VISCONTI, Caterina
– Figlia di Bernabò (v. la voce in questo Dizionario) e di Regina della Scala, nacque a Milano probabilmente agli inizi degli anni Sessanta del Trecento.
Al di là delle strategie matrimoniali che la coinvolsero sin dall’infanzia, non si sa quasi nulla dei suoi primi anni e della sua gioventù. Il 3 novembre 1363, nel contesto della pacificazione in corso tra Galeazzo Visconti e il marchese del Monferrato, venne combinato il matrimonio con Secondotto Paleologo (anch’egli in tenerissima età; Petri Azarii Liber gestorum in Lombardia, a cura di F. Cognasso, 1926-1939, pp. 165 s.). Caterina fu poi promessa in sposa al re Riccardo II d’Inghilterra; le trattative si articolarono tra il 1378 e il 1379, senza però giungere a una conclusione (Saul, 1997, p. 84).
Sposò il cugino Gian Galeazzo nel 1380, non appena sfumò il matrimonio tra quest’ultimo e Maria d’Aragona (G. Giulini, Memoria di Milano..., 1856, V, p. 619). La cerimonia si svolse il 15 novembre: il padre le diede in dote 100.000 fiorini d’oro, mentre il marito le donò la terra e il castello di Monza (B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, 1978, I, p. 868).
Anche le sue attività antecedenti alla morte di Gian Galeazzo sono poco note. Il 6 dicembre 1384 l’antipapa Clemente VII le concesse in feudo la rocca di Angera (C. Santoro, La politica finanziaria..., I, 1976, n. 642). Il 9 febbraio 1386 Gian Galeazzo le donò la roggia di Desio (B. Corio, Storia di Milano, cit., I, p. 885); il 22 ottobre 1387, qualche giorno prima della conquista di Verona, ricevette la dedizione del Comune di Vicenza, durante la guerra tra i Visconti e gli Scaligeri. Con una disposizione testamentaria dell’8 gennaio 1390, inoltre, diede origine al primo nucleo della Certosa di Pavia (Fantoni, 1995, p. 285).
Questa non fu la sua unica decisione in materia di mecenatismo e di politica ecclesiastica: a Monza fece fondare una cappellania e l’11 agosto 1385 si adoperò per fare eleggere un familiaris di Gian Galeazzo nel capitolo locale. Ma che tra la ‘quasi città’ della Brianza e la futura duchessa vi fossero strette relazioni emerge anche dal suo essere tramite tra le rimostranze dei Monzesi e il signore di Milano (Barni, 1973, pp. 306, 310 s.) e dalle sue disposizioni a favore di cittadini e mercanti locali (A.F. Frisi, Memorie storiche di Monza..., 1794, I, pp. 126 s., II, pp. 172-174, 180). Caterina dedicò ovviamente particolari attenzioni anche alla città di Milano: fece ad esempio costruire una cappella nella chiesa di S. Maria alla Scala e finanziò la fabbrica del duomo (Arcari, 2018, p. 188).
Caterina poteva inoltre nominare (o confermare) notai, giudici delle vettovaglie, esattori, membri dell’ufficio dei sindaci, controllori dei prezzi, e poté erogare esenzioni di vario tipo (Valeri, 1935, p. 471).
Con la morte del duca (3 settembre 1402), Caterina – che era anche curatrice e tutrice dei figli Giovanni Maria e Filippo Maria (B. Corio, Storia di Milano, cit., II, p. 968) – assunse il ruolo di reggente. Parallelamente entrò in funzione un consiglio in cui un incarico fondamentale era ricoperto dal primo camerario Francesco Barbavara (Maiocchi, 1898, p. 260); il 18 settembre formalizzò la sua posizione con i consiglieri ducali (Cognasso, 1955b, p. 72).
Le difficoltà finanziarie e politiche che le si presentarono furono grandissime. La situazione interna era agitata non solo dai ‘tradizionali’ gruppi fazionari, ma circolavano anche diversi progetti e diverse concezioni della statualità viscontea.
La duchessa, appoggiata da alcuni esponenti del guelfismo, tentò infatti di incarnare un composito ‘partito dello Stato’, capace di raccogliere l’eredità politica di Gian Galeazzo e di orientarsi verso uno Stato che avesse come fondamento l’autorità ducale. Tale schieramento era fronteggiato invece dalle frange più radicali dei ghibellini, caratterizzate dal rifiuto dell’esperienza politica del primo duca: erano i sostenitori di uno Stato ‘municipalista’, in cui grande rilievo era rivestito dalle singole realtà locali (Del Tredici, 2017, pp. 153 s.). Su questa linea si posero, in primo piano, Antonio e Francesco Visconti, appartenenti al ramo di Somma; Francesco, antico oppositore del duca Gian Galeazzo, nel 1385 si era rifugiato a Ferrara (Del Tredici, 2015, pp. 32-36).
Caterina, con il Consiglio di reggenza, si mobilitò immediatamente sia per controllare da vicino le tumultuose dinamiche milanesi, sia per poter sfruttare direttamente gli introiti della città, a cui accostò le vendite di beni fondiari. Per dare un segno di apertura alla cittadinanza pose in un primo momento la sua sede nell’arengo, un edificio dal basso valore strategico e militare, ma altamente simbolico (Arcari, 2018, p. 189).
Davanti alle tensioni montanti il governo ducale puntò innanzitutto alla chiusura dei conflitti in corso: il 7 dicembre 1402 venne stipulata una pace con Francesco Novello da Carrara (Documenti diplomatici..., a cura di L. Osio, 1864, I, p. 376), mentre nel febbraio del 1403 Caterina per un verso intensificò i contatti con Parigi e per l’altro si assicurò l’appoggio di Genova (Cognasso, 1955b, p. 83). Le difficoltà economiche allontanarono tuttavia numerosi condottieri, e una nuova spedizione della lega antiviscontea nel Bolognese venne fermata solo da Facino Cane (Valeri, 1936, pp. 10-19, 33).
Fu in questa complicata congiuntura che Francesco e Antonio Visconti di Somma, assieme agli altri maggiorenti ghibellini, sobillarono le loro ramificate clientele urbane facendo leva sulle crisi in corso, sulla pressione fiscale e sull’odio verso Barbavara. Il momento parve propizio per inserirsi nel Consiglio ducale e influenzare i giovani principi contro Caterina e la corte (Zimolo, 1955, pp. 396-398).
Il 23 giugno 1403, durante una seduta del Consiglio ducale, si consumò – alla presenza della duchessa – un violento litigio tra Antonio Visconti e Barbavara (Cognasso, 1955b, pp. 86 s.). Il giorno seguente il guelfo Giovannolo Casati (uno degli educatori di Giovanni Maria; Gamberini, 2001, pp. 352 s.), che si era recato dal Visconti per esortarlo a riappacificarsi con lei, venne assassinato. Si innescarono i primi scontri e la tensione venne accentuata dalla scelta di Caterina di rafforzare il presidio di Porta Giovia, dove si era spostata. La duchessa decise quindi di sfilare per la città su di una carrozza (in seguito a una malattia probabilmente non era più in grado di andare a cavallo), smorzando così il tumulto (B. Corio, Storia di Milano, cit., II, pp. 983 s.). Il 25 giugno il ghibellino Antonio Porro, grande nemico di Barbavara, rientrò in città, infiammando nuovamente la situazione (Pagnoni, 2016, p. 57); la duchessa decise di mostrarsi una seconda volta, ma il 26 giugno (o il 27, secondo Maiocchi, 1898, pp. 266 s.) davanti ai 15.000 rivoltosi radunati da Porro dovette cedere: i Barbavara abbandonarono la città mentre le loro abitazioni venivano saccheggiate; nel Consiglio entrarono diversi esponenti dei ghibellini, nelle cui mani, di fatto, cadde il potere (B. Corio, Storia di Milano, cit., II, pp. 984 s.).
La corte rimase nel castello di Porta Giovia, mentre la duchessa fu costretta a tornare nel broletto, dove stette almeno fino all’ottobre del 1403, tenuta sotto controllo (ibid., p. 995; Zimolo, 1955, pp. 399 s.). Il nuovo Consiglio procedette immediatamente verso una decisa politica filopopolare, mentre lo Stato veniva di fatto smembrato dalle rivolte: nelle varie città si instaurarono signorie sia per opera delle famiglie locali, sia per opera dei condottieri che erano formalmente al servizio dei Visconti (Grillo, 2012, pp. 50-59; Zimolo, 1955, pp. 400-404).
I primi tentativi di Caterina per uscire da tale situazione grazie a interventi esterni non ebbero particolare successo. Prese innanzitutto contatti con il duca Luigi d’Orléans, marito di Valentina Visconti (sua figliastra) e con il governatore di Asti, a cui chiese di offrire riparo a Barbavara (Valeri, 1936, pp. 338-341). Ma l’aiuto fornito non diede i risultati sperati, e nei mesi successivi Milano fu travagliata costantemente dalle difficoltà economiche e dalle rivolte in città e nel contado (B. Corio, Storia di Milano..., cit., II, p. 993).
Nel fronte ghibellino si aprirono tuttavia, nel frattempo, alcune crepe. Sin dal luglio del 1403 il guelfo Delfinolo Brivio fu inserito nel governo cittadino: aristocratico milanese molto legato sia a Bernabò che a Gian Galeazzo, fu probabilmente il ‘ponte’ tra Caterina e il Consiglio da cui era stata estromessa (Miglio, 1972, p. 352). La pace di Caledio (25 agosto 1403) fu un altro importante punto di svolta: il Ducato perdeva buona parte delle conquiste di Gian Galeazzo, ma la sospensione dei conflitti permise alle forze duchesche di dedicarsi alla guerra civile in corso (Valeri, 1936, pp. 35-38; Maiocchi, 1898, pp. 271-273).
Caterina poté così riacquistare alcuni margini di manovra: non appena fu possibile tornò nuovamente nel castello di Porta Giovia (facendo fortificare anche la cittadella di Porta Vercellina; Zimolo, 1955, p. 404), e con il supporto dei suoi fedelissimi ordì una congiura che venne concretizzata, con successo, il 6 gennaio 1404 (Maiocchi, 1898, p. 275; secondo altri la tragedia si consumò il 7: B. Corio, Storia di Milano..., cit., II, p. 1000). In quel giorno, diversi ghibellini furono convocati dalla duchessa e arrestati; Antonio Porro, suo fratello Galeazzo e Galeazzo Aliprandi vennero decapitati (Zimolo, 1955, p. 405) e i loro corpi furono esposti nel broletto, vestiti a lutto per sottolinearne l’iniziale disobbedienza: non avere pianto il duca durante i funerali del 1402 (Del Tredici, 2015, p. 57). Il Consiglio venne epurato e Caterina impose il ritorno di Francesco Barbavara, che rientrò a Milano il 31 gennaio 1404 (Maiocchi, 1898, pp. 276-278).
I magnati ghibellini si concentrarono allora su Pavia, dove si trovava Filippo Maria Visconti. In seguito a pressioni da parte di Castellino Beccaria il giovane conte fece imprigionare Manfredi Barbavara, consigliando a Giovanni Maria di fare altrettanto con Francesco (che il 15 marzo 1404 fuggì nuovamente da Milano: Raponi, 1964, pp. 139 s.). Il 15 aprile Francesco Visconti (sfuggito alla congiura) rientrò in città, in uno scenario nuovamente mutato in seguito alle forti divergenze tra Caterina e Giovanni Maria. Il contado conobbe un nuovo processo di disgregazione (Grillo, 2012, p. 49; Cognasso, 1955b, p. 105), diversi condottieri abbandonarono il campo ducale, la lega antiviscontea riprese la sua attività, Caterina perse il sostegno diplomatico di Venezia, e addirittura il 23 maggio 1404 Ottone Rusca (da Como) e Giovanni Vignati (da Lodi) tentarono un assalto contro la stessa Milano, peraltro fallito (Zimolo, 1955, pp. 408-411).
Davanti a una situazione ormai incontrollabile, la duchessa il 15 agosto 1404 si rifugiò con i suoi fedeli a Monza, dove avevano ripiegato molti guelfi (Mainoni, 1975, pp. 367 s.) e dove il 18 agosto i ghibellini milanesi fecero irruzione, probabilmente con la collaborazione del castellano, e la catturarono assieme ai suoi sostenitori (Zimolo, 1955, p. 412).
Morì in prigionia il 17 ottobre 1404.
Andrea Biglia è del parere che sia stata avvelenata, e anche Bernardino Corio sostiene che sia morta essendogli dato il toxico, ma secondo Donato Bossi, invece, fu strangolata; dal canto suo l’anonimo autore della Cronica volgare punta sul fatto che venne sicuramente uccisa da Francesco Visconti. Venne sepolta nel duomo di Monza (Zimolo, 1955, pp. 411 s.). Lì fu posizionata un’iscrizione su lamina di piombo, in cui l’illustrissima Katelina è ricordata non solo come figlia di Bernabò, ma anche (e forse soprattutto) come olim consors di Gian Galeazzo, duca di Milano (Barni, 1973, p. 319).
La targa è una testimonianza preziosa, che permette di trarre un bilancio sull’esperienza politica della duchessa. Se da una parte rimase vittima della tormentata temperie in cui si trovò ad agire, dall’altra fu anche il perno che diede continuità al sistema politico creato da Gian Galeazzo: le prospettive ducali difese da Caterina e dal ‘partito dello Stato’, infatti, dopo l’incerta parentesi di Giovanni Maria, manovrato dai partiti di corte, vennero recepite e sviluppate dal terzo duca di Milano, Filippo Maria Visconti.
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