CAVALCANTI, Cavalcante del
Nacque a Firenze da Schiatta nella prima metà del sec. XIII. Allora i Cavalcanti, di origini borghesi e mercantili, erano ormai assurti allo status magnatizio e in un certo senso, imparentandosi con i Guidi e i Salimbeni, alla nobiltà. Poche sono le notizie che ci restano: nel 1257 fu podestà di Gubbio; guelfo come voleva la tradizione familiare, nel 1260, in seguito alla vittoria ghibellina di Montaperti, ebbe incendiate le sue case in San Pier Scheraggio e fu costretto ad andare in esilio a Lucca. A Firenze poté tornare solo dopo la battaglia di Benevento (1266): nel 1267 partecipò alla provvisoria pacificazione tra le opposte parti facendo fidanzare il figlio Guido con Bice o Beatrice degli Uberti, figlia di Farinata (G. Villani, Cronica, VII, 15, p. 118).
A Firenze rimase poi probabilmente fino alla morte, avvenuta in data non precisabile tra il 1267 e il 1280.
Nel 1280 infatti Guido è detto “filius quondam domini Cavalcantis” nella pace del cardinal Latino (Del Lungo, II, p. 1100). A meglio determinare la data di morte del C. può esser utile anche la testimonianza di Dante, che nell’Inferno (X, vv. 64 s.) afferma sottintesamente di non averlo conosciuto di persona: si dovrebbe quindi ritenere che il C. fosse morto quando Dante, nato nel 1265, era ancora nei primi anni di vita, e quindi non molto dopo il 1267.
Per il resto della biografia del C. non possiamo andare molto al di là delle supposizioni: non è improbabile che, se il figlio fu poeta, anche il padre fosse uomo di cultura e non ignoto nell’ambiente letterario, e possa quindi essere identificato con il “Cavalcante” che è ricordato da Guittone d’Arezzo (Rime, a cura di F. Egidi, Bari 1940, p. 64). Comunque la sua fama restò affidata, più ancora che all’esser stato padre del grande Guido, all’episodio dell’Inferno dantesco (X, vv- 52-72, 109-114) in cui il C. è immaginato, insieme col con suocero e rivale politico Farinata, dannato nell’arca infuocata dove sono “con Epicuro tutt’i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno” (vv. 13 s.).
Di tale atteggiamento eterodosso del C. nulla sappiamo: le informazioni forniteci dai primi commentatori non sembrano infatti più che ampliationes del testo dantesco, in base a tradizionali motivi polemici; d’altronde, di un epicureismo fiorentino parla il Villani (Cronica, IV, 30, p. 60), datandone gli inizi al sec. XII, quando si sarebbe diffuso “per vizio di lussuria e di gola”. Difficile dire cosa fosse questa setta materialistica, probabilmente ben lontana dalla serietà e dal rigore di Epicuro: all’epoca di Dante, d’altronde, del filosofo greco non si poteva sapere più di quanto era desumibile dagli scritti filosofici di Cicerone, e in particolare dal De finibus. In quest’“epicureismo” fiorentino non è forse azzardato riconoscere una sorta di nascente, e ancor filosoficamente rozza, ideologia “borghese”, tesa a risolvere, attraverso la negazione dell’immortalità dell’anima, il dissidio con una Chiesa che, ancora legata al mondo feudale, agitava di fronte ai nuovi ricchi i fantasmi dell’oltretomba. D’altra parte, non bisogna neanche dimenticare che, all’epoca del C., l’accusa di “epicureismo” era tra i motivi tipici della polemica antighibellina: in tal senso la presenza del C., unico guelfo citato contro tre ghibellini – Farinata, Federico II, Ottaviano degli Ubaldini –, è anomala nell’arca infuocata di Dante.
Il discorso si fa ancora più complesso, ma essenziale per interpretare correttamente la funzione del C. nella struttura dell’Inferno, qualora si consideri probabile che Dante abbia preferito definire “epicuree” le tendenze ereticali diffuse nell’averroismo latino, tese a negare la sopravvivenza dell’anima individuale, che non potevano essergli ignote e di cui pure egli non fa mai cenno nelle sue opere. Averroista, Dante era stato certamente in gioventù, quando più – si badi – subì l’influenza di Guido Cavalcanti; il cui averroismo ebbe sempre coloriture decisamente ereticali, come ha ormai persuasivamente dimostrato nei suoi saggi B. Nardi. Di Averroè Dante parla sempre con venerazione, anche nella Commedia: egli è colui “che il gran comento feo” (Inf., IV, v. 144), ed è posto nel Limbo con i grandi filosofi dell’antichità. Anche quando, in nome dell’ortodossia, si trova a dover confutare le sue teorie, Dante lo fa con grande rispetto, e riconoscendo di averne subito l’influenza: se egli separò “dall’anima il possibile intelletto”, questo è errore di chi comunque fu “più savio” di Dante (Purg., XXV, vv. 62 ss.); e la tesi averroistica sull’origine delle macchie lunari è confutata da Beatrice nel secondo canto del Paradiso come opinione accettata da Dante stesso. Dante, anche quando recepì il tomismo, continuò evidentemente ad ammirare il commentatore (ne pose il massimo seguace del sec. XIII, Sigieri di Brabante, nel Paradiso, X, vv. 133-38, tra gli spiriti sapienti, negandone implicitamente l’eresia), ma si dovette progressivamente distaccare da quegli averroisti che negando la sopravvivenza dell’anima individuale si facevano ai suoi occhi seguaci di Epicuro. Di tale opinione ereticale, senza precisare esplicitamente quale scuola filosofica la professasse, Dante parla con sincero orrore nel Convivio (II, viii, 8: “intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede dopo questa vita non essere altra vita”): nella sua visione sostanzialmente teocentrica nessuna credenza poteva essere più biasimevole, in quanto “la negazione dei soprannaturale è il centro e il fulcro di ogni forma di irreligiosità” (cfr. P. Bertolini, in Enc. Dantesca, I, p. 251, sub voce Anastasio II). Solo da tali premesse è possibile, a nostro parere, trarre un’interpretazione corretta della funzione assegnata da Dante alla figura del C. nell’economia della Commedia: e a questo proposito appare particolarmente illuminante un’annotazione di Benvenuto, il più acuto degli antichi commentatori, che riferendosi a Guido nota che “errorem quem pater habebat ex ignorantia, ipse conabatur defendere per scientiam” (p. 343). La considerazione non è certo particolarmente fidedigna sul piano biografico, ed è anzi, assai probabilmente, una delle tante ampliationes di accenni danteschi (l'“ignorantia” del C. tra l’altro non è provata né probabile); ma ciò che qui conta è che Benvenuto dia per scontato che la colpa del padre sia anche quella del figlio, offrendoci così una chiave estremanente importante, eppur trascurata, per l’interpretazione di tutto l’episodio. Il C. insomma non avrebbe nell’Inferno soltanto la funzione di dimostrare come guelfi e ghibellini fossero ugualmente lontani da Dio, o di rappresentare la perenne potenza degli affetti familiari, o, di fare da poetico e patetico contrappunto alla drammatica figura del suo consuocero Farinata (forte quanto il C. è debole, volto oltre la morte al mondo politico quanto il C. lo è a quello ristretto del suo amor paterno), ma anche, e forse principalmente, quella di permettere a Dante di esprimere l’esito definitivo dei suoi rapporti, così tormentati e contraddittori, con colui che un tempo aveva chiamato suo primo amico (Vita nova, III, 14). Già il Croce intuì che l’episodio era “il canto della tristezza per l’amicizia che fu già fraterna e poi è stata corrosa, se non infranta...” (p. 77). Più precisamente, attraverso l’incontro col C. – avvenuto nella finzione poetica poco prima della morte di Guido – Dante da un lato può riconoscere definitivamente la “grandezza d’ingegno” del poeta: riconoscimento questo che sarà poi confermato in un notissimo episodio del Purgatorio (XI, vv. 97 s.). e che è un’implicita palinodia del De vulgari eloquentia, in cui aveva proclamato Cino da Pistoia massimo rappresentante dello stilnovismo (II, ii, 9). D’altra parte, dopo averne riconosciuto il magistero poetico e l’affinità delle posizioni letterarie, Dante rappresenta attraverso la figura del C. anche il proprio irrimediabile distacco dalle posizioni filosofiche e teologiche di Guido; tanto più se nel “cui” della famosa crux del v. 63 (“forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”) è da riconoscersi, come ci sembra, Beatrice, e cioè allegoricamente la teologia e la fede, Dante allora nella figura del C. ha voluto indicare la tabe ereticale trasmessa dal padre al figlio e, se non addirittura presagire la dannazione di Guido, esprimere almeno i suoi seri dubbi sulla possibilità che l’amico più caro della sua giovinezza potesse essersi salvato.
Fonti e Bibl.: Per ulter. notizie e indicazioni bibl. sulla famiglia Cavalcanti e sui rapporti tra Dante e Guido si veda la bibliografia relativa a quest’ultimo e, particolarm., la biografia dedicatagli in questo stesso volume del Diz. biografico da M. Marti; per gli antichi commenti e per la storia della critica relativi al controverso episodio dantesco si vedano principalmente La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, I, Inferno, a cura di G. Biagi, Torino 1924, pp. 298 ss., e M. Sansone, C. de’ C., in Enc. dantesca, I, Roma 1970, pp. 889 s. Cfr. inoltre G., M. e F. Villani, Croniche…, a cura di A. Racheli, I, Trieste 1857, pp. 60, 118; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, II, Firenze 1879, ad Indicem; Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherii Comediam..., a cura di G. F. Lacaita, I, Florentiae 1887, pp. 340 ss.; B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1920, pp. 20, 77.