Cavalcanti, Cavalcante de'
Nobile fiorentino, vissuto sin verso il 1280, discendente da famiglia magnatizia di origine mercantesca, imparentato coi conti Guidi e Salimbeni, figlio di Schiatta e padre del poeta Guido, il primo amico di Dante.
Guelfo, subì il contraccolpo degli eventi fiorentini del 1248 e del 1260. Podestà di Gubbio nel 1257, dopo Montaperti (1260) i ghibellini danneggiarono le sue case di San Pier Scheraggio, presso il Mercato Nuovo. Esule a Lucca, rientrò in patria dopo il 1266. Di lui il Boccaccio dice che fu " leggiadro e ricco cavaliere, e seguì l'oppinion d'Epicuro in non credere che l'anima dopo la morte del corpo vivesse e che il nostro sommo bene fosse ne' diletti carnali "; più severamente Benvenuto, parlando del figlio Guido, afferma che " errorem quem pater habebat ex ignorantia, ipse conabatur defendere per scientiam ".
Collocato da D. tra gli eresiarchi (VI cerchio) e specificamente tra gli epicurei (v.) che l'anima col corpo morta fanno (If X 15) giace nello stesso avello da cui si leva Farinata, e del canto X dell'Inferno occupa una parte importante (vv. 52-72, 109-114). Mentre D. parla col magnanimo Farinata, sorge improvvisamente dalla tomba che aveva, come le altre, il coperchio levato (a la vista scoperchiata), un'ombra, che resta visibile solo sino al mento, per essersi forse levata in ginocchio. Dopo aver guardato intorno con ansia dubitosa, per rendersi conto se altri, oltre Virgilio, si accompagnasse a D., chiede piangendo perché mai il figlio non sia anch'egli con i due poeti, dal momento che D. ha meritato di compiere il prodigioso viaggio per altezza d'ingegno. E D., che l'ha subito riconosciuto per il modo della pena e per quelle sue parole colme di trepidante orgoglio, risponde prontamente che compie quel viaggio guidato da Virgilio, forse cui Guido vostro ebbe a disdegno. Il dannato si drizza d'improvviso come folgorato da un terribile sospetto: se, dunque, il figlio ebbe a disdegno, vuol dire che non può averlo ‛ ora ', che cioè non è in vita. D. esita a rispondere, sorpreso dal dubbio che poi gli chiarirà Farinata: e C., credendo di cogliere in quell'esitazione una conferma del suo angoscioso sospetto, s'abbatte supino nella tomba e più non riappare. Poi D., quando Farinata gli avrà chiarita la particolare condizione dei dannati, che vedono il futuro ma non le cose presenti o immediatamente prossime, lo prega di rassicurare C. che il figlio è ancora tra i vivi, e di dirgli che il suo indugio nel rispondere era dovuto al sorgere improvviso del dubbio che ora Farinata gli ha sciolto.
L'episodio, inserito nell'altro di Farinata, di cui interrompe solo esteriormente là continuità, non solo vi si inserisce con straordinario equilibrio, ma è mirabile per intensa e veloce drammaticità e insieme per la commossa rappresentazione di un chiuso e immenso amore e orgoglio paterno. Più al fondo l'episodio - il cui carattere proprio è nell'eccezionale mobilità di gesti e di tensioni affettive - significa un omaggio di D. al suo primo amico, Guido C., cui lo avevano legato a lungo identità di indirizzo letterario, e, quasi certamente, anche di suggestioni filosofiche, venate d'averroismo, e dal quale si era poi distaccato, sia per ragioni di poetica che per orientamenti speculativi. Ma è motivo totalmente riassorbito nell'attualità del movimento drammatico e psicologico, che costituisce la reale essenza dell'episodio.
Più aderente al suo rilievo artistico lo sfondo paesistico nel suo funebre silenzio cimiteriale e nel tragico bagliore di fiamme rosseggianti, e soprattutto il rapporto con il contesto, da cui riceve e cui dona rilievo: i due personaggi, Farinata e C., vivono - senza che per questo occorra ricercare alcuna significazione o gradazione simbolica - in un'organica e dialettica unità creativa.
La storia critica dell'episodio coincide con quella di tutto il canto e dell'episodio di Farinata in ispecie, alla quale si rimanda.
Dopo che il Foscolo scoprì la singolarità poetica del canto, e pose in luce " il passaggio istantaneo - nel canto - dalle pure memorie e dalle profezie delle stragi civili alla malinconia dell'amico morente ", come " uno dei contrasti di sceneggiatura e di chiaroscuro da' quali risultano gli effetti maggiori, direi quasi tutti, delle arti di immaginazione ", seguì la grande interpretazione del De Sanctis, che approfondisce, sviluppa e corregge gli accenni foscoliani, riponendo " l'interesse " dell'episodio " nei vari affetti e sentimenti da cui è travagliata l'anima di un padre " e nella tacita evocazione delle memorie giovanili. Su questa via si tennero i maggiori interpreti che seguirono, dal Parodi al Rossi, al Barbi, e poi, via via, il Romani, il Morello, il Carli e altri. Il Croce vede nell'episodio " il canto della tristezza per l'amicizia che fu già fraterna e poi è stata corrosa, se non infranta, dal corso degli avvenimenti e dal diverso atteggiarsi dei temperamenti e caratteri ". Il Gramsci, con una alquanto materiale e arcaica interpretazione del nesso dialettico di struttura e poesia proposto dal Croce, vede nell'episodio, inteso nel contesto del canto, una patente confutazione di quel rapporto, per il fatto che l'episodio, nel suo pregio poetico, non si spiega senza la connessione con la nozione, affatto strutturale, della condizione delle anime di questo cerchio rispetto alla conoscenza del presente e del futuro. Più stimolante il tentativo di estensione del rapporto struttura-poesia all'altro - proposto sempre a proposito dell'episodio di C. - didascalia-azione teatrale-regia. Le nuove istanze critiche (già indicate a proposito di Farinata) intese a ‛ storicizzare ' tutta la lettura della Commedia, a smitizzare la singolarità degli episodi e a riportare a una comune misura simbolica ogni parte e personaggio del poema, espresse primamente dal Vossler e poi dal Rastelli, dall'Aglianò, dal Padoan, dal Bozzetti, dal Montano, hanno visto nell'episodio non la drammatica rappresentazione di un trepidante e disperato amore paterno o un omaggio al primo amico, ma il segno di un chiuso e pervicace orgoglio terreno, di una cecità che non riesce a sospettare che per compiere il divino viaggio non basti la sola altezza d'ingegno. Degne di rilievo inoltre, per equilibrio e novità, alcune pagine dell'Auerbach, che prospetta l'episodio attraverso la sua interpretazione figurale-realistica della Commedia, ponendo l'accento sulla perpetuità e intensità del terreno e paterno atteggiamento di pietà del C.; e del Bosco, che vede riflessa, come in Farinata, così in C. la base spirituale del conflitto che era in D. " tra il dovere verso se stesso e il dovere verso i suoi cari ", riproposto qui secondo uno specifico registro, quello del padre orgoglioso del figlio, cui brama sia conservata la dolce luce del sole.
L'episodio è anche importante per alcune notevoli difficoltà esegetiche: a parte quelle minori (la vista scoperchiata, il sospecciar, il cieco carcere, ecc.) sulle quali si è oramai raggiunta una generale concordia, restano, più importanti, il supin ricadde, a proposito della quale espressione nessuno dei moderni è disposto a riconoscervi come gli antichi un significato simbolico (Ottimo: "‛ cader supino ' è peccare ed è cadere in pena infernale "; Guido da Pisa " supin ricadde, idest retrorsum. Retrorsum vero cadere est peccare et poenam aeternam incurrere "), e soprattutto il verso forse cui Guido vostro ebbe a disdegno, che costituisce ancor oggi una delle più tormentate cruces dantesche. V. CAVALCANTI GUIDO.
Bibl. - U. FoscoLo, Discorso sul testo... della Commedia di D., Firenze 1825, §§ CXXXVIII-CXLI; F. De Sanctis, Saggi critici, a c. di L. Russo, Bari 1952, II 281; E.G. Parodi, Poesia e storia nella " D.C. ", Napoli 1921, 532 ss.; B. Croce, La poesia di D., Bari 1921, 20, 77; V. Morello, Dante Farinata Cavalcanti, Milano 1927; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 19272, II II 67; M. Barbi, Con D. e coi suoi interpreti, Firenze 1941, 153 ss.; D. Rastelli, Restauri danteschi: Proposte per una rilettura del canto di Farinata, in " Saggi di Umanismo Cristiano " II (1948) 3-32; S. Aglianò, Il canto di Farinata, Lucca 1953; E. Auerbach, Mimesis, Torino 1956, 182 ss.; R. Montano, Suggerimenti per una lettura di D., Napoli 1956; C. Bozzetti, Storia interna del c. X dell'Inferno, in " Studia ghisleriana " s. 2, II, Pavia 1957, 79 ss.; G. Padoan, Il canto degli epicurei, in " Convivium " XXVII (1959) 12 ss.; R. Montano - G. Padoan, Per l'interpretazione del canto degli epicurei, ibid. XXVII (1960) 707 ss.; R. Montano, Storia della poesia di D., Napoli 1962, 422 ss.; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 185 ss. Per le discussioni intorno ai più recenti indirizzi esegetici, cfr. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino 1947, 141-144; Id., Letteratura e vita nazionale, ibid. 1950, 34-35; F. Matarrese, Interpretazioni dantesche, Bari 1957, 3-92, e M. Sansone, Il canto X dell'Inferno, Firenze 1961 (ora in Lect. Scaligera 1307 ss).
Per la vexata quaestio del disdegno di Guido: I. Del Lungo, Il disdegno di Guido, in " Nuova Antol. " 10 nov. 1889, 37-67 (poi in Dal secolo e dal poema di D., Bologna 1898); F. D'Ovidio, Studi sulla D.C., I, Caserta 1931, 235-312; S.A. Chimenz, Il "disdegno" di Guido e i suoi interpreti, in " Orientamenti culturali " I (1945) 179-188; E. Auerbach, Studi su D., Milano 1963, 53; Pagliaro, Ulisse 185-224; le minori cruces sono discusse o ricordate in D.A., La Commedia secondo l'antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, Milano 1966, II 159 ss.