CAVALLINI DEI CERRONI, Giovanni
Nacque a Roma, quasi certamente verso la fine del sec. XIII, da una famiglia borghese piuttosto nota, cui appartennero Giovanni Cerroni, rettore di Roma dal dicembre 1351 al settembre 1352, e il pittore Pietro Cavallini.
Quest'ultimo potrebbe anche essere stato il padre del C., se interpretiamo in questo senso la nota autografa del cod. Vat. lat. 1927 (f. 81r) in cui il C. ricorda un "...Petrum de Cerronibus qui centum annorum numero vitam egit, qui nullo unquam frigore caput coperuit, qui fuit et pater meus, id est mei Iohannis Caballini domini pape scripptoris". In realtà le poche date sicure della vita del pittore non consentono di accertarne un'eccezionale longevità, che sembra comunque sospetta se si considera che in una altra nota apposta allo stesso f. 81r del Vat. lat. 1927 il C. menziona un "...Serigaytam de Cerronibus de Urbe qui centesimum et vicesimum complevit annos". La mancanza poi di ogni accenno all'attività del padre invita alla prudenza nella sua identificazione con Pietro Cavallini.
Nulla sappiamo degli studi compiuti dal Cavallini. Il titolo di magister che accompagna il suo nome più che a un grado accademico si riferisce probabilmente alla sua attività di scrittore papale. La sua carriera ecclesiastica si divide in due distinte fasi, la prima romana e la seconda avignonese. Fino al 1325 il C., canonico di S. Maria Rotonda, risiedette a Roma: lo dimostra una lettera del 5 giugno di quell'anno in cui Giovanni XXII stabiliva i criteri di elezione, la durata in carica e i poteri dei rettori della "Romana Fraternitas",tra i quali figura appunto il Cavallini. Èprobabile che la lettera pontificia fosse frutto delle pressioni di una ambasceria della potente Confraternita, alla quale forse lo stesso C. prese parte: quest'ultima ipotesi trova conforto nella sua presenza ad Avignone, in qualità di scrittore papale, già il 26 nov. 1325. Quel giorno infatti Giovanni XXII gli concesse di fruire dei benefici del suo canonicato romano e di ogni altra futura prebenda pur risiedendo presso la corte pontificia. Il C. dovrebbe aver trascorso quasi tutto il resto della sua vita ad Avignone: ne fa fede la qualifica di scrittore papale che accompagna il suo nome nella concessione fatta da Clemente VI il 9 sett. 1349 del suo canonicato di S. Maria Rotonda al chierico romano Giovanni "quondam Petri Berte".
La morte del C. avvenne comunque a Roma, come è detto nella concessione pontificia e nella supplica, recante la stessa data, del suo successore nel beneficio.
Ulteriori informazioni sul C. si ricavano dalle note da lui apposte a due codici, il già citato Vat. lat. 1927 (un Valerio Massimo) e il Vat. lat. 3762, un notissimo esemplare del Liber pontificalis in cui la mano del C. è stata riconosciuta da A. Campana (v. Billanovich, 1958). Il primo ms. è cosparso di osservazioni erudite, citazioni di autori classici e medievali, riferimenti ad avvenimenti storici, annotazioni di carattere personale. Particolarmente interessante è il quadro di vita romana del pieno Trecento che il C. presenta con vivace partecipazione personale e che fa supporre quindi il mantenimento da parte sua di stretti legami con la città natale. Una particolare attenzione rivela il C. per i Colonna, dei quali tesse spesso gli elogi, lamentandone però talvolta anche l'ingratitudine. Tra i fatti di maggior rilievo riportati nel Vat. lat. 1927 ricordiamo la distruzione di ponte Milvio a opera degli Orsini il 3 sett. 1335 (f. 95v; il fatto è riportato anche al f. 111v del Vat. lat. 3762) e la sconfitta riportata dai Colonna a porta S. Lorenzo contro Cola di Rienzo il 20 nov. 1347 (f 52r).
Lettore attento e curioso, il C. dovette essere anche un appassionato bibliofilo, come dimostrano il possesso del prezioso Liber pontificalis appartenuto a Landolfo Colonna, l'accreditamento della voce secondo la quale la seconda deca di Livio e il De republica si sarebbero trovati a Montecassino (Vat. lat. 1927,f. 88v), la trascrizione autografa della dedica a Giovanni Colonna del contemporaneo commento a Valerio Massimo di Dionigi da Borgo San Sepolcro (Vat. lat. 1927, f. 94v). Sensibile all'esigenza ormai ai suoi tempi affermatasi di una maggiore accuratezza nella conoscenza dei testi classici, volle emendare il suo Valerio Massimo collazionandolo con quello dell'arcivescovo di Palermo Giovanni Orsini (Vat. lat. 1927,f. 93v).
I principali interessi culturali del C. si concentravano nel campo storico-antiquario romano. La profonda fede nei valori spirituali rappresentati dalla sua città lo spingeva ad indagare sulle vicende e i luoghi della storia romana, che studiava sui classici e conosceva nella realtà della Roma del suo tempo. L'unica sua opera a noi nota, dedicata a Clemente VI, s'intitola significativamente Polistoria de virtutibus et dotibus Romanorum ipsorumque imperatoris et pape singularibus monarchiis ac aliis incidentiis eorundem. In dieci libri di prosa piuttosto pesante e piena di citazioni ("...parum de meo apposui...",riconosce l'autore alla fine dell'opera) il C. fa un elogio appassionato della grandezza di Roma imperiale e cristiana sulla base di una lunga descrizione di fatti, luoghi e usi famosi. Nell'ultimo libro è esposta una teoria politica francamente guelfa, che dichiara l'assoluta dipendenza di ogni potere laico, compreso quello imperiale, dall'autorità papale. Per gli studi sul basso Medioevo romano la parte più interessante della Polistoria è costituita dai libri VI-VIII, nei quali la topografia della Roma trecentesca viene descritta in costante riferimento alle memorie classiche. Pur ricca di etimologie fantasiose e spiegazioni inattendibili, la guida del C. rappresenta uno strumento utile alla conoscenza della storia di monumenti e luoghi importanti della città in un'epoca in cui la documentazione in proposito non è certo abbondante.
La Polistoria è ancora inedita, tranne che per alcuni excerpta topografici pubblicati da K. L. Urlichs, Codex urbis Romae topographicus, Wirceburgi 1871, pp. 139-146, e da R. Valentini e G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, IV,Roma 1953, in Fonti per la st. d'Italia, XCI, pp. 11-54. Codd. noti sono: Wolfenbüttel, Herzog-August Bibl., Guelf. 47 Gud. lat. 2º (il più autor. e vicino all'esempl. ded. a Clemente VI); Novara, Bibl. capit., cod. XLII (cfr. G. Andres, Lett. dell'ab. G. A. al sig. ab. Giacomo Morelli sopra alcuni codici delle Bibliot. capit. di Novara, e di Vercelli, Parma 1802, pp. 29-39, che reca l'errata segnatura XXIV, ripresa da altri studiosi); Bibl. Apost. Vat., Ottob. lat. 1261, Ross. 728 (apografo ottocentesco del manoscritto di Wolfenbüttel). È scomparso il codice di Leningrado F.IV.1 su cui v. K. Gillert, Lateinische Handschrifien in St. Petersburg, in Neues Archiv, VI(1881), p. 506.
Non risulta che A. Silvagni, contrariamente a quanto afferma G. Cardinali in Enc. Ital., XIV, p. 72, abbia mai attribuito al C. la paternità della redazione della silloge epigrafica a sua volta ritenuta dal De Rossi opera di Cola di Rienzo. In realtà il Silvagni riteneva che si trattasse della prima redazione della nota raccolta di Poggio. In proposito cfr. Inscriptiones christianae urbis Romae septimo saeculo antiquiores, n.s., I, Romae 1922, pp. XXX s.; Se la silloge epigrafica signoriliana possa attribuirsi a Cola di Rienzo, in Archivum latinitatis medii aevi, I (1924), pp. 175-183; Enc. Catt.,XI, coll.580-585.
Fonti e Bibl.: Giovanni XXII, Lettres communes, a cura di G. Mollat, VI, Paris 1910, p. 58 n. 23946; B. de Montfaucon, Diarium Italicum, Parisiis 1702, p. 137; I. A. Fabricius, Bibliotheca latina mediae et infimae aetatis, IV, Florentiae 1858, p. 348; M. Armellini, Le chiese di Roma dal sec. IV al XIX, Roma 1891, pp. 31 ss.; G. de Nicola, Iscriz. romane relative ad artisti o ad opere d'arte, in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XXXI(1908), pp. 227 s.; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV, II, Firenze 1914, pp. 47-50; G. Castellani, I, "Fragmenta Romanae Historiae", in Arch. della R. Soc. romana di storia patria, XLIII (1920), p. 113; P. Fedele, Per la biogr. di P. Cavallini, ibid., pp. 157-159; A. Graf, Roma nelle mem. e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1923, pp. 56-60; F. Schneider, Rom und Romgedanke im Mittelalter, München 1926, pp. 225 s.; G. Billanovich, Petrarch and the textual tradit. of Livy, in Joumal of the Warburg and Courtauld Instit., XIV (1951), p. 169; E. Duprè Theseider, Roma dal Comune di popolo alla signoria pontif. (1252-1377), Bologna 1952, pp. 48 s., 625, 696 s., 699, 702-705; F. Gregorovius, Gesch. der Stadt Rom im Mittelalter, a cura di W. Kampf, II, Darmstadt 1954, p. 878; A. Moscati, Note su G. C., in Studi romani, III (1955), pp. 397-400; G. Billanovich, Gli umanisti e le cronache medioevali, in Italia medioevale e umanistica, I (1958), p. 136; R. Weiss, Lineamenti per una storia degli studi antiquari in Italia dal dodicesimo secolo al sacco di Roma del 1527, in Rinascimento, IX (1958), p. 153; G. Billanovich, Dal Livio di Raterio (Laur. 63, 19) al Livio del Petrarca (B. M., Harl. 2493), in Italia medioevale e umanistica, II(1959), p. 153; A. Petrucci, La scritt. di F. Petrarca, Città del Vat. 1967, p. 37; H. Diener, Johannes C. Der Verfasser der Polistoria "de virtut. et dotibus Roman.", in Storiografia e storia. Studi in onore di E. Duprè Theseider, Roma 1974, pp. 151-173; Repertorium fontium hist. Medii Aevi, III, p. 97.