FRANCESCHI, Caterina
Nacque a Narni (oggi in prov. di Terni) il 26 genn. 1803 da Antonio, già ministro della Repubblica Romana (1798-99), e da Maria dei conti Spada.
A cinque anni per un incidente perse l'uso di un occhio e, compromesso anche l'altro, rimase cieca per cinque anni. Tale circostanza ebbe influenza decisiva sul suo carattere: la sua vita fu, infatti, improntata dal culto degli affetti familiari, dall'amore per la solitudine, dalla tendenza alla riflessione e da una forza morale non comune che le permise di affrontare, con energia insolita, oltre agli impegni familiari, compiti e attività intellettuali allora rari per le donne. La sua educazione fu guidata dal sacerdote Francesco Fuina, che la introdusse allo studio dei classici latini e italiani.
Trasferitasi nel 1823 con la famiglia a Macerata, la sua fama di latinista le valse l'apprezzamento di G. Leopardi che pensava di proporre all'editore Stella la traduzione che la F. aveva fatto del De amicitia di Cicerone (lettera del 14 apr. 1826 a F. Puccinotti, in Epistolario, a cura di P. Viani, II, Firenze 1937, p. 122). A Macerata continuò gli studi da autodidatta, iniziando l'apprendimento del greco. Ben presto avvertì la difficoltà di vivere in un piccolo centro dove mancava un vero insegnamento superiore.
Era il momento in cui il mondo intellettuale italiano era diviso dalla polemica tra romantici e classicisti. La F. intervenne con decisione nella disputa, schierandosi per questi ultimi, con alcuni scritti rimasti inediti.
Nel 1824 scrisse Intorno alla più degna gloria dello scrivere, di cui la censura pontificia vietò la stampa; e inedito rimase anche l'altro scritto, del 1826, Sull'imitazione dei classici (cfr. Chiari Allegretti, L'educazione nazionale…, pp. 23 ss.). Già in queste operette, pur tra evidenti ingenuità e giudizi poco meditati, si trovano i concetti fondamentali che ispireranno la sua produzione futura: importanza della tradizione e della cultura classica, non solo come valore filologico ed estetico, ma anche come principio educativo, filosofico, politico e quale via per "riscattare" l'Italia e rinnovarne la "grandezza antica".
La F. cominciò presto a essere conosciuta anche come autrice di poesie che ottennero un buon apprezzamento. Nel 1826 il Leopardi, scrivendo ancora al Puccinotti, sosteneva che la F. aveva "mossa di sé un'aspettazione grande" e consigliava l'amico a indurla non ad abbandonare del tutto la poesia, bensì a "coltivare assai la prosa e la filosofia". E aggiungeva: "se si volgerà seriamente alle cose gravi e filosofiche, come hanno fatto e fanno le donne più famose delle altre nazioni, ella sarà un vero onor dell'Italia…" (Epistolario, p. 142).
Queste esortazioni del Leopardi coincidevano con un bisogno già avvertito dalla F. che desiderava volgersi sempre più allo "studio della morale filosofia". Così, quando fu chiesta in sposa da Michele Ferrucci, pose come condizione di poter dedicare parte del proprio tempo a perfezionare gli studi, tanto più che la residenza e l'attività del futuro marito a Bologna potevano offrirle quelle occasioni che a Macerata le erano mancate. Dopo il matrimonio, avvenuto nel settembre del 1827, fu accolta a Bologna con notevole simpatia dagli ambienti intellettuali. Invitata all'Accademia dei Felsinei, il 4 apr. 1828 vi lesse l'Inno alla Morte e, poco dopo, l'Inno alla Provvidenza (ora in Prose e versi, Firenze 1873); e probabilmente a Bologna conobbe P. Giordani con il quale intrattenne una vivace corrispondenza.
Si dedicava frattanto allo studio della filosofia sotto la guida di Paolo Costa - impegnato ad accordare disinvoltamente sensismo e spiritualismo religioso, diritti della ragione e principî della fede -, le cui concezioni sembravano rispondere al proposito della F. di conciliare la tradizione classica con la fede cristiana. Più tardi la F. comprese l'inconciliabilità delle due posizioni filosofiche e si allontanò dal sensismo, volgendosi sempre più verso dottrine spiritualistiche. A Bologna, insieme col marito, che dal 1829 era stato nominato professore all'università, fu coinvolta nei moti del '31, ai quali i due coniugi avevano aderito con alcuni loro scritti. La sospensione temporanea del Ferrucci dalla cattedra e poi il rifiuto di attribuirgli quella di archeologia fecero loro comprendere che a Bologna non c'era più possibilità di carriera; e così decisero di trasferirsi altrove. Nel 1836 passarono a Ginevra, dove il Ferrucci aveva ottenuto la cattedra di letteratura latina all'Accademia, anche per intercessione di C. Benso conte di Cavour. A Ginevra la F. tenne, in lingua francese, corsi liberi di letteratura italiana e lezioni su Dante e la Divina Commedia.
Di particolare interesse la lezione su L'état actuel de la poésie en Italie (1838), dove trattò della disputa classico-romantica in Italia, stemperando molte delle sue giovanili posizioni antiromantiche e, in sostanza, criticando, da un lato, il classicismo quando si riduce all'imitazione pedissequa degli antichi, e riconoscendo, dall'altro, il valore educativo e la funzione nazionale della storia medievale e dell'ispirazione cristiana.
Alla fine del 1844 la F. ritornò in Italia e si stabilì a Pisa col marito, che vi aveva ottenuto la cattedra universitaria di archeologia e storia. Iniziò subito a scrivere Della educazione morale della donna italiana (Torino 1847).
Le idee filosofiche e politiche di V. Gioberti attrassero subito la F. per la loro consonanza con le sue aspirazioni. Ne divenne presto un'entusiasta e devota seguace e vide in lui il promotore del vero rinnovamento nazionale e di un nuovo principio di educazione destinato a costituirne la premessa. Riteneva, come lui, necessario sottrarre i giovani alla influenza preponderante dei gesuiti, e chiamava le madri italiane ad assumersi la missione educativa, rinnovando il proprio intelletto con lo studio, per contribuire anch'esse ai nuovi doveri civili. Tutti gli scritti pedagogici della F. mireranno a preparare le donne a questo compito, sul fondamento di una facile divulgazione del programma giobertiano che ella voleva trasformare nel principio di rigenerazione delle donne, rimaste finora in gran parte estranee alla vita nazionale.
Il fine dell'educazione era per lei lo sviluppo armonico di tutte le facoltà spirituali dirette al progressivo possesso dell'"idea" rivelata. Intendeva così suddividere la sua trattazione generale in tre parti, corrispondenti ai tre aspetti dell'idea, i principi del buono, del vero e del bello.
La visione pedagogica della F. era chiaramente condizionata dalla particolare situazione politica del tempo, ma anche da una concezione della donna che la identificava con il suo destino di moglie e di madre. La necessità dell'educazione femminile non significava infatti, anche per la F., confondere i ruoli dell'uomo con quelli della donna: "Gli uomini s'ebbero in particolar distintivo la forza dell'intelletto e la gagliardia delle membra: noi (donne) avemmo dalla natura a dote speciale la soavità degli affetti e la tenerezza del cuore" (Letture morali ad uso delle fanciulle, p. 162). E, ancora molti anni più tardi, nel 1871, scrivendo a R. Lambruschini, sosteneva senza mezzi termini: "A me sembra stoltissima l'opinione di quelli, i quali vorrebbero che le donne avessero in comune cogli uomini gli uffici, e gli onori: sicché in luogo di attendere ai casalinghi lavori, e ad allevare i loro figlioli perdessero in gare ambiziose la pace dell'animo, la verecondia, e la dignità della vita" (Epistolario…, p. 358), opinioni che smentiscono le interpretazioni di una F. antesignana della emancipazione femminile.
Il libro le procurò fama, tanto che C. Bon Compagni, divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel primo gabinetto costituzionale sardo, quando pensò di creare i collegi nazionali di educazione si rivolse alla F. per invitarla a dirigerli; ma le sue dimissioni da ministro (16 dic. 1848) troncarono il progetto.
L'elezione di Pio IX e le riforme che erano seguite nei vari Stati italiani avevano suscitato l'entusiasmo della F. che scrisse alcuni componimenti di occasione, due dei quali (l'Esaltazione al pontificato e l'Amnistia) inviò allo stesso pontefice con una lettera di accompagnamento (L'educazione nazionale…, pp. 149 ss.). Tra il 1847 e il '48 scrisse alcuni articoli di carattere politico, apparsi ne Il Felsineo di Bologna e su L'Italia; e a Milano, nel 1848, usciva Della repubblica in Italia: considerazioni.
L'attenzione e la sua entusiastica partecipazione agli eventi di quei mesi, le speranze prima, la delusione e l'indignazione poi per la piega che essi presero, sono eloquentemente espresse nelle lettere al Minghetti, prima e dopo la partecipazione di questo al ministero nominato da Pio IX il 10 marzo '48 (Epistolario…; Minghetti, Miei ricordi…). Il suo ardore patriottico ispirò soprattutto le lettere inviate tra l'aprile e l'agosto '48 al marito e al figlio che combattevano, in Lombardia, col battaglione universitario pisano. Se grande era il suo sacrificio per la lontananza e il timore per la loro sorte, era altrettanto ferma nell'incitarli a compiere il loro dovere fino in fondo e, quando il battaglione si stava disgregando, a esortarli: "se voi tornate, ve ne prego, siate gli ultimi di tutti. Prendiamo con pazienza questa dura separazione; ma l'onore e il dovere sono da preferirsi a tutto", mentre si scagliava contro coloro che erano rimasti o erano tornati a casa, "vergogna eterna", "generazione fiacca e imputridita".
In Toscana la crisi politica andava aggravandosi in seguito alla crescente agitazione dei democratici; e quando il governo passò nelle loro mani la F. scrisse al Gioberti, pregandolo di trovare a lei e alla sua famiglia una qualche sistemazione in "quel porto di pace" che le sembrava il Piemonte. Le dimissioni del Gioberti (20 febbr. 1849) fecero fallire anche questo progetto.
Nel gennaio del 1849 aveva terminato il primo volume Della educazione intellettuale (I-II, Torino 1849-51), iniziato alla fine del 1847 e interrotto durante le operazioni militari del '48. Desiderava pubblicarlo "proprio nel tempo in cui la tirannide de' demagoghi era potente e sfrenata", perché, come scriveva a C. Guasti, "desiderava ardentemente venire con essi a battaglia" per poter dare "ai troppo timidi liberali d'Italia, un esempio di libertà morale" (L'educazione nazionale…, p. 297), ma il libro poté essere pubblicato solo dopo la disfatta di Novara.
Nell'opera la F. critica i sistemi educativi del tempo, propone un programma di riforme pedagogiche e attacca decisamente l'ideologia democratica che svia il popolo del "bene" supremo dell'intelletto, mentre proprio l'educazione della mente è il fondamento sia di quella morale sia di quella estetica.
Nel 1850 si trasferì a Firenze col figlio Antonio, e vi rimase fino a tutto il '52, alternando il soggiorno in Toscana con quello a Genova. Qui, infatti, nell'aprile del 1850, un comitato di signore, presieduto da Bianca Rebizzo, le offrì la direzione dell'Istituto italiano di educazione femminile che pensavano di fondare. La F. accettò l'incarico, a condizione di poter rimanere a Genova solo alcuni mesi all'anno e conciliare così col nuovo ufficio i suoi doveri verso la famiglia. Il 21 giugno 1850 la Gazzetta di Genova pubblicava l'annuncio della prossima apertura del collegio.
Il programma, redatto dalla F. (Programma, Regolamento dell'Istituto italiano di educazione femminile in Genova, in Gazzetta di Genova, 21, 22, 24 giugno 1850), prevedeva l'insegnamento della religione e della morale cattolica, "guida principalissima di tutto il corso educativo", della lingua e della letteratura italiana, con lo studio degli autori classici al primo posto, e includeva la storia, la geografia, le scienze naturali, l'aritmetica, la geometria, l'economia domestica, gli esercizi di ginnastica, il ballo, la musica vocale, il disegno, l'igiene e i lavori femminili, ai quali si potevano aggiungere le lingue straniere, la pittura, il pianoforte e l'arpa. Tutti questi studi miravano al perfezionamento morale della fanciulla al fine di "avvicinarla alla virtù" e farle comprendere la nobiltà degli impegni domestici.
Nell'ottobre del 1850 la F. pubblicava a Genova un manifesto Alle madri italiane, per far conoscere il collegio, che fu aperto il 15 novembre. Ma già nel gennaio successivo cominciarono i primi dissapori tra la F. e il consiglio dell'Istituto. La sua posizione non era delle più facili: vista con sospetto dai clericali per le relative novità del suo programma educativo, era da altri giudicata retriva per la sua decisa presa di posizione contro i democratici, ma, in sostanza, era in causa il concetto giobertiano dell'educazione a cui la F. aveva voluto fosse ispirato il collegio. A settembre le fondatrici dell'Istituto le comunicarono che la sua presenza saltuaria era insufficiente e che era necessario un cambiamento negli uffici direttivi, per cui le sue mansioni si sarebbero ridotte solo a quelle di ispettrice, senza più influenza educativa. La F. rispose presentando subito le dimissioni. Frattanto aveva lavorato alla stesura del secondo volume della Educazione intellettuale e delle Letture morali ad uso delle fanciulle - Alle alunne dell'Istituto italiano in Genova, I-III, Genova 1851-1852.
Queste ultime erano, in sostanza, l'insegnamento di principî etici impartito da una madre alle proprie figlie, sotto forma di brevi racconti, dialoghi, esempi. Nel secondo volume Della Educazione intellettuale trattò della educazione della memoria e della immaginazione, forze spirituali necessarie anch'esse alla realizzazione della coscienza nazionale; e il primo passo doveva essere quello di annullare nei giovani qualsiasi traccia della filosofia sensista e di guidarli all'amore della filosofia spiritualista, unica capace di salvare l'Italia.
Dopo le dimissioni dall'Istituto genovese la F. rimase a Firenze, ma alla fine del 1852 era di nuovo a Pisa e qui terminò Degli studi delle donne italiane, libri quattro (Torino 1854). Tra il 1856 e il '58 uscirono a Firenze i due volumi de I primi quattro secoli della letteratura italiana dal secolo XIII al XVI, I-II (Firenze 1856-1858), in cui la F., dopo aver trattato della educazione rispetto al bene e rispetto al vero, si proponeva di trattare del bello.
Il bello è, infatti, uno degli aspetti dell'idea, come il vero e il bene. Lo studio delle lettere è la via per la migliore comprensione di questo assoluto principio; e siccome nel campo della letteratura il più alto grado di perfezione fu raggiunto dagli antichi e, fra gli Italiani, dagli scrittori dal '300 al '500, a loro debbono volgersi la mente e il cuore, non per imitare, ma per trarne ispirazione e irrobustire l'animo. E per la F. l'esempio migliore di come si deve guardare agli antichi rimaneva il Leopardi (I primi quattro secoli…, p. 171).
Mentre attendeva alla stesura di questa opera, la F. fu colpita dalla morte della figlia Rosa; e in sua memoria curò la pubblicazione di alcuni suoi scritti, ai quali premise una biografia (Rosa Ferrucci e alcuni suoi scritti pubblicati per cura di sua madre, Firenze 1857). Dopo un lungo periodo di prostrazione riprese a scrivere versi. Nel 1871 l'Accademia della Crusca la nominò membro corrispondente: la prima donna a esservi eletta. Nell'occasione scrisse il discorso Della necessità di conservare alla nostra lingua e alla nostra letteratura l'indole schiettamente italiana (in Atti della R. Accademia della Crusca, Firenze 1875, pp. 61-85), che fu letto da I. Del Lungo il 5 sett. 1875.
Nel novembre 1875, mentre stava concludendo gli Ammaestramenti religiosi e morali (ibid. 1877), fu colpita da paralisi. Visse ancora molti anni in quell'isolamento che, già congeniale alla sua indole, le era divenuto una necessità dopo la morte della figlia. Dopo la morte del marito, nel 1881, si stabilì a Firenze col nipote Filippo, e qui morì il 28 febbr. 1887.
Data la copiosa produzione della F., spesso dispersa in varie riviste e giornali, per una rassegna più estesa degli scritti rinviamo a G. Chiari Allegretti, L'educazione nazionale nella vita e negli scritti di C. F. Ferrucci, Firenze 1932. Della F. è stato pubblicato un volume di Scritti letterari educativi e patriottici inediti o sparsi…, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1932.
Fonti e Bibl.: G. Eroli, Alcune notizie sopra C. F. in Ferrucci, Assisi 1888; M. Minghetti, Miei ricordi, I-III, Torino 1888-1890, ad Indices; F. Pera, Nuove curiosità livornesi, Firenze 1899, pp. 450-454; I.E. Ciancarelli Gazzoni, Una donna italiana nel 1848: lettere inedite di C. F. Ferrucci, Rieti 1907; Epistolario di C. F. Ferrucci, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1910; I.E. Ciancarelli Gazzoni, C. F. Ferrucci nelle letteratura e nella storia, Rieti 1912; Lettere inedite di C. F. Ferrucci, a cura di A. De Rubertis, in Raccoglitore, IV (1925); C. Chiari Allegretti, Esuli del 1831 a Ginevra: Michele Ferrucci e C. F., in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, XVII (1927), pp. 163-195; Id., Giacomo Leopardi e la donna nel Risorgimento, in La Rassegna nazionale, s. 3, L (1928), 3, pp. 142-156; Id., La scuola privata di Paolo Costa in Bologna e la rivoluzione del 1831, in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 4, XVIII (1928), pp. 273 s.; P. Bonatelli, Lineamenti d'educazione e di storia della educazione femminile, Firenze 1942, pp. 1, 61, 94 s., 110, 112, 133 s., 185 s., 460-478; E. Garin, La questione femminile…, in Belfagor, XVII (1962), pp. 23 s.; G. Mazzoni, L'Ottocento, a cura di A. Vallone, Milano 1964, ad Indicem; I. Zambaldi, Storia della scuola elementare in Italia…, Roma 1975, ad Indicem; M.C. Barbarulli, C. F. Ferrucci accademica della Crusca: il "sapere" di una donna nell'800, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana, Firenze 1985, pp. 335-356.