CATTANEO, Domenico, principe di San Nicandro
Figlio del principe Baldassarre e Isabella Caetani, dei principi di Caserta e duchi di Sermoneta, nacque a Napoli il 20 dic. 1696. Sposò (1717) Giulia de Capua, erede del ducato di Termoli in Capitanata, dalla quale ebbe quattordici figli, nella maggior parte a lui premorti. Alla morte del padre, nel 1739,il C. era entrato in possesso dei feudi di San Nicandro, Casalnuovo e Casalmaggiore in Capitanata, il cui reddito era stato valutato nel 1708, per il pagamento anticipato del relevio, intorno ai 4.000 ducati. Il matrimonio con Giulia de Capua aveva consentito un accrescimento del patrimonio con i feudi di Termoli, San Martino e Donna Ritella, anch'essi in Capitanata, che, nella prima metà del sec. XVIII, davano un reddito oscillante tra 1.300 e 1.400 ducati. Al tempo di Carlo di Borbone, e precisamen e nel 1740, il C. venne inviato come ambasciatore in Spagna, alla corte di Filippo V e nel 1742 fu nominato presidente della Giunta istituita dal re per la formazione del codice carolino. Nello stesso anno gli venne conferita la massima onorificenza del Toson d'oro e, quindi, il titolo di grande di Spagna.
Nel 1759, quando re Carlo salì al trono spagnolo, il C., che era precettore del piccolo Ferdinando IV, entrò a far parte del Consiglio di reggenza.
Non dotato di molta cultura né di alte qualità morali, preoccupato soprattutto di non perdere il proprio ascendente su Ferdinando e di acquisire una duratura posizione di supremazia a corte, aveva favorito le naturali inclinazioni del giovane principe a respingere occupazioni impegnative e a ricercare divertimenti e compagnie poco consone alla sua condizione. I risultati della sua azione educativa, svolta con una certa grettezza e sotto la spinta di interessi personali, non furono, dunque, brillanti e di ciò pare che egli stesso si rendesse conto nel corso degli anni. D'altra parte, anche i rapporti col re non andarono del tutto secondo le aspirazioni del Cattaneo. Ferdinando, a mano a mano che si avvicinava alla maggiore età, lo mortificò in più occasioni, e in pubblico, al punto che, secondo l'opinione corrente, il C. sarebbe stato da ciò indotto a dimettersi nel 1768, dalla carica di maggiordomo maggiore.
L'attività del C. nel Consiglio di reggenza è caratterizzata da un orientamento abbastanza preciso di difesa dei privilegi dell'aristocrazia e della Chiesa. Da ciò il contrasto col Tanucci - del quale il C. fu nel Consiglio l'avversario più fiero e accanito - che contribuì non poco a rendere scarsamente efficace la reggenza. Dietro i due uomini si schierarono,infatti, in pari numero gli altri reggenti, di modo che più volte il Consiglio veniva ad essere paralizzato dall'esito nullo delle votazioni. Intorno al C., che godeva della protezione della regina Maria Amalia e dei gesuiti, si andò aggregando una sorta di partito cui aderivano esponenti dell'aristocrazia tradizionale, i gruppi che detenevano il monopolio finanziario nella capitale e coloro che cercavano di sfruttare ai propri fini la posizione tenuta dal C. a corte e la sua influenza sul re. Nel C. e nei suoi seguaci trovarono, poi, un consistente appoggio le autorità ecclesiastiche ogni qual volta la posizione della Chiesa nel Regno di Napoli era minacciata dagli orientamenti anticurialisti del Tanucci.
Valga, a titolo di esempio, il voto contrario espresso dal C., nel 1761, a proposito di una consulta della Camera di S. Chiara con la quale si suggeriva di sottoporre all'esame preventivo del delegato della Real Giurisdizione gli editti emanati dai vescovi del Regno. Oancora, l'opposizione alla prammatica, emanata dalla stessa Camera di S. Chiara, che obbligava i possessori dei beni ecclesiastici a destinare un terzo dei loro redditi ad elemosine. Un'opposizione tanto efficace da far revocare il provvedimento.
Con altrettanta edanche maggiore frequenza e caparbietà il C. espresse la sua linea filoaristocratica e di difesa dei privilegi della capitale, a cominciare dall'insistente richiesta avanzata nel Consiglio di reggenza di tornare al vecchio uso di nominare governatori delle province del Regno esponenti della nobiltà e non militari di professione, fino all'appoggio dato in più occasioni alle magistrature cittadine, legate alla nobiltà da un complesso intreccio di interessi politici e finanziari. Ciò risultò con particolare evidenza durante la carestia del 1764, quando si verificarono gravi fenomeni di speculazione aventi per protagonisti membri dell'aristocrazia e del governo, tra cui lo stesso C., che, nonostante avesse accumulato grano per oltre due anni, non lo vendette nel momento della crisi. Nello stesso 1764 e successivamente il C. favorì in Consiglio le richieste degli Eletti, miranti a ridurre l'intervento degli organi governativi nelle questioni dell'annona cittadina e a favorire gli interessi privati della nobiltà che voleva trarre profitto dalla vendita del proprio grano. Nel 1765 il C. vendette il suo grano alla Spagna ad un prezzo superiore a quello corrente nel Regno, suscitando il risentimento popolare. Che tali vicende possano essere state strumentalizzate dagli avversari del C., e, in primo luogo, dal Tanucci, per porlo in cattiva luce è certo possibile, senza, tuttavia, chela sostanza dei fatti ne venga alterata.
Del resto che il C. si muovesse con una certa spregiudicatezza speculativa sembra trovare altre conferme. Ottenuta, nel 1763, la carica di "accannatore" dei legni, che rendeva 400 ducati all'anno, "aveva con scandalo di tutto il tribunale della Camera introdotta la pretenzione di estendersi il diritto dell'accannatore, o sia misuratore, che prima si pagava e praticava nella sola Napoli a tutto il regno, sicché il diritto e la pensione di 400 sarebbe milliaja" (Lettere, p. 255). Il tentativo del C. non era, comunque, andato a segno sia per la contrarietà suscitata nell'opinione pubblica sia per l'opposizione incontrata in alcuni pubblici funzionari. Per un credito, poi, di circa 40.000 ducati da lui vantato nei confronti dello Stato godeva, ancora nel 1773 e fin dagli anni della dominazione austriaca, dei frutti di una tenuta demaniale in Puglia, il cui reddito ammontava a 6.000 ducati annui, provocando una perdita per lo Stato che veniva valutata intorno ai 100.000-120.000 ducati. Ciò nonostante, nella causa tra il C. e il fisco, gli organi competenti, e cioè la Sommaria, e il Consiglio di Stato, si dichiararono favorevoli al Cattaneo.
Il C. disponeva, peraltro, di un ragguardevole patrimonio feudale, via via accresciuto. Nell'anno 1751aveva acquistato il feudo di Salza, comprendente anche Volturara, Parolise e Montemarano, in Principato Ultra, e il feudo di Pomigliano d'Arco in Terra di Lavoro, ambedue devoluti allo Stato per la morte senza eredi di Girolamo Strambone, duca di Salza. Più che di un acquisto vero e proprio si trattava della soddisfazione di un credito di 217.350ducati che il C. aveva nei confronti della Corte e per il quale egli chiese l'assegnazione dei suddetti feudi. Il loro valore era, comunque, superiore alla cifra del credito, dal momento che erano così valutati: Pomigliano d'Arco 113.771ducati; Salza 20.421ducati; Parolise 9.117ducati; Volturara 29.577ducati e Montemarano 64.571ducati. I possedimenti in Principato Ultra furono venduti, nel 1761,dal figlio del C., Francesco, cui il padre aveva fatto donazione dei propri beni, al genovese Giovanni Domenico Berio per 122.883ducati. Fu, invece, mantenuta in possesso deiCattaneo Pomigliano d'Arco, forse perché più redditizia. Alla morte del C. le entrate che ne derivavano venivano valutate intorno ai 3.000ducati annui. Nel 1760il C. aveva effettuato intanto un altro acquisto, quello del feudo della Duchesca di Napoli, cedutogli per 107.593 ducati da Antonio Alvárez de Toledo, marchese di Villafranca e duca di Ferrandina. Il reddito doveva aggirarsi intornoai 4.000 ducati, a giudicare dal relevio pagato per la Duchesca alla morte del Cattaneo. Fin dal 1740 questi aveva istituito a favore del figlio Francesco un maggiorascato di 400.000 ducati con una rendita annua di 16.000 ducati. Nel 1759 aveva poi fatto donazione al figlio di tutti i suoi beni feudali e burgensatici, con l'aggiunta dei feudi di Termoli e San Martino appartenenti alla moglie, riservandosi un vitalizio di ducati 8.000 annui e l'uso delle sue abitazioni in Napoli e Barra.A Barra appunto il C.. si spense il 2 dic. 1782 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria della Stella a Napoli.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Cedolari,8, f. 608; 9, f. 946; 35, ff. 274 ss., 378v e ss.; 36, f. 152 ss.; 70, ff. 373v e ss., 559v; Relevi,73, 337; Lettere di B. Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1776), a cura di R. Mincuzzi, Roma 1969, ad Indicem;M. Vinciguerra, La reggenza borbon. nella minorità di Ferdinando IV, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., I (1915), pp. 514 s., 579 ss., 588; II (1916), pp. 338, 344 s., 493, 588; III (1917), pp. 214 s.; M. Schipa, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, II, Milano-Napoli 1923, p. 133; P. Onnis, B. Tanucci nel moto anticurialista del Settecento, in Nuova Riv. stor., X (1926), pp. 346 ss., 358; E. Viviani Della Robbia, B. Tanucci e il suo più import. cartugio, Firenze 1942, 1, pp. 97, 105 ss.; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1951, I, p. 177; L. Cattaneo, Brevi cenni in difesa di un napoletano di due secoli fa, in Arch. stor. per le prov. napol., s. 3, III (1963), pp. 276-85.