pensare che la riduzione del blocco in forme geometriche facilitasse il calcolo del prezzo che si basava sulle misure del blocco stesso. Nelle c. venivano sgrossate anche le colonne e il loro trasporto è già raffigurato su rilievi egizi dell'Antico Regno.
In Grecia le colonne più antiche vennero tagliate in forma monolitica, ma a partire dalla metà del VI sec. a.C. fino al termine dell'età ellenistica si tagliarono solo rocchi di misure specifiche. Il taglio era eseguito a sezioni verticali e già prima del distacco si dava ai blocchi una forma arrotondata (p.es. ad Agrileza e a Mileto). Si poteva anche programmare l'estrazione di quantitativi di pietra di qualità omogenea, destinati alle colonne di grandi edifici, tracciando in superficie, prima del taglio, una serie di trincee di forma circolare. Questa tecnica fu utilizzata nel V sec. a.C. nelle c. di Cusa in Sicilia, dove alcuni tamburi di dimensioni gigantesche sono rimasti a diversi stadi della lavorazione, dalle prime incisioni circolari fino ai rocchi finiti, ma ancora non distaccati dal fondo del banco calcareo-tufaceo. Quando, alla fine dell'età ellenistica, furono di nuovo usate in architettura colonne monolitiche, il loro taglio in posizione verticale, determinato dal filone della pietra, rappresenta piuttosto un'eccezione. Normalmente queste colonne erano estratte orizzontalmente secondo due procedimenti diversi: il primo (p.es. nelle c. imperiali della valle del Tembris in Frigia) consisteva nell'arrotondare i blocchi parallelepipedi solo dopo il distacco; il secondo (p.es. a Simitthu, a Vai nell'isola di Creta, a Caristo, ad Assuan) prevedeva l'arrotondamento delle colonne per gran parte della circonferenza prima del distacco, mentre la completa finitura del resto della circonferenza avveniva in un secondo momento. Dopo questa sgrossatura, comunque, le colonne erano ancora lisciate prima della spedizione e alle due estremità era risparmiata una larga fascia aggettante che costituiva una protezione per il fusto durante il trasporto e contemporaneamente consentiva diverse possibilità per la rifinitura nei cantieri in relazione ai profili delle basi e dei capitelli. È sicuro che in alcuni casi siano state inviate dalle c. colonne delle stesse dimensioni (IG, Ι, 529; Knibbe, 1964-65, p. 30), ma può sussistere incertezza sul fatto che l'estrazione dei fusti avvenisse secondo moduli fissi e in forme e dimensioni standardizzate, come assai spesso è ribadito nella letteratura archeologica.
Le dimensioni delle colonne che si trovano ancora nelle c. (p.es. le numerose colonne di cipollino presso Caristo) o nelle numerose navi naufragate (Kapitän, 1961), sono tutte diverse fra loro e sembrano suggerire che fosse privilegiato lo sfruttamento del materiale a scapito dell'omogeneità del prodotto. Non è dunque da escludere che i depositi contenessero una grande quantità di fusti molto diversi fra loro, dai quali le colonne scelte per uno stesso edificio sarebbero state ridotte alle stesse dimensioni solo in cantiere. I carichi di numerose navi naufragate comprendono, assieme a colonne e a blocchi irregolari destinati a essere segati in lastre, anche altri elementi come capitelli, basi, vasche, trapezofori nonché statue e ritratti sbozzati o semilavorati (p.es. nel relitto di Sile). Ciò dimostra che presso le c. erano venute a costituirsi officine di scultura specializzate nella preparazione di manufatti molto richiesti, avviati all'esportazione sia soltanto sgrossati (come nel caso di un invio di sarcofagi proveniente da Thasos), sia semilavorati secondo forme standardizzate con un conseguente aumento del loro valore commerciale. Anche se non sono molto chiari i precisi rapporti tra le officine di prefabbricazione nell'ambito delle c. e le officine urbane, è probabile che si trattasse di relazioni molto strette. I materiali preparati in c. erano in primo luogo elementi architettonici, come capitelli, basi e anche elementi della trabeazione, esportati in forme modulari, ma privi ancora dell'ultima rifinitura, cioè dell'intaglio dei particolari decorativi. Questa produzione è ora ampiamente documentata nelle c. del Proconneso (Asgari, 1978), specializzate in epoca imperiale nella semilavorazione di basi e di capitelli corinzi e ionici, ma esisteva anche a Luni, a Docimio, a Caristo, a Thasos e altrove. L'ultima rifinitura aveva luogo nei cantieri ed era eseguita dagli scalpellini che avevano accompagnato il carico dei marmi o da maestranze locali.
La semilavorazione nelle c. era già effettuata, anche per la scultura, nell'Egitto faraonico, dove nelle c. di Gebel Silsila e di Assuan si conservano ancora statue quasi finite e dove i rilievi illustrano il trasporto di statue gigantesche dalle c. al cantiere. Questo tipo di procedimento fu anche ripreso dagli Ittiti (p.es. nelle c. di basalto a Fasiler e a Yesemek) e dagli Assiri (per i giganteschi lamassu di alabastro impiegati nel palazzo di Sennacherib a Ninive). Anche per la scultura greca di età arcaica questa tecnica è testimoniata da un certo numero di kouroi, abbandonati in diverse fasi di lavorazione nelle c. di Nasso, e da un frammento di kore rinvenuto a Paro nella valle di Stephani (Waelkens).
Sembra, però, che alla fine dell'età arcaica, la riproduzione del movimento e la composizione di gruppi frontonali fossero interamente ottenute da una lavorazione in officine cittadine che eliminava la semilavorazione di sculture nelle c., per la quale era stato adottato un canone simile a quello egiziano. In età imperiale l'aumento della domanda anche da parte di privati creò un nuovo mercato, quasi insaziabile, per la scultura decorativa, votiva e funeraria. La richiesta fu talmente elevata che non si correva più alcun rischio nella lavorazione parziale di statue di tipo corrente in marmo (nel Proconneso, nelle c. di Akmonia in Frigia, a Thasos) o in calcare (p.es. a Xylophagou nell'isola di Cipro: Karageorgis, 1969). La nave di Sile, che naufragò intorno al 100 d.C. ed era salpata dal Proconneso con un carico di manufatti architettonici e funerari, conteneva anche un ritratto femminile sbozzato (Asgari, 1978, tav. cxlii, 17). Questo sistema di prefabbricazione era soprattutto diffuso per le stele (testimoniato ad Aizanoi e a Docimio per le stele «a porta» di uso locale) e per i sarcofagi, sgrossati in modo da presentare già le forme tipiche di un'officina urbana dove la decorazione era poi portata a compimento secondo le richieste dei committenti. Così nel II e nel III sec. d.C. un gran numero di officine urbane faceva eseguire i propri tipi di sarcofagi nelle stesse c. da cui proveniva il marmo. Soprattutto i sarcofagi a ghirlande erano sbozzati all'esterno della cassa con gli schemi degli elementi portanti, dei festoni e di eventuali altre decorazioni. Questo fatto è attestato ad Assos (andesite), Efeso, Stratonicea di Caria (?), Temenothyrai, Aizanoi, Mileto, Afrodisiade e anche a Hierapolis di Frigia (marmo di Thiounta: Waelkens, 1988).
In tutti questi casi la lavorazione parziale era finalizzata alla realizzazione di un tipo prefissato di sarcofago finito, caratteristico dell'officina. Nondimeno pare che il sistema di prefabbricazione dei sarcofagi semilavorati a ghirlande sarebbe stato sviluppato, già in età flavia, nelle c. del Proconneso, da un'officina che non aveva mai creato un tipo di sarcofago a decorazione finita, ma che era specializzata per l'esportazione verso centri urbani privi di c. di marmo, in cui tuttavia vi erano artigiani che potessero all'occorrenza completare i sarcofagi. Forse altre officine del Proconneso producevano un secondo tipo di sarcofago a cassa piuttosto liscia, con coperchio e acroteri massicci.
Non sorprende che nell'ambito di alcune c. con marmo di ottima qualità o, certamente, nelle loro immediate vicinanze si sviluppassero anche officine di scultori specializzate nella lavorazione completa di statue o di sarcofagi. Il trasporto marittimo effettuato da navi con un carico di statue è testimoniato, per l'età di Domiziano, da Filostrato (Vit. Apoll., ν, 2θ). L'esportazione di prodotti già finiti si riscontra soprattutto nelle c. di marmi pregiati che, in virtù del loro valore commerciale, erano destinati a un mercato orientato a servire le classi superiori della società. Il fenomeno è conosciuto per officine in stretti rapporti con le c. del marmo pentelico in Attica, ma anche per Afrodisiade, che doveva una buona parte delle sue fortune alle vicine c. di marmo e alla sua scuola di scultura. In altri casi la produzione di manufatti marmorei di alto valore qualitativo, e quindi molto costosi, era l'unica possibilità di sviluppo per un'officina situata lontano dal mare. Eventuali prodotti semilavorati, infatti, non avrebbero mai potuto mettersi in concorrenza con quelli di officine che potevano avvalersi direttamente di un trasporto marittimo a buon mercato (p.es. il Proconneso).
Recentemente è stato dimostrato (Waelkens, 1988) che nelle c. imperiali della Frigia operava un'officina in cui furono portate a compimento, con l'eccezione della politura finale e di alcuni dettagli, le statue dei prigionieri daci che decoravano il Foro Traiano a Roma. La stessa officina produsse anche un ben noto gruppo di sarcofagi, composto da una decina di tipi diversi, tra i quali i sarcofagi a ghirlande «panfilici», i sarcofagi con motivi decorativi detti «lici» (per questi una conferma giunge da una recente scoperta epigrafica a Konya), e soprattutto i sarcofagi a colonnette di tipo microasiatico. Essi venivano di regola spediti completamente rifiniti, a eccezione dei ritratti dei defunti. L'identificazione dell'officina è ora confortata da nuove scoperte di sculture nelle c. stesse e da due coperchi, destinati a sarcofagi con colonnette, che presentano due stadi successivi di sbozzatura delle figure sulla klìne.
Per Afrodisiade, per le officine attiche, per Docimio è anche testimoniato il trasferimento di maestranze per la lavorazione sul posto di elementi architettonici. Da Docimio alcuni artigiani si spostarono in altre località dell'Asia Minore, mentre alcuni scultori provenienti da Afrodisiade erano attivi a Roma, dove lavoravano anche marmi di Luni (Moltesen, in Herz, Waelkens, 1988).
Non bisogna stupirsi se, dopo il declino di tante officine nella tarda età imperiale, alcune officine del Proconneso si siano specializzate nella produzione di elementi architettonici finiti. Come attesta il relitto di Marzamemi in Sicilia, in epoca bizantina il Proconneso poteva effettuare spedizioni, in pezzi, di tutta l'architettura interna di una chiesa (Kapitän, 1980). Recenti scoperte (Asgari, 1988) dimostrano che anche per i progetti imperiali del V sec. d.C. a Costantinopoli i diversi elementi furono rifiniti nelle c. stesse prima del loro invio verso la capitale.
Aspetti giuridici, economici e amministrativi. - Pur mancando una documentazione diretta sullo stato giuridico e amministrativo di tante c., è molto probabile che in epoca pre-imperiale queste fossero proprietà di privati cittadini o di comunità civiche. In ambiente greco un grande numero di c. operò solo per certi periodi e per progetti specifici. Possiamo pensare che, in generale, le c. appartenessero al proprietario del terreno. In grandi città con attività edilizie rilevanti non è, tuttavia, da escludere che le c. (p.es. quelle del Pireo e del Pentelico) fossero di proprietà statale e che il diritto di operarvi fosse dato in appalto come quello per lo sfruttamento minerario. Il fatto che il pastore che avrebbe scoperto i giacimenti di marmo a Belevi fosse stato eroicizzato dalla città di Efeso, potrebbe suggerire che questi fossero ormai proprietà della comunità urbana (Vitr., X, 2, 15).
Dai rendiconti finanziari relativi alle costruzioni si evince che nel mondo greco l'estrazione dei blocchi era effettuata in base a un contratto tra lo Stato e un imprenditore, responsabile di questa operazione nelle c. (di sua proprietà oppure concesse in appalto) e normalmente anche affidatario, almeno in parte, del trasporto. In alcuni casi lo stesso appaltatore o un altro membro della sua famiglia era responsabile anche della lavorazione dei blocchi nel cantiere. In certe c. alcune iscrizioni sembrano indicare, con il genitivo, il nome dell'appaltatore o del proprietario (p.es. a Thasos, forse a Mileto). Un altro tipo di iscrizioni si trova nelle c. tolemaiche dell'Egitto dove sigle sulle pareti di c. indicano le diverse squadre di operai. In alcune monarchie ellenistiche (p.es. l'Egitto tolemaico, il regno di Numidia) le c. facevano parte del patrimonio reale e passarono quindi direttamente al conquistatore romano.
In epoca repubblicana, tuttavia, le c. dovevano essere ancora private o appartenere alle vicine comunità cittadine. Non è da escludere, p.es., che Lucullo avesse acquistato le c. del marmor luculleum (africano) a Teos, ma gli argomenti per considerare anche Simitthu e Docimio proprietà di Agrippa sono stati confutati (Fant, 1989). È dunque probabile che Simitthu nel 46 a.C. sia passata direttamente dal patrimonio reale della Numidia a quello della repubblica romana. Fino al regno di Tiberio le c. di Luni appartennero alla Colonia Lunensis. Anche durante il periodo di massima espansione del commercio del marmo, nel II e nel III sec. d.C., un gran numero di c. rimase sempre di proprietà privata (forse una c. presso St. Béat nei Pirenei: CIL, XIII, 38) o municipale (c. di Afrodisiade, di Aizanoi e di Thiounta in Asia Minore; forse anche quelle di Cap de Garde in Tunisia). Nondimeno, in epoca imperiale, alcune delle c. più importanti dell'impero furono interessate da un processo di statalizzazione iniziato, forse a Docimio, da Augusto, al quale appartenevano anche tutte le c. dell'Egitto, e portato avanti dai suoi successori, come Tiberio, che tolse a parecchie città, tra le quali certamente Luni, lo ius metallorum (Suet., Tib., 49). Dato che con il suo nome fu ribattezzata una delle c. più importanti dell'Egitto (Mons Claudianus) è probabile che altri interventi siano dovuti a Claudio. Prima della fine del I sec., attraverso lasciti, confische o acquisti diretti, numerose c. erano passate nel patrimonium dell'imperatore, come quelle di Luni, Simmithu, Docimio, Teos, Paro, Chio, Caristo, Pentelico, Proconneso, Fruška Gora (porfido), le c. della Troade, tutte quelle dell'Egitto, probabilmente alcune della Caria e forse anche quelle della Tessaglia; è incerta la proprietà imperiale delle c. di Sciro e dell'Imetto.
Per l'amministrazione e lo sfruttamento delle c. fu creato a Roma un ufficio dei marmi (statio marmorum) diretto da un procurator marmorum, dipendente dall'amministrazione del patrimonio imperiale. Questo ufficio smistava i marmi inviati dalle c. imperiali destinandoli ai bisogni dell'Urbe (ratio urbica), ai progetti imperiali (ratio domus Augusti) e in parte, forse, alla vendita a privati. La quantità dei marmi estratti e la politica dell'amministrazione determinava il volume di quest'ultima parte; quindi, mentre certi marmi da c. di proprietà imperiale si trovano in tutto l'impero (p.es. i graniti della Troade, il marmo di Larissa), altri sono assai rari fuori dell'Italia (p.es. quelli di Simitthu e di Teos). Almeno dall'età di Domiziano in poi, il procurator marmorum di Roma amministrava le c. imperiali nelle diverse Provincie attraverso vari procuratores lapicidinarum o a marmoribus ('επί τών λατομιών, επίτροπος λατομιών, 'επίτροπος των μετάλλων), che probabilmente erano responsabili per un gruppo regionale di c.; p.es. il procurator della Frigia, residente a Sinnada, amministrava le c. della valle del Tembris e di Docimio; da un altro procurator, forse con residenza a Mileto, dipendeva un gruppo di c. in Caria (Herrmann, 1988); in età adrianea lo stesso procurator amministrava le c. di Mons Claudianus e di Mons Porphyrites (Klein, 1988). Questi procuratores - equites romani o liberti imperiali - avevano alle loro dipendenze altri funzionari come il dispensator (addetto alla direzione finanziaria), il tabularius e l'adiutor tabularum (contabili: Christol, Drew-Bear, 1986), l'architèkton (ingegnere con la supervisione, in tutto o in parte, del lavoro nelle c.), il probator (controllore della qualità del materiale), il conductor e altri, quasi tutti schiavi o liberti imperiali.
Le iscrizioni contenenti indicazioni sull'organizzazione delle c. e sul controllo del commercio, incise sui blocchi abbandonati nelle c. stesse o nei depositi cittadini, sono la principale fonte di informazione circa l'organizzazione e l'amministrazione del sistema di produzione e di distribuzione. Anche queste fonti non sono, però, completamente esaurienti: mentre in alcune c. (Docimio, Theos, Caristo, Simitthu, Paro, Chio) era invalso l'uso di iscrizioni incise, altrove queste sono rare (Pentelico, Luni), di un tipo molto diverso (a Mons Claudianus soprattutto sigle di controllo più brevi) o mancano del tutto (Proconneso, con un solo monogramma criptico; Troade), forse perché i testi furono solo rubricati (alcuni esempi a Mons Claudianus). Va osservato che, fatta eccezione del marmo pario e di alcuni blocchi di statuario bianco di Docimio, queste iscrizioni si ritrovano solo sui marmi policromi più preziosi. Su numerosi blocchi di marmo nei depositi di Ostia o di Roma si trovano anche bolli in piombo di forma rotondeggiante, incassati in un apposito incavo, iscritti e sovente anche figurati. Sembra che si tratti di un segno distintivo che doveva indicare l'appartenenza della merce al Patrimonium Caesaris.
Le iscrizioni sui blocchi abbandonati o spesso anche quelle visibili sulle pareti delle c. non sono, comunque, le uniche fonti antiche. Negli scavi effettuati dopo il 1987 a Mons Claudianus sono stati rinvenuti oltre duemila òstraka, con informazioni sulle c. e sul lavoro che vi si svolgeva. Il sistema delle iscrizioni di c. è, oggi, ampiamente documentato dallo studio sulle iscrizioni di Docimio (Fant, 1989), che testimoniano un controllo sempre più diretto dell'estrazione. Mancano ancora iscrizioni di c. della prima metà del I sec. d.C., vale a dire del periodo iniziale della statalizzazione. Della; seconda metà del I sec. d.C. si hanno invece iscrizioni molto semplici, con l'indicazione di un numero in cifre latine, di un nome (sovente uno schiavo imperiale) al genitivo e qualche volta anche della data consolare. Da questa forse si sviluppò, nell'ultimo decennio del I sec. d.C., un'altra formula, molto frequente, anche se appare solo su marmi inviati da Docimio, Simitthu, Chio, Teos, Caristo e Paro: è costituita dalla data consolare, dalla locuzione ex r(atione) accompagnata da un nome al genitivo e dalla lettera Ν seguita da una cifra latina. È chiaro che questa categoria di iscrizioni era legata al trasporto e al commercio; il numero preceduto da Ν fu inciso solo dopo l'ultimo controllo (per Docimio negli uffici di Sinnada) e si riferirebbe all'ordine di spedizione o a un numero di contabilità. Invece il nome, da solo o preceduto da ex ratione, allude a uno schiavo o a un liberto imperiale che aveva preso in appalto singole gallerie o c.: il redemptor marmorarius (CIL, VI, 33873) ο μισθωτής των μετάλλων (Klein, 1988, pp. 32-35). Come è testimoniato da quest'ultimo esempio, dall'inizio del regno di Adriano gli imprenditori potevano anche prendere in appalto c. situate in luoghi diversi (si veda il caso di Mons Porphyrites e Mons Claudianus).
È dunque probabile che, durante il I sec. d.C., se non tutte le c. imperiali, una gran parte di esse, furono date in appalto; ai redemptores era consentito disporre di parte del materiale estratto, che potevano liberamente immettere sul mercato. Di questo periodo si sono rinvenute nelle c. iscrizioni di un altro tipo, legate solo alla loro organizzazione interna, ma sfortunatamente erase, di norma, prima dell'invio del materiale. A Docimio queste iscrizioni presentano, raramente ancora, la data consolare (primo esempio nel 72 d.C.), un singolo numero, il termine br(acchium) seguito da una cifra e da una serie di sigle, alcune delle quali alludono a un controllo di qualità, mentre altre sembrano riferirsi agli operai responsabili della sgrossatura del blocco. Il termine bracchium indica il settore della c., mentre il singolo numero contrassegna la numerazione del blocco nella produzione dell'anno. Numerosi blocchi presentano due o anche tre date e ciò sta a indicare che alcuni pezzi rimasero a lungo in giacenza nelle c. e furono successivamente ridatati perché rientrassero nella serie delle nuove estrazioni o in una nuova operazione di inventario del deposito. A Docimio, tra il 92 d.C. e la metà del regno di Traiano, quest'inventario era effettuato all'incirca ogni due anni; l'attento controllo dei depositi sembra collegabile alla grande attività edilizia promossa da Domiziano e da Traiano. In età adrianea questo tipo di iscrizioni divenne più regolare: conteneva sempre la data consolare, seguita dal numero del bracchium, mentre un'altra cifra, più grande, preceduta da L o Loc(o), alludeva al punto della c. dove era stato estratto ciascun blocco. Poiché i numeri attribuiti a punti diversi cambiavano ogni anno, la cifra preceduto da locus venne a rappresentare anche una vera e propria numerazione, che permetteva il calcolo dei blocchi estratti dall'inizio dell'anno.
Negli ultimi anni del regno di Adriano e sotto Antonino Pio fecero la loro comparsa nelle c. di Docimio i primi nomi individuali, quelli, cioè, di due centuriones, che avrebbero forse riorganizzato il sistema di estrazione (Fant, 1989). In ogni caso negli anni '40 del II sec. d.C. appare per la prima volta a Docimio il nome dell'officina (a Simitthu già testimoniato nel sistema dell'appalto), cioè delle maestranze che eseguivano la sgrossatura dei blocchi dopo il distacco. Successivamente, dalla seconda metà del secolo e fino al 236 d.C., si aggiunse il nome del responsabile della caesura (attestato anche a Simitthu), vale a dire dell'estrazione stessa. I responsabili della caesura, almeno a Docimio, a Simitthu e nelle c. del Mons Claudianus, non erano schiavi o liberti, ma uomini liberi, sovente anche centuriones. Si trattava quindi di addetti che controllavano parecchi gruppi di operai. A Docimio le officinae non erano legate a un singolo gruppo responsabile della caesura e lavoravano, secondo le necessità, in diversi punti della cava. Altre officinae imperiali sono testimoniate nelle c. di Simitthu.
L'apparizione del nuovo tipo di iscrizioni di c. negli anni '30, è indizio di un controllo molto più diretto delle operazioni di estrazione da parte dell'amministrazione imperiale nel II sec. d.C. Infatti mentre la formula ex ratione continua ancora a Docimio, anche se raramente, fino agli anni '60 (a Simitthu solo fino al 110 d.C.), dal regno di Adriano in poi sui blocchi inviati da Docimio, da Caristo e da Simitthu, appare una nuova formula: sub cura procuratoris. Se ne deduce che il sistema dell'appalto fu gradualmente sostituito, sotto Adriano e i suoi successori, da un controllo diretto dell'estrazione organizzata dallo stesso procuratore, che già dalla fase iniziale (la caesura) soprintendeva ormai a tutte le operazioni invece di limitarsi alla verifica dei blocchi sgrossati e sbozzati a cura dell'appaltatore. I motivi di questa trasformazione furono certamente di natura economica; era possibile infatti realizzare un maggior guadagno dalla vendita del materiale che, estratto ormai senza un intermediario, una volta giunto a Roma poteva essere acquistato in quantità sempre crescenti da negotiatores marmorarii (CIL, VI, 33886). Un'altra parte del materiale, soprattutto marmi bianchi, fu senza dubbio disponibile anche per un uso locale e regionale. Non possediamo, purtroppo, una documentazione dei rapporti tra le officine locali e le c. imperiali, ma è sicuro che alcune delle c. più importanti (Simitthu, Docimio) erano collegate a officine statali situate nelle vicinanze.
Durante il periodo di maggiore attività nelle c., cioè nel II sec. d.C., la lavorazione del marmo o di altre pietre portò a una forte specializzazione degli operai, che si distinguevano - per le varie fasi in cui si suddivideva il lavoro di c. dalla estrazione alla lavorazione - in caesores (per la caesura; λατόμοι), quadratarii (gli operai delle officinae; λιθοξόοι, λιθοτόμοι ο τεχνίται τετρακτάριοι), segavarii (per la segatura in lastre) e altri. Su questo personale, impiegato nelle operazioni di estrazione e di lavorazione, non sappiamo molto. Tuttavia, per quanto riguarda l'importanza delle conoscenze empiriche del materiale è probabile che per il lavoro specializzato venissero impiegati soprattutto operai liberi, indigeni o provenienti da altre località, che si erano tramandati il mestiere di padre in figlio (come oggi in Turchia, dove quasi tutti gli operai del settore provengono dall'isola di Marmara/Proconneso) e che erano pagati per il loro lavoro. In periodi di necessità si poteva, forse, far appello alla leithourgìa (Cuvigny, Wagner, 1986). Nondimeno, l'uso nelle c. di personale inesperto per i compiti di maggiore responsabilità sarebbe stato troppo rischioso per l'economia imperiale. Anche nelle c. private, molto probabilmente, lavoravano soprattutto cavatori liberi. È certo, però, che nelle c. imperiali furono impiegati anche schiavi o condannati (damnati ad metallo), sia per delitti comuni (Arist., Or., XXXVI, 67), sia, all'epoca delle persecuzioni, per motivi religiosi (Eus., Mart. Palaest., 8, 1; 9, 1; Millar, 1984). Questa manodopera era utilizzata soprattutto per operazioni secondarie, come il trasporto del materiale (con slitte o «lizze») e lo scarico dei numerosi residui litici che, con l'aiuto di ceste, furono accumulati nei dintorni delle c. fino a formare colline artificiali alte decine di metri. Tale lavoro era già una necessità in epoche più antiche (Inschr. Didyma, 11, 40, 11, 16-18) e anche nelle civiltà orientali furono impiegati per effettuarlo schiavi e condannati (come si vede su un rilievo del palazzo di Sennacherib a Ninive).
È molto probabile, inoltre, che il trasporto dei blocchi estratti e sgrossati fino al punto di imbarco fosse affidato a schiavi. In molti casi servivano come via di discesa i letti dei torrenti (Laodicea di Frigia, Paro) o percorsi speciali praticati sulle pendici di montagne (Pentelico, Eubea) o tagliati nella roccia stessa (Laodicea di Frigia, Eubea, Gebel Silsila). Successivamente i carichi proseguivano lungo le normali vie di terra o fluviali (il Nilo in Egitto). Il trasporto per via fluviale doveva essere assicurato da barconi, zattere e chiatte, spinte da rematori o trainate da uomini o animali con il sistema dell'alaggio. Per il trasporto terrestre su strada erano utilizzati carri e, per carichi più pesanti, slitte trainate da animali. Arrivato al porto marittimo il carico proseguiva via mare su apposite navi a vela dette naves lapidariae (Plin., Nat. hist., XXXVI, 2; IG, I2, 336, 8: λιθηγός ναϋς). Le c. che si aprivano nelle immediate vicinanze di un fiume (Assuan, Gebel Silsila) o del mare (Thasos, Proconneso, Paro, Teos, Caristo) erano notevolmente avvantaggiate per il trasporto e offrivano perciò prezzi più bassi rispetto alle c. situate in territori interni (Docimio, Mons Claudianus, Mons Porphyrites, Simitthu), i cui marmi erano tra i più costosi del mondo antico.
L'impiego di schiavi e condannati spiega anche la presenza nelle c. imperiali di alcune centurie di soldati, adibiti ad custodias (CIL, III, 12069), ma attivi anche nel lavoro vero e proprio. Tali c. (p.es. Simitthu, Mons Claudianus, Mons Porphyrites) erano dunque dotate di un Castrum che fungeva anche da centro amministrativo e residenziale, con locali adibiti ai servizi: stalle per le bestie da soma, horrea, officine per i lavori di sbozzatura e di prefabbricazione (p.es. la fabrica da 3.000 m3 a Simitthu), conserve d'acqua, alloggi per gli operai e altro. Anche nei pressi di c. municipali (Aizanoi, Sebaste di Frigia, Pessinunte) si sono rinvenuti i resti di officine e di case per i cavatori.
Tutto il sistema di lavoro sopra descritto funzionò bene fino alla metà del III sec. o poco dopo. Successivamente la produzione iniziò a diminuire e talune c. furono abbandonate. La relativa carenza di marmi pregiati determinò un crescente aumento dei prezzi che sfuggirono anche al controllo dell'editto di Diocleziano del 301 d.C. Nel IV sec. gli imperatori furono costretti a promulgare di continuo leggi dirette ad accrescere la produzione di marmi, ove necessario anche per l'iniziativa di privati che nei secoli precedenti era stata scoraggiata da aggravi fiscali. Anche le dimensioni più ridotte delle c. dal IV fino al VI sec. d.C. (p.es. a Docimio) sembrano suggerire un ritorno al sistema dell'appalto o della conduzione privata. Già nel 320 d.C. Costantino accordava ai privati, tramite il suo procuratore fiscale in Africa, una completa libertà di sfruttare qualsiasi c. di marmo non appartenente allo stato e di vendere senza limitazioni i prodotti estratti (Cod. Theod., X, 19, 1). Nel 363 d.C. Giuliano promulgava anche per l'Oriente la licenza di aprire c. di marmo (Cod. Theod., X, 19, 2). Che queste misure avessero successo è testimoniato da un'altra legge del 363, che proibiva ai senatori o ad altri cittadini di rango elevato di approfittare illecitamente del cursus publicus per il trasporto dei loro marmi (Cod. Theod., VIII, 15). L'esistenza di c. in proprietà di senatori è anche documentata, per il terzo venticinquennio del secolo, da una legge di Valente, Graziano e Valentiniano (Cod. Theod., X, 19, 8). La concorrenza delle c. private con quelle imperiali, tuttavia, divenne ben presto motivo di preoccupazione per gli imperatori i quali, per evitare che i proventi di questa attività sfuggissero completamente allo Stato, già nel 382 e poi nel 384 d.C. emanarono nuove leggi, con la prescrizione dell'obbligo per tutti gli appaltatori di pagare una decima al fisco e un'altra al proprietario del terreno da loro sfruttato (Cod. Theod., X, 19, 10-11). Queste misure furono però considerate troppo severe dal momento che avevano provocato una nuova carenza di marmi con conseguente aumento dei prezzi; pertanto nel 414 d.C. tutti gli appaltatori, fatta eccezione di quelli delle c. imperiali del Proconneso, di Docimio e della Troade, dove il profitto, a quanto pare, era ancora considerevole, ottennero una riduzione fiscale. Il fatto che sotto Giustiniano, dei prigionieri fossero condannati al lavoro nelle c. del Proconneso (Collatio legum mosaicarum et romanarum, XV, 2) dimostra che esse erano ancora sotto il controllo dello Stato. Dopo il VI sec. viene a mancare ogni tipo di riferimento in merito a uno sfruttamento diretto delle c. da parte degli imperatori. Quando, nel X sec., un vescovo, forse il patriarca di Costantinopoli, ebbe urgente bisogno di segatori di marmo per lavori nella capitale si rivolse al vescovo di Sinnada e non al centro amministrativo delle c. imperiali di Docimio (Robert, 1962). Ciò potrebbe essere indicativo del fatto che la città era sempre legata a una certa attività delle c. della Frigia, anche se il lavoro era ormai eseguito solo da privati.
Bibl.: In generale sui marmi e sulle c. antiche: G. R. Lepsius, Griechische Marmorstudien, Berlino 1890; R. Gnoli, Marmora romana, Roma 1971; A. Dworakowska, Quarries in Ancient Greece (Bibliotheca antiqua, 14), Varsavia 1975; J. Ch. Balty (ed.), Le marbre (BMusArt, LIII, 2), Bruxelles 1982; A. Dworakowska, Quarries in Roman Provinces (Bibliotheca antiqua, 16), Varsavia 1983; P. Pensabene (ed.), Marmi antichi (StMisc, XXVI), Roma 1985; H. Mielsch, Buntmarmore aus Rom im Antikenmuseum Berlin, Berlino 1985; J. C. Fant (ed.), Ancient Marble Quarrying and Trade (BAR, Int. S., 453), Oxford 1988; N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble: Geochemistry, Technology, Trade, Dordrecht-Londra-Boston 1988.
Studi su singole c. e argomenti connessi: P. M. Fraser, Inscriptions from Cyrene, in Berytus, XII, 1958-59, pp. 101-128 (marmo rosso del Tenaro, p. 113); J. Röder, Zur Steinbruchgeschichte des Rosengranits von Assuan, in AA, 1965, cc. 467-552; W. Alzinger, Ritzzeichnungen in den Marmorbrüchen von Ephesos, in ÖJh, XLVIII, 1966-67, pp. 61-72; J. Röder, Die antiken Steinbrüche des Mareotis, in AA, 1967, pp. 118-131; W. Becker, Soft-Stone Sources in Crete, in JFieldA, III, 1976, pp. 361-374; S. Kasper, Der Tumulus von Belevi (Grabungsbericht), in ÖJh, LI, 1976-77, app. pp. 127-180; D. Monna, P. Pensabene, Marmi dell'Asia Minore, Roma 1977; Ν. Asgari, Roman and Early Byzantine Marble Quarries of Proconnesos, in Proceedings of the Xth International Congress of Classical Archaeology, Ankara-Izmir 1973, Ankara 1978, pp. 467-480; G. Nenci, Le cave di Selinunte, in AnnPisa, s. III, IX, 1979, pp. 1415-1425; Th. Kraus, F. Rakob, Chemtou, in DU. Die Kunstzeitschrift, III, 1979, pp. 36-70; E. Dolci, Carrara. Cave antiche, Carrara 1980; A. Pralong, Trouvaille dans une carrière phrygienne inconnue: une inscription rupestre et un sarcophage «in situ», in RA, 1980, pp. 251- 262; A. Lambraki, Le cipolin de la Karystie. Contribution a l'étude des marbres de la Grèce exploités aux époques romaine et paléochrétienne, ibid., pp. 31-62; N. Asgari, Uşak Selçikler ve çevresinden Roma çaği lahitleri ve mermer ocaklari («Cave di marmo e sarcofagi di epoca romana provenienti da Uşak, Selçikler e dintorni»), in TürkAD, XXV, 2, 1981, pp. 11-47 (Temenothyrai, Sebaste, Akmonia); A. Peschlow-Bindokat, Die Steinbrüche von Milet und Herakleia am Latmos, in JdI, XCVI, 1981, pp. 157-214; R. e D. Klemm, Die Steine der Pharaonen, Monaco 1981; T. Koželj, A. Muller, J.-P. Sodini, Thasos. Carrières de marbre de la région de Saliari, in BCH, CV, 1981, pp. 961-963; H. von Hesberg, Bemerkungen zu Architekturepigrammen des 3. Jahrhunderts ν. Chr., in Jdl, XCVI, 1981, p. 96, n. 17 (combinazioni di marmi colorati); M. Waelkens, Carrières de marbre en Phrygie, in BMusArt, LIII, 2, 1982, pp. 33-55 (Frigia); J. Soles, A Bronze Age Quarry in Eastern Crete, in JFieldA, Χ, 1983, pp. 33-46; R. Bedon, Les carrières et le carriers de la Gaule romaine, Parigi 1984; M. Waelkens, Marmi e sarcofagi frigi, in AnnPisa, s. III, XVI, 1986, pp. 661-678; G. Röder, Numidian Marble and Some of Its Specialities, in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 91-96 (Simitthu); D. Peacock, The Roman Quarries of Möns Claudianus, Egypt. An Interim Report, ibid., pp. 97-102; J. B. Carter, Isotopic Analysis of Seventh-Century B.C. Perirrhanteria, ibid., pp. 419-431; S. Walker, Recent Work in Stable Isotope Analysis of White Marble at the British Museum. Isotopic Analysis of the Mausoleum at Halicamassus, in J. C. Fant (ed.), Ancient Marble..., cit., pp. 118-121; W. Klein, Untersuchungen zu den kaiserlichen Steinbrüchen an Möns Porphyrites und Mons Claudianus in der östlichen Wüste Ägyptens, Bonn 1988; J. C. Fant, Cavum antrum Phrygiae. The Organization and Operation of Roman Imperial Marble Quarries in Phrygia (BAR, Int. S., 482), Oxford 1989; P. Vermeersch, E. Paulissen, The Oldest Quarries Known: Stone Age Miners in Egypt, in Episodes, XII, I, 1989, pp. 35-36 (Paleolitico in Egitto).
Tecnica di estrazione nelle c.: Fiehn, in RE, s. II, III, 1929, c. 2241 ss., s.v. Steinbruch; J. Röder, Die antiken Tuffsteinbrüche der Pellenz, in BJb, CLVII, 1957, p. 255, tav. XXI; G. Daux, Chronique des fouilles, 1961. Iles de l'Egée, in BCH, LXXXVI, 1962, p. 876, fig. 4; J. Röder, art. cit., in AA, 1965, cc. 467-552 e 1967, pp. 118-131; C. Nylánder, Bemerkungen zur Steinbruchgeschichte von Aswan, ibid., 1968, pp. 6-10; V. Karageorghis, Chronique des fouilles et découvertes archéologiques a Chypre en 1968. A) Le Musée. 5. Le musée régional de Larnaca, in BCH, XCIII, 1969, p. 494, fig. 126; C. Nylander, Ionians in Pasargadae, Uppsala 1970, pp. 28-30; J. Röder, Marmor Phrygium. Die antiken Marmorbruchen von Iscehisar in Westanatolien, in Jdl, LXXXVI, 1971, pp. 253-312; J. B. Ward-Perkins, Quarries and Stoneworking in the Early Middle Age: the Heritage of the Ancient World, in Artigianato e tecnica nella società dell'Alto Medioevo occidentale, Spoleto 1971, pp. 119-124; id., Quarrying in Antiquity. Technology, Tradition and Social Change, in ProcBritAc, LVII, 1971 (1973), pp. 137-158; W. Orthmann, Der Alte Orient (Propyläen Kunstgeschichte, XIV), Berlino 1975, pp. 322-323, fig. 234 a-b; J.-P. Sodini, A. Lambraki, T. Koželj, Les carrières de marbre d'Aliki â l'époque paléochrétienne, in J. Servais (ed.), Aliki (Études thasiennes, IX), I, Parigi 1980, pp. 81-145; R. e D. Klemm, op.cit., pp. 37-38; P. Neve, Hattuscha-Information, s.l. 1985, pp. 12-13; M· Waelkens, P. De Paepe, L. Moens, Patterns of Extraction and Production in the White Marble Quarries of the Mediterrannean: Their History, Actual Problems and Prospects, in J. C. Fant (ed.), Ancient Marble..., cit., pp. 81-116; T. Koželj, Extractions of Blocks in Antiquity: Special Methods of Analysis, in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 31-40; J. C. Bessac, Problems of Identification and Interpretation of Tool Marks on Ancient Marbles and Decorative Stones, ibid., pp. 41-54; id., Influences de la conquête romaine sur le travail de la pierre en Gaule méditerranéenne, in JRomA, I, 1988, pp. 57-72.
Commercio di manufatti marmorei durante l'età imperiale: P. Pensabene, ree. a R. Gnoli, Marmora romana, Roma 1971, in DArch, VI, 1972, pp. 357- 362; D. Monna, P. Pensabene, Nota sullo stadio di lavorazione e la tipologia dei sarcofagi a ghirlande microasiatici esportati in occidente, ibid., s. III, I, 1981, pp. 85-108; P. Pensabene, Osservazioni sulla diffusione dei marmi e il loro prezzo nella Roma Imperiale, in BMusArt, LIII, 2, 1982, pp. 57-70; M. Waelkens, Quarries and Marble Trade in Antiquity, in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 11-28.
Commercio di elementi architettonici: J. Β. Ward-Perkins, Tripolitania and the Marble Trade, in JRS, XLI, 1951, pp. 89-104; G. Kapitän, Schiffsfrachten antiker Baugesteine und Architekturteile vor der Küsten Ostsiziliens, in Klio, XXXIX, 1961, p. 276 ss.; L. Robert, Philologie et réalités (Sur le lettres d'un métropolite de Phrygie au Xe siècle), in JSav, 1962, pp. 5-43; J. B. Ward-Perkins, Nicomedia and the Marble Trade, in BSR, XLVIII, 1980, pp. 23-69; id., The Marble Trade and Its Organisation. Evidence from Nicomedia, in MemAmAc, XXXVI, 1980, p. 332 ss; G. Kapitän, Elementi architettonici per una basilica dal relitto navale del VI secolo di Marzameni (Siracusa), in CorsiRavenna, XXVII, 1980, pp. 71-136; D. Knibbe, Der Asiarch M. Fulvius Nikephoros, die ephesischen Handwerkszünfte und die Stoa der Servilius, in ÖJh, LVI, inserto speciale, Ï985, ΡΡ- 71-77; Ν. Asgari, The Stage of Workmanship of the Corinthian Capital in Proconnesos and Its Export Form, in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 115-126; M. Beykan, The Marble Architectural Elements in Export-Form from the Sile Shipwreck, ibid., pp. 127-138.
Commercio di sarcofagi e altri manufatti semilavorati: J. B. Ward-Perkins, The Hippolytus Sarcophagus from Trinquetalle, in JRS, XLVI, 1956, pp. 10-16; id., The Imported Sarcophagi of Roman Tyre, in BMusBeyr, XXII, 1969, pp. 109-145; V. Karageorghis, art. cit., in BCH, XCIII, 1969, pp. 494-499; N. Asgari, Die Halbfabrikate kleinasiatischer Girlandensarkophage und ihre Herkunft, in AA, 1977, pp. 329-380; id., Roman and Early Byzantine Marble Quarries..., cit., pp. 467-480, tav. CXLII, 17; M. Waelkens, art.cit., in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 139-144.
Officine specializzate nella lavorazione completa: M. Waelkens, Dokimeion. Die Werksatt der repräsentativen kleinasiatischen Sarkophage (Archäologische Forschungen, II), Berlino 1982; id., From a Phrygian Quarry: The Provenance of the Statues of the Dacian Prisoners in Trajan's Forum at Rome, in AJA, LXXXIX, 1985, pp. 641-653; J. C. Fant, Four Unfinished Sarcophagus Lids at Docimium and the Roman Imperial Quarry System in Phrygia, ibid., pp. 665-672; M. Waelkens, art.cit., in AnnPisa, s.III, XVI, 1986, pp. 661-678.
Spostamenti di maestranze: M. Moltesen, The Use of Marble Analysis in Collections of Ancient Sculpture: Some Examples from the Ny Carlsberg Glyptotek, in N. Herz, M. Waelkens (ed.), Classical Marble..., cit., pp. 433-439.
Aspetti giuridico-amministrativi in epoca greca: Α. Burford, The Greek Temple Builders at Epidauros, Toronto 1969. - Per le c. imperiali: L. Brezza, Iscrizioni dei marmi grezzi, in Annlnst, XLII, 1870, pp. 106-204; Ch. Dubois, Etude sur l'administration et l'exportation des carrières de marbre, porphyre, granit, etc., dans le monde romain, Parigi 1908; F. Millar, Condemnation to Hard Labour in the Roman Empire, from the Julio-Claudians to Constantine, in BSR, LII, 1984, pp. 137-143; H. Cuvigny, G. Wagner, Ostraca grecs du Möns Claudianus, in ZPE, LXII, 1986, p. 63, n. 1; M. Christol, Th. Drew-Bear, Documents latins de Phrygie, in Tyche, I, 1986, pp. 41-87; iid., Inscriptions de Dokimeion, m Anatolia Antiqua, I, 1987, pp. 83-139; P. Herrmann, Chresimus, procurator lapicidinarum. Zur Verwaltung der kaiserlichen Steinbrüche in der Provinz Asia, in Tyche, III, 1988, pp. 119-129; J. C. Fant, Cavum antrum Phrygiae..., cit., passim.