Cavalcanti
Famiglia fiorentina di origini incerte e in gran parte leggendarie (sarebbe venuta dalla Francia al seguito di Carlomagno oppure, secondo Pietro Monaldi, da Colonia; o ancora piuttosto da Fiesole, culla ‛ ab antiquo ' leggendaria della nobiltà fiorentina). Possedevano castelli nel contado - quali Montecalvi in Val di Pesa e le Stinche in Val di Greve - ma il centro della loro forza divenne, dal sec. XII, la città;
e alla città è legato anche il loro salire d'importanza, ché le loro origini paiono (e, al di là di ogni leggenda, il Villani lo attesta) mercantili più che feudali.
Membri di Società delle Torri, figurano nel XII secolo tra i consoli del comune e tra i consoli delle Arti di Por Santa Maria e di Calimala. Troviamo un Cavalcante di Boninsegna attivo nel 1172 all'accordo con San Miniato e più tardi, nel 1176, console insieme con Abate di Lambarda. Non c'è quindi dubbio che i C. appartenessero a quella ristretta cerchia di famiglie (Giandonati, Fifanti, Abati, Iudi, Tornaquinci) che allora tenevano in pugno Firenze e contro la quale, nel 1177, scoppiò violenta la ribellione di Schiatta degli Uberti.
Preso partito con i guelfi, i C. continuarono ad annoverarsi tra le famiglie detentrici del potere cittadino e consolidarono nel contempo il loro potere economico mediante una lucrosa attività di prestatori; nel 1204, per esempio, erano creditori del convento di Passignano per 274 libbre; il vescovo di Volterra, Pagano Pannocchieschi, ricorreva abitualmente ai loro prestiti; nel 1240 furono addirittura loro aggiudicati, finché il papa non li riscattò, i possessi della badia di Vallombrosa che si era indebitata per sostenere Gregorio IX.
Le risorse economiche dei C., del resto, non si esaurivano nei proventi dell'attività bancaria e mercantile: un ottimo cespite di ricchezza erano le loro case e torri di Calimala e di Mercato nuovo; essi possedevano difatti (insieme a Lamberti, Chermontesi e Bostichi) quasi tutti i fabbricati di quella zona, e perciò potevano tenere un vero e proprio monopolio sugli affitti dei fondachi: si arrivò a diffidarli, da parte dei consoli di Calimala, dallo speculare ulteriormente in questo senso; se non avessero mantenuto i prezzi a un livello equo, l'Arte di Calimala si sarebbe trasferita altrove (2 gennaio 1301).
Guelfi, combattenti nel sesto di Borgo durante la sollevazione del 1248, cacciati dalla città e gravemente danneggiati dopo Montaperti (fu distrutta in quell'occasione la loro proprietà fondiaria nel volterrano), vi rientrarono nel 1266 e parteciparono così alla sia pur ambigua ed effimera pacificazione dei guelfi
e dei ghibellini, uno dei cui atti fondamentali fu il matrimonio di Guido C., il futuro poeta e amico di D., con Bice figlia di Farinata degli Uberti (è lecito chiedersi del resto, sulla scorta dello stesso D., se agli Uberti i C. non fossero legati, nonostante le lotte passate, dalla comune propensione di molti membri delle due famiglie per l'eresia). Nel 1280 alcuni dei C., tra cui lo stesso Guido, figurano mallevadori per i guelfi della pace del cardinal Latino o, come Gianni Schicchi, partecipano alla famosa cerimonia di riconciliazione in piazza Santa Maria Novella. Al tempo degli Ordinamenti di Giustizia furono dichiarati Grandi, ma già dall'istituzione del priorato delle Arti la loro posizione, come famiglia magnatizia, si era fatta delicata; per sfuggire ai rigori della legge pare che alcuni C. mutassero nome, assumendo quelli di Malatesti e di Ciampoli.
Ma ciò che caratterizza la vita della famiglia sul finire del Duecento e che ne apre la successiva crisi è il loro mischiarsi alle lotte tra Cerchieschi e Donateschi; quasi tutti fautori decisi del primo partito, già nemici dei Buondelmonti e da ora, con maggior foga, dei Donati, i C. entrarono nel 1296 nella coalizione nata tra Cerchi e Adimari dopo la loro rappacificazione e, come Bianchi, subirono più tardi la persecuzione dei Neri. La loro riconciliazione con i Buondelmonti, voluta nel novembre-dicembre 1302 da Carlo di Valois, corrispondeva in realtà solo a una manovra temporeggiatrice del principe.
Il momento in cui la posizione dei C. diviene meno chiara è quello immediatamente successivo alla partenza di Carlo di Valois: si registra infatti, da parte loro, un riavvicinamento a Corso Donati che, accorgendosi di perder terreno rispetto ai suoi compagni di parte (gli Spini, i Pazzi, i della Tosa), cercava di crearsi un seguito fra tutti gli scontenti comprendendo promiscuamente i Grandi, i ribanditi, il popolo minuto.
Fautori della pace del cardinale Niccolò da Prato, anche in questo frangente i C. tennero un contegno ambiguo perché in un primo tempo mostrarono di essere a disposizione dei fuorusciti per aiutarli nelle trattative, in un secondo tempo preferirono restar fuori dalla questione e rifiutarono di ospitare gli sbanditi nelle loro case. Comunque il 10 giugno 1304 - il giorno stesso della partenza da Firenze del cardinale - si verificarono quelle violenze inaugurate dall'assalto dei Giugni ai Cerchi di via del Garbo e culminate nell'incendio alle case dei C. appiccato da Neri degli Abati e da alcuni della consorteria dei Donati.
Ciò costrinse i C. ad abbandonare ogni ambiguità: essi fuggirono da Firenze, parte per raggiungere i capisaldi dei Bianchi - Ostina nel Mugello e i loro castelli delle Stinche e di Montecalvi - parte per rifugiarsi a Siena presso i Salimbeni, loro parenti. Le Stinche furono conquistate dai Fiorentini nel settembre e i loro difensori inviati a popolare le nuove carceri che appunto di quel castello ereditarono il nome. Anche Montecalvi subì poco dopo la medesima sorte.
Nel settembre del 1307 alcuni C. poterono rientrare in città, e all'amnistia si accompagnò una rappacificazione con i della Tosa. Ma il fatto che, nel gennaio 1312, Paffiera de' C. vendicasse la morte di Masino partecipando con alcuni di casa Brunelleschi all'uccisione di Pazzino de' Pazzi, provocò un nuovo tumulto: le case dei C. furono arse ancora una volta, la loro società commerciale - rovinata dai rovesci politici e dai due successivi incendi - dichiarata fallita, essi costretti a scegliere daccapo l'esilio.
Quantunque nel dicembre 1316, grazie alla mediazione del re di Napoli e alla riconciliazione con i Pazzi, la famiglia potesse rientrare a Firenze, a quel punto molti suoi membri avevano preferito cercare fortuna altrove. Fino dal 1290 un suo ramo si era trapiantato a Udine; i discendenti di Giachinotto si stabilirono a Napoli dove, col favore degli Angioini e l'amicizia degli Acciaioli, prosperarono e dettero origine in quelle terre a un nobile casato, i C. duchi di Bonvicino. Meno fortunato, il ramo di Firenze tentò invano di riguadagnare il vecchio prestigio, prestandosi addirittura - in parte almeno - all'avventura del duca d'Atene. Solo il parteggiare per i Medici rese loro un certo peso in città (13 priori dal 1451 al 1531). Membri di rilievo della casata (a parte il famoso Guido e gli altri ricordati da D., Gianni Schicchi e Francesco Guercio) furono Aldobrandino, teologo, e più tardi Giovanni, amico di Marsilio Ficino e autore di Storie che servirono come fonte al Machiavelli.
Un ramo della famiglia, i C. di Albuquerque, attecchì perfino in Brasile. L'ultimo rampollo dei C. di Firenze, Alessandro di Andrea, si spense nel 1727 lasciando eredi i Cattani. L'arme familiare, tradizionalmente mantenuta da tutti i rami della casata pur con parecchie varianti, è uno scudo d'argento fittamente seminato di crocette rosse.
Bibl. - Costituiscono la base per le ricerche relative ai C. i consueti strumenti di studio genealogico in genere validi per le famiglie fiorentine, quali: Arch. di Stato di Firenze, Biblioteca Manoscritti, nn. 322 (indice generale degli autori che nominano i C.), c. 319 e 422, c. 111 (Istoria delle famiglie di Firenze, scritta da Piero di Giovanni Monaldi); Firenze, Biblioteca Naz., Carte Passerini, 11, 156, 216 e Poligrafo Gargani, 536, 538-542; Arch. di Stato di Firenze, Carte Sebregondi (busta segnata " Cavalcanti "). Tra i repertori genealogici a stampa, il farraginoso materiale raccolto da E. Gamurrini, Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane e umbre, III, Firenze 1673, 57 ss., è stato senza troppi riguardi saccheggiato da L. Tettoni-F. Saladini, Teatro araldico, I, Lodi 1841, sub v., e da G.B. Di Crollalanza, Dizion. storicoblasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, I, Pisa 1886, 266.