CATENACCI, Catenaccio
Nacque quasi certamente ad Anagni verso la metà del sec. XIII.
Di un Catenaccio di Anagni dà notizia il Registrum vetus instrumentorum dell'Archivio comunale di Todi; un'origine "de Campania" attestano i due manoscritti pervenutici (uno milanese e uno napoletano) e un'edizione romana a stampa dell'unica sua opera conosciuta, il Libro di Cato. Non si tratta della Campania, come fu creduto, bensì della Campagna, la parte più meridionale dello Stato della Chiesa di cui era capoluogo Anagni. Decisiva conferma proviene da alcune caratteristiche linguistiche del poemetto, riconducibili al dialetto anagnino. Si hanno anche notizie di una famiglia Catenacci di Anagni, che spicca, nei secoli XIII e XIV, come una delle più cospicue della zona. Un fratello del C., Guarnaccione, era imparentato con l'illustre famiglia dei Caetani, la più potente non solo dell'Anagnino, ma dell'intera Campagna e Marittima e della Terra di Lavoro, destinata ad assurgere al papato nel 1294 con Bonifacio VIII. Lo stesso C. menziona il fratello con dichiarata deferenza: "...meu frate, missere guarnaçone, / ad cui, per soa bontade, porto sugetione" (Librodi Cato, vv. 963-964 del ms. napoletano).
Sappiamo ben poco della vita del C.; ebbe compiti di natura politica, esplicati in vari centri dello Stato della Chiesa. Fu vicario del podestà Loffredo Caetani a Todi, dal dicembre 1282al giugno 1281,in momenti di acuta tensione nell'Italia centrale e in Umbria in particolare per la forte pressione politica e militare nuovamente esercitata dai ghibellini, rianimati dalla rivolta antiangioina di Sicilia e dalla connessa crisi del predominio guelfo in Italia. Èfacile supposizione che i principi e l'operato politico del C. non si siano discostati dalla linea guelfa e filoangioina della famiglia Caetani e del papa di allora, il francese Martino IV. Non è dato sapere se la sua carriera abbia conosciuto ulteriori affermazioni negli anni del pontificato di Bonifacio, con cui culmina in Roma il processo di ascesa al potere delle famiglie del contado a danno di quelle cittadine. Le successive tappe della sua vita pubblica coincisero con l'ascesa al trono (1309) e la nomina a rettore di Romagna (1310) di Roberto d'Angiò, che lo innalzò al cavalierato e lo inviò come podestà a Foligno nel 1310. Nel 1314, gravitando nell'orbita del conte palatino Benedetto Caetani, il C. era a Orvieto in funzione contemporaneamente di podestà e capitano della città: cumulo di cariche che, limitando le libertà comunali, doveva servire alla definitiva repressione dei conati ghibellini.
Dopo il 1314 del C. non si hanno più notizie; è ignoto anche l'anno della sua morte.
Il Libro di Cato è un volgarizzamento dei Disticha de moribus dello Pseudo-Catone e consta di 155 strofe di sei versi, non divise in libri come nell'originale. L'autore vi si nomina due volte (st. 85 e 154). Venne composto, probabilmente, tra la fine del sec. XIII e i primi del XIV, in un dialetto meridionale: di tipo calabrese, secondo il Miola e il Mandalari, di tipo abruzzese-campano, con fenomeni tipici dell'anagnino, secondo il Percopo e il Monaci; un dialetto comunque, come afferma l'Altamura, seguito dal Migliorini, elaborato, mediante un processo di ripulitura e assimilazione di elementi latini, nella direzione di una sorta di koiné, di lingua letteraria. Tale obiettivo è meglio realizzato nel testo tramandato dal ms. milanese, che presenta, rispetto a quello napoletano, una più omogenea fusione delle componenti linguistiche. Di qualche interesse il metro, piuttosto elaborato, del tipo della sesta rima narrativa e costituito da una fronte tetrastica di alessandrini monorimi, col primo emistichio spesso sdrucciolo, e da una coda distica di endecasillabi a rima baciata. Èil metro di vari altri componimenti dell'area centromeridionale d'Italia, tra cui il Liber balneorum e il Regimen sanitatis. Sono state notate, già dal Miola, le somiglianze col metro del Contrasto di Cielo d'Alcamo, che però nella fronte ha tre alessandrini (ma si possono anche richiamare il Ritmo cassinese e il Ritmo su Sant'Alessio). Il tetrastico ha un sicuro precedente nella quartina monorima di alessandrini, di aspirazioni dotte, tanto diffusa nel territorio romanzo per la trattazione di argomenti religiosi morali e satirici e largamente praticata dai didattici italiani sia settentrionali (da Girardo a Bonvesin) che del Centro (nei Proverbia pseudoiacoponici). I versi usufruiscono ancora con una certa frequenza (molto più accentuatamente nel testo napoletano, per cui a ragione il D'Ovidio poteva parlare di "impotenza" tecnica) della licenza anisosillabica della poesia "giullaresca",ampiamente accolta del resto anche nella poesia didattica dell'Italia settentrionale. Gli emistichi degli alessandrini e gli endecasillabi possono crescere (non sempre assumendo andamento giambico) di una o più sillabe; i primi possono anche calare di una sillaba. Prevale comunque la tendenza alla regolarizzazione, che è una prova della volontà di nobilitazione tecnico-culturale del verseggiare da parte del C., orientato ormai verso la prassi prosodica di Cielo e Bonvesin piuttosto che verso quella di un Giacomino da Verona.
Il poemetto è destinato all'istruzione delle persone incolte: "De fare una operecta venutu m'è talentu, / perché la rucza gente ['n] d'aia doctrinamentu" (st. 1 del ms. milanese). Dei Disticha sono note numerose traduzioni nelle lingue romanze (sino a quella di Bonvesin). Quella del C. è tra le più tarde e colma un vuoto nell'area più meridionale di proliferazione comunale. Risponde alla richiesta di schemi culturali ed etici proveniente, a partire dal Duecento, dai ceti della borghesia comunale del Nord e del Centro della penisola, che avevano conquistato o si apprestavano a conquistare posizioni di potere sul piano amministrativo e politico. Così, emblematicamente, la compilazione pseudocatoniana esce dalla scuola, ove era stata testo largamente adoperato per l'educazione morale, per raggiungere un ben più vasto pubblico, cui può offrire un tipo di insegnamento abbastanza generico e generale (non caratterizzato, ci sembra, tipicamente in senso feudale cavalleresco, come insegnò E. Wechssler in Das Kulturproblem des Minnesangs) per prestarsi ad una integrazione in ambito sociale laico e mercantile-affaristico. Anzi, col suo fondarsi su un ideale di "misura" sia nella pratica morale che nell'amministrazione del patrimonio, consente un adeguamento alla cultura delle classi superiori senza la condizione dell'abbandono di certe basilari costanti di comportamento tipiche della borghesia. Tali aspetti riescono sottolineati e rafforzati nella traduzione del C.: le parole-chiave sono proprio "mesura","modo","amesuratu". Egli, sul piano ideologico, volgarizza secondo una direzione che sembra voler razionalizzare il compromesso pratico tra la legge di Dio e quella del mondo, mentre, a garanzia della perpetuità della visione cristiano-feudale, inculca una prospettiva che limita e subordina in ogni senso le possibilità dell'uomo di dominio sulle cose e sugli eventi. Il C. infatti opera con ampio margine di libertà, adottando la tecnica dell'adattamento (cristianizzazione oppure riduzione o addirittura declassamento di non pochi praecepta dell'originale), dell'amplificazione e della rielaborazione (che spesso è fraintendimento): "Voi che cheste sentencie legete et ascoltate, / le quale eo Catenaczo aio in vulgare tornate, / saczati che eo z'ò iuncte parole, tolte e cambiate, / azò ch'elle ne fossero plu certe declarate. / Eo z'aio iu[n]cto e facto de mia tina, / perché fosse plu clara la doctrina" (st. 155 del ms. milanese). Una libertà, ben consapevole, che fu propria della prassi più arcaica di traduzione dei volgarizzatori italiani (C. Segre, Ivolgarizzamenti del Due e Trecento, in Linguastile e società, Milano 1963, pp. 56, 61 ss.).
Ciò spiega la crescita dalla misura distica delle partizioni originali a quella esastica del volgarizzamento, in cui, come norma direzionale, a ogni verso del distico latino corrispondono due alessandrini, mentre la coppia finale ribadisce la sentenza con un intento di concisione epigrammatico-proverbiale. Lo insieme tuttavia non dà ragione alla convinzione dell'autore di saper rifuggire dalle parole inutili (st. 1) e di aver realizzato l'obiettivo della brevità (st. 154). Nella modestia generale dei risultati e nell'assenza di felicità inventiva e di disposizione mimetica dinanzi alla realtà, è il distico il luogo di più felice espressione del gusto sentenzioso del C., che adotta atteggiamenti di distaccata saggezza e provata esperienza. Ed è anche il luogo di maggiore libertà lessicale e stilistica rispetto all'originale. Le quartine invece, se si escludono frequenti parziali deviazioni nella disposizione sintattica (spesso d'altra parte imposte dalla diversità di struttura linguistica), sono assoggettate al monotono condizionamento delle forme ammonitivo-prescrittive e casistico-catalogatorie.
Agli inizi del Novecento fu proposta dal Torraca l'attribuzione al C. del Ritmo cassinese;ma non si trattò che di un'ipotesi, come dichiarò in un secondo momento lo stesso studioso, accettando le critiche del D'Ovidio.
I manoscritti che conservano il Libro di Cato sono ambedue del XIV secolo: il V. C. 27 della Nazionale di Napoli e il 795 della Trivulziana di Milano. Da questi discendono, rispettivamente, una stampa napoletana del 1477 circa di Arnaldo da Bruxelles e una stampa romana del 1475 circa dello Schurener de Bopardia. Non mancano tra questi quattro testi differenze di ortografia e lingua, specie tra i napoletani e i due milanese e romano. La lezione più sicura è tramandata dal ms. trivulziano. Il testo di quello napoletano fu fatto conoscere da A. Miola, Scritture volgari dei primi tre secoli, Bologna 1878,I, pp. 30-57(riprodotto da G. Guerrieri-Crocetti, in L'antica poesia abruzzese, Lanciano 1914, pp. 39-61).L'edizione più attendibile, corredata dalla pubblicazione in nota delle più importanti varianti trivulziane, è quella di A. Altamura, Duecento meridionale. Il "Libro de Cato" di C., in Archivum romanicum, XXV (1941), pp. 231-268. Lo stesso Altamura pubblicò poi,in Testi napoletani dei secoli XIII e XIV, Napoli 1949, pp. 107-137, il testo del trivulziano. Si attende dell'operetta quell'edizione critica a cui avevano pensato sia il Rajna che il Monaci.
Fonti e Bibl.:Arch. comunale di Todi, Registrum vetus instrum.,t. I, c. 92, 5 giugno 1283; Bonaventura di Benevento, Fragmenta Fulginatis hist., a cura di M. Faloci Pulignani, in Archivio storico per le Marche e l'Umbria, II, (1885), p. 349; P. Cayro, Discorso stor. sulla città di Anagni, Napoli 1802, p. 118; G. Pardi, Serie dei supremi magistrati e reggitori di Orvieto dal principio delle libertà comunali all'anno 1500, in Boll. della Soc. umbra di storia patria, I (1895), p. 382; Id., Ilgoverno dei signori Cinque in Orvieto,Orvieto 1894, p. 28; E. Percopo, IBagni di Pozzuoli, Napoli 1887, p. 37; E. Monaci, Una leggenda e una storia versificate nell'antica letteratura abruzzese, in Rend. della R. Accad. dei Lincei, classe di sc. morali, stor. e filologiche, s. 5, V (1896), p. 484; M. Mandalari, X note di storia e bibliografia, Catania 1896, pp. 5-13; F. D'Ovidio, Sull'origine dei versi ital.,in Giorn. stor. della lett. ital., XXXII(1898) p. 38; E. Monaci, Sull'antica parafrasi dei Disticha "de moribus" verseggiata da un rimatore anagnino, in Rendiconti della R. Accad. dei Lincei, cl.di scienze mor., stor. e filolol., s. 5,VIII (1899), pp. 245-248; F. Torraca, Sul Ritmo cassinese, nuove osservaz. e congetture, in Nozze Percopo-Luciani, Napoli 1903, pp. 143 ss.; G. Bertoni, IlDuecento, Milano 1939, p. 332; A. Altamura, Appunti sulla diffus. della lingua nel Napoletano, in Convivium, XVII (1949), pp. 292 s.; B. Migliorini, St. d. lingua ital.,Firenze 1961, p. 221.