Catalogare il mondo: scienza, poesia, oratoria dai Flavi a Traiano
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel cinquantennio che intercorre tra l’ascesa di Vespasiano e la morte di Traiano nella produzione letteraria latina fioriscono generi diversi: da una parte l’opera “enciclopedica” di Plinio il Vecchio, la summa di Quintiliano dedicata alla retorica e gli epigrammi di Marziale che mirano alla catalogazione dei vizi umani; dall’altra parte l’epica che recupera i miti della tradizione più consolidata e infine la prosa “ufficiale” di Plinio il Giovane e la rappresentazione della crisi nei versi rancorosi di Giovenale.
Una forte spinta alla catalogazione sembra improntare la cultura latina nel cinquantennio che va dall’ascesa del primo imperatore flavio, Vespasiano (69), alla morte di Traiano (117): la Naturalis historia di Plinio il Vecchio è un’enciclopedia di tutto il sapere scientifico accumulato in secoli di ricerche, dalla cosmologia alla botanica, dalla zoologia alla mineralogia alla farmacopea; l’Institutio oratoria di Quintiliano, a sua volta, è una summa della riflessione antica in merito alla retorica e alla formazione del perfetto oratore; e uno sterminato catalogo è in fondo anche l’epigramma del poeta spagnolo Marziale, in cui ogni sorta di vizio e di vezzo umano è impietosamente individuato, descritto, messo alla berlina o quanto meno fatto oggetto di una ironia più o meno benevola.
Intanto la poesia epica imbocca strade nuove, sia rispetto all’età di Nerone (Lucano) che a quella di Augusto (Virgilio): l’epos prende ora in considerazione i grandi cicli del patrimonio mitico più tradizionale (i Sette contro Tebe, la saga degli Argonauti) oppure recupera vicende del remoto passato di Roma (la seconda guerra punica). Il “secolo beatissimo” di Traiano si esprime in letteratura in forme contraddittorie: da un lato Plinio il Giovane, oratore, uomo politico, soprattutto gran signore che alterna l’assistenza agli amici alle occasioni di incontro mondano, gli impegni della capitale ai raffinati soggiorni in una delle tante residenze di campagna (ma Plinio è anche uno scrupoloso amministratore e destina in beneficenza e in opere pubbliche una quota dei propri beni), al lato opposto Giovenale, satirico arrabbiato, polemista feroce, inguaribile nostalgico, i cui strali si appuntano con impietosa lucidità sulle pieghe più oscure di una società al tempo stesso opulenta e stracciona, scintillante e decadente.
Quando parliamo di divulgazione scientifica, ci riferiamo a un tipo di comunicazione che si pone l’obiettivo di trasmettere a un pubblico vasto e non specialistico i risultati della ricerca scientifica, attraverso un linguaggio accessibile e una scrittura accattivante, forse occasionalmente a prezzo di qualche semplificazione non del tutto gradita agli studiosi.
È a questo tipo di produzione che possiamo accostare l’opera di Gaio Plinio Secondo, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio (per distinguerlo dal nipote Plinio il Giovane, anche lui scrittore), la Naturalis historia (“Storia naturale”) in 37 libri, conclusa nel 77-78. Plinio nasce nel 23 o 24 a Como, presta servizio nella cavalleria militare in Germania sotto il principato di Claudio e Nerone, ma, nutrendo una profonda avversione per quest’ultimo, si astiene dal frequentarne la corte. Solo sotto Vespasiano si avvicina alla cerchia dei fedelissimi dell’imperatore, pur non ricoprendo – pare – nessuna carica ufficiale tranne quella di prefetto della flotta stanziata in Campania.
Plinio, secondo il ritratto che ce ne lascia in una epistola il nipote, è animato per l’intero corso della vita da un interesse a tutto campo verso il sapere scientifico, a cui dedica gran parte delle proprie energie, fino a morire durante l’eruzione del Vesuvio, il 25 agosto del 79, vittima della volontà di conoscenza che lo ha condotto a spingersi in mare per osservare il fenomeno più da vicino. Di quell’interesse e di quelle energie è testimonianza proprio la Naturalis historia, frutto di un lavoro smisurato quanto minuzioso, quasi inconcepibile per le forze di un singolo. Plinio si propone di raccogliere in un’unica opera tutto il sapere scientifico ereditato dai Greci, organizzandolo in categorie, con un fine dichiaratamente pratico da lui stesso indicato nella lettera dedicatoria al futuro imperatore Tito: quello di essere utile al popolo romano. Di qui, dopo un libro intero dedicato agli indici, 36 libri che spaziano dalla cosmologia e la geografia terrestre ai regni animale e vegetale, dalla fisiologia dell’uomo ai rimedi naturali, fino ai metalli e alle pietre preziose. Lo scrittore ama i numeri, in cui vede brillare i risultati concreti di tanta fatica: parla di circa 20 mila fatti raccolti, della consultazione di circa 2000 volumi e di circa 100 autori. Lo stesso indice ragionato è opera sua ed è forse la prova più tangibile di quell’ebbrezza di catalogazione che sta alla base di un disegno tanto ambizioso. In realtà, la varietà degli argomenti che compongono la scienza naturale è refrattaria a farsi racchiudere in recinti troppo rigidi: così nella Naturalis historia gli argomenti si susseguono non obbedendo ovunque al principio generale di una rigorosa gerarchia, ma può capitare che dettagli insoliti attraggano l’interesse dell’autore fino a spostare il baricentro della narrazione al di fuori del solco del capitolo e alterando le proporzioni dell’insieme. Certo, la curiosità dei lettori è soddisfatta da una scrittura che tanto concede ai particolari: ma il limite di tale atteggiamento si rivela nel risultato complessivo di una divulgazione in cui troppo spesso la scientificità viene a patti con il terreno della credenza popolare e della magia. Così, tra i fenomeni atmosferici che fanno capo alla descrizione dell’universo, dopo “Tuoni e lampi”, “Cause dell’eco”, “Tifoni”, “Fulmini”, ecco che incontriamo “Piogge di latte, sangue, carne, ferro, lana e mattoni cotti”. E si potrebbe continuare. Questa singolare miscela di interesse scientifico e gusto per il particolare curioso molto ci dice delle tendenze culturali dell’epoca imperiale: da un lato, infatti, la classe dirigente romana avverte l’esigenza crescente di competenze tecnico-scientifiche specializzate, che possano costituire risposta alla complessità di un mondo sempre più vasto, e cerca di fornirne una sistematizzazione in inventari ed enciclopedie; dall’altro, il contatto costante e sempre più esteso con orizzonti culturali “altri” dal proprio alimenta il fascino per l’esotico e per il racconto di fatti sorprendenti di cui terre lontane sono l’insolito scenario. È questo carattere che ha fatto conoscere all’opera di Plinio fortune alterne: amata nel Medioevo, osteggiata dal razionalismo del Rinascimento, rappresenta oggi per noi un serbatoio di notizie interessantissime sull’approccio degli antichi alla fenomenologia della natura, indipendentemente dal valore che rivestono sul piano scientifico.
Diversamente che per la maggior parte degli scrittori latini, che ricordiamo come intellettuali “puri”, svincolati dalla necessità di guadagnarsi da vivere, la nostra immagine di Quintiliano è legata non solo all’opera che compone, l’Institutio oratoria (“La formazione dell’oratore”), ma anche alla professione che esercita, quella di insegnante. Marco Fabio Quintiliano è infatti il primo insegnante regolarmente pagato dallo stato ed è maestro di retorica, l’arte del comporre discorsi, che nell’ultimo secolo della repubblica ha visto fiorire il genio di Cicerone.
La decisione di istituzionalizzare una retribuzione per l’insegnamento (si dice per la cifra di ben 100 mila sesterzi l’anno) è dell’imperatore Vespasiano, nel 78: è il segno del prestigio che viene attribuito alla disciplina retorica come perno della formazione anche sotto l’impero, da un imperatore che vuole consegnare l’immagine di se stesso come quella di un buon servitore dello stato, attento al bene pubblico, e lontano dalla politica di spese e grandiose opere pubbliche che aveva caratterizzato il regno di Nerone. In questa inversione di tendenza rientra anche una diversa concezione della cultura: Vespasiano, che al contrario di Nerone non coltiva velleità artistiche (Nerone cantava e recitava), si astiene anche da qualsiasi ingerenza diretta nell’attività dei letterati, e cerca invece di potenziare il sostegno dello stato alle strutture pubbliche, le biblioteche, i riconoscimenti economici a letterati e artisti. Stipendiare gli insegnanti rientra in questa politica.
L’opera più importante di Quintiliano, l’Institutio oratoria in 12 libri, è frutto degli studi ma anche dell’esperienza “sul campo”: si tratta infatti di un compendio sistematico della teoria e della precettistica oratoria depositatasi nel tempo ad uso e consumo degli aspiranti oratori (i giovani aristocratici). Tuttavia, benché questo sia l’intento, noi moderni siamo spesso tentati di pensare al trattato quintilianeo come a un’opera di pedagogia: secondo un’idea di formazione “globale”, i primi due libri, infatti, si occupano dell’infanzia e della prima istruzione del futuro oratore e rappresentano una sorta di “trattato nel trattato”. Stupisce ancora oggi la “modernità” di alcuni dei principi cardine che guidano l’autore nella sua teoria educativa, tanto da farci guardare a Quintiliano quasi come a un anticipatore – ad esempio – dell’ormai storico metodo Montessori. Il rispetto per la delicata psicologia della crescita che anima le pagine dell’Institutio è in realtà figlio di un’altissima considerazione del ruolo della formazione culturale, quella stessa che permise all’autore di ricavarsi una motivazione profonda per il proprio compito, al di là dei limiti nei quali lo avrebbe confinato la realtà dell’impero. Il fil-rouge che percorre dall’interno tutta l’Institutio è infatti proprio il valore della cultura, insieme alla funzione della scuola come veicolo di una formazione che, sul grande modello del pensiero ciceroniano, si ponesse l’obiettivo di fare del cittadino essenzialmente un uomo morale.
Hominem pagina nostra sapit: la mia scrittura ha il sapore dell’uomo. Questo verso vale a sintetizzare la poetica e il contenuto dell’opera di Marziale, autore che inaugura, nella storia della cultura europea, l’immagine del poeta squattrinato, che pure non rinuncia all’orgoglio della propria dignità e irreprensibilità morale: se la sua scrittura giunge perfino all’oscenità, e comunque sempre si colora di un esasperato realismo, la sua vita resta – a suo dire – improntata ad una certa fierezza di comportamenti: lasciva est nobis pagina, vita proba dice in I, 4, 8.
Nasce nel 40 a Bilbilis, nella Spagna Tarragonese, e lì muore intorno al 104, l’autore di epigrammi forse più fecondo della letteratura latina: Marco Valerio Marziale. Il poeta si stabilisce a Roma intorno al 64, sotto il principato di Nerone, durante il quale entra in contatto con altri grandi personaggi della cerchia dell’imperatore, tra cui Seneca e Lucano. La repressione della cosiddetta congiura dei Pisoni lo costringe a cercare il sostegno di altri protettori, finché dopo la caduta di Nerone, nel 68, Marziale riesce a godere di un notevole successo sotto i Flavi, in particolare Tito e Domiziano, che gli concedono anche titoli onorifici e privilegi fiscali. L’opera del poeta pullula di espressioni di ossequio spesso scopertamente adulatorie nei confronti del potere imperiale, anche se, dopo la morte di Domiziano nel 96, Nerva e Traiano sembrano assai meno disposti a rivolgergli il proprio favore, ragion per cui Marziale decide di far ritorno nella sua città natale, dove compone l’ultimo libro della sua raccolta di epigrammi, il dodicesimo. L’attuale struttura della raccolta rispecchia solo in parte la successione secondo la quale i libri furono pubblicati: inizia infatti con il Liber de spectaculis, che è in effetti quello più antico, prosegue con i 12 libri di epigrammi e si conclude con gli Xenia e gli Apophoreta.
La grandiosa opera d’arte voluta da Vespasiano e conclusa sotto il regno di Tito (inaugurata nell’anno 80), che ancor oggi costituisce il maggior monumento-simbolo di Roma, il Colosseo, è al centro del libro che Marziale dedica agli spettacoli che lì si celebravano e che il poeta considera, in toni non poco adulatori, un segno tangibile della grandezza e del potere imperiale. Questa parte dell’opera costituisce per noi una preziosa fonte di conoscenza delle pratiche e degli usi, oltre che delle regole, dei giochi circensi.
Ma il nome di Marziale è certamente più legato alla produzione epigrammatica, che ha consacrato il poeta come scanzonato cantore di una umanità non di rado degradata, come dissacratore di quei valori “togati” che spesso si indossavano come una divisa piuttosto che come un sistema di convinzioni profonde e autenticamente vissute.
Lo sfondo su cui prendono forma le composizioni di Marziale è quello della città di Roma come teatro di quotidiana volgarità, in cui si muovono tipi umani quantomeno strani, quando non viziosi e depravati. È la stessa metropoli tumultuosa e fagocitante ad esasperare un’umanità che rischia di soffocare nelle sue proprie manie. Vengono descritte maschere di avari, ubriaconi, donne di malaffare, cacciatori di eredità, medici incapaci di fare il proprio mestiere. Questi personaggi si muovono in ambienti squallidi, in luoghi sovraffollati che sembrano contagiare con la loro mancanza di grazia, dando vita ad una amara comicità: come quella che traspare, ad esempio, dagli insistiti riferimenti alla condizione umiliante e faticosa del cliens, che il poeta vive in prima persona, angosciato da ristrettezze economiche e di fatto costretto a manifestazioni di servilismo. I versi di Marziale sono spesso animati da un’oscenità anche violenta, con la quale il poeta intende caratterizzare il proprio linguaggio all’insegna del realismo e fotografare in modo impietoso gli aspetti più degradati del suo mondo. Questa scelta non può che attirargli, del resto, gli strali dei severi moralisti, ai quali il poeta sa rispondere con abile arte del rovesciamento e del paradosso: come in I, 35, dove giustifica in modo scherzoso la propria scelta di scrivere epigrammi lascivi proprio infarcendo il testo di quelle stesse oscenità che gli venivano rimproverate. Marziale è anche però il cantore di temi più seri e talora dolenti: l’amicizia e il tradimento dei legami, e più in generale la sfera dei sentimenti, l’amore inteso come impulso del desiderio sessuale, il dolore per la morte di persone care. Sono suoi, tra l’altro, gli epigrammi più struggenti della poesia sepolcrale latina, soprattutto per la morte di bambini.
Il tema dei doni occupa un posto significativo all’interno della raccolta epigrammatica di Marziale, che conta circa 1500 componimenti. In particolare, nelle sezioni dal titolo Xenia (doni ospitali) e Apophoreta (doni da portare via), che costituiscono – come si è detto – i libri posti in chiusura delle edizioni moderne del corpus poetico, viene sviluppata la descrizione della festa in cui lo scambio dei regali era istituzionalizzato: i Saturnali, celebrati in quelli che oggi sono per noi i giorni delle festività di fine anno. Questa ricorrenza costituiva l’occasione per lo scambio di piccoli regali, utile a riaffermare i vincoli delle proprie relazioni sociali, a definire la sfera di influenza nei confronti di amici e conoscenti. Marziale è in assoluto il primo che concepisce la possibilità di definire “dono ospitale” (xenion) non un oggetto ma un componimento poetico: lo seguirono perfino Johann Wolfgang Goethe e Friedrich Schiller alla fine del Settecento e, circa centocinquant’anni dopo di loro, Eugenio Montale, che intitola Xenia una sezione della raccolta Satura, del 1971, dedicandola alla moglie Drusilla Tanzi, detta Mosca, ospite che si è irrimediabilmente congedata dalla vita.
Sotto gli imperatori flavi, nella seconda metà del I secolo, la poesia epica conosce una eccezionale fioritura, legata ai nomi di Stazio, Silio Italico e Valerio Flacco. Rispetto all’epos assai politicizzato di Virgilio e soprattutto di Lucano, i nuovi poeti si rifugiano piuttosto nei territori sicuri del mito (la saga degli Argonauti, quella dei Sette contro Tebe) oppure prendono ad oggetto eventi remoti della storia romana come la guerra contro Annibale, consegnati ormai senza rischi ad una memoria condivisa. È il polifonico canto del cigno di un genere che aveva dominato, da Omero in poi, le letterature antiche e che dopo questa felice stagione cade invece in un secolare oblio.
Publio Papinio Stazio nasce e muore a Napoli, approssimativamente verso il 50 e verso il 96, ma trascorre gran parte della vita a Roma, dove suo padre è forse precettore del giovane Domiziano; accanto a opere minori perdute, ci sono giunti di lui cinque libri di Silvae – il nome, letteralmente “Foreste”, allude alla ricchezza e molteplicità della materia –, perlopiù carmi d’occasione che celebrano ricorrenze, feste, oggetti d’arte, terme, ville; l’Achilleide, un poema epico incompiuto che tratta della vita di Achille nell’isola di Sciro, dove la madre Teti ha nascosto il futuro eroe per sottrarlo alla guerra di Troia; infine la Tebaide, il poema al quale Stazio intendeva affidare la propria fama. La composizione dell’opera si protrae per tutti gli anni Ottanta e il poema vede verosimilmente la luce nel 91.
La materia prescelta da Stazio ha alle spalle una lunghissima tradizione letteraria, che si era espressa perlopiù in opere teatrali: all’indomani della caduta di Edipo, i suoi figli dovrebbero alternarsi al governo di Tebe, ma Eteocle rifiuta di cedere il potere al fratello Polinice; questi si reca allora ad Argo, stringe alleanza con il re Adrasto e marcia insieme a lui e ad altri eroi alla guida di un esercito che assedia Tebe. Alla fine i due nemici si affrontano in uno scontro fratricida che condurrà entrambi alla morte. A questo canovaccio Stazio aggiunge un epilogo altrettanto sanguinoso: il nuovo re Creonte impedisce la sepoltura dei cadaveri e condanna a morte Antigone e Argia, sorella e vedova di Polinice; solo l’intervento dell’eroe ateniese Teseo, che sconfigge in duello Creonte, riporta finalmente la pace.
In Stazio è evidente la ripresa di tutti i cliché del genere epico, dall’invocazione alla Musa al catalogo degli eroi al concilio degli dèi e così via, e l’omaggio a Virgilio, esplicito non solo nella scelta del numero dei libri – dodici come quelli dell’Eneide – ma anche nell’organizzazione della materia, che vede la battaglia tra i figli di Edipo confinata negli ultimi sei canti del poema. Tuttavia, alla Tebaide sembra mancare una chiara struttura compositiva: il poema nasce da un affastellarsi di episodi, digressioni, discorsi che ritardano l’azione senza davvero riempirla; manca inoltre una figura dominante paragonabile a quella di Enea in Virgilio. Grande rilievo hanno semmai le figure femminili: in un mondo segnato dal sangue, dalla guerra, dall’odio tra fratelli, figure come Antigone o Argia sono le uniche a gettare una luce positiva sul teatro sanguinoso della storia. Del tutto assenti, infine, i riferimenti alla realtà politica coeva largamente presenti in Virgilio e Lucano: che Teseo, nell’ultimo canto della Tebaide, alluda a Domiziano è ipotesi tutt’altro che certa, in ogni caso la presenza dell’eroe ateniese rimane marginale e posticcia.
Anche le Argonautiche di Valerio Flacco, che forse precedono la Tebaide, riprendono un tema di remota tradizione letteraria: il mito della nave Argo e degli eroi che sotto la guida di Giasone si recano nella Colchide a recuperare il vello d’oro e riescono nell’impresa grazie all’aiuto determinante di Medea, la figlia del re dei Colchi innamoratasi perdutamente di Giasone. Dell’autore non sappiamo praticamente nulla: muore certamente all’inizio degli anni Novanta, forse prima di aver portato a termine la sua opera, che si interrompe a metà dell’ottavo libro. I primi quattro canti sono dedicati al viaggio degli Argonauti; con il quinto avviene lo sbarco nella Colchide e il primo incontro con Medea; il sesto libro ha come tema centrale l’innamoramento di Medea, il settimo gli scontri sostenuti da Giasone per entrare in possesso del vello e la vittoria finale resa possibile dal contributo della potente maga; infine l’ottavo libro racconta della fuga degli Argonauti e dei Colchi lanciati al loro inseguimento.
Valerio conosce a fondo la letteratura precedente sul mito di Giasone e Medea; un ruolo privilegiato tra i modelli hanno naturalmente le Argonautiche del poeta ellenistico Apollonio Rodio, ma Valerio se ne discosta in alcuni aspetti decisivi, ad esempio conferendo a Giasone un ruolo più nettamente protagonistico e una statura guerriera più spiccata rispetto a quanto accadeva nel poema greco. In Valerio diventa inoltre predominante la componente emotiva e patetica: le vicende concrete non sono solo accompagnate dai sentimenti dei personaggi che le vivono, ma ne sono spesso soppiantate. Questo spiega anche la grande rilevanza attribuita a Medea e al suo innamoramento, descritto secondo i moduli della poesia elegiaca – quasi un paradosso, se si considera che gli elegiaci avvertivano la propria ispirazione come antitetica a quella della poesia epica.
Il più lungo poema epico latino giunto sino a noi, e insieme il più grigio, è costituito dai Punica di Silio Italico. L’autore era stato avvocato in gioventù, poi uomo politico non senza macchie sulla carriera – pare facesse il delatore per conto di Nerone –, infine si era ritirato a Napoli, dove a partire dall’80 circa avvia la composizione del poema, pubblicato verso la fine del secolo.
Silio tratta della seconda guerra punica, combattuta tra Romani e Cartaginesi sullo scorcio del III secolo a.C. La materia è distribuita nei 17 canti dei Punica in misura fortemente disuguale: dieci libri sono consacrati alle premesse e ai primi due anni di guerra, mentre i successivi 15 anni sono sbrigati negli ultimi sette libri, che vedono la progressiva ascesa di Scipione Africano, vincitore finale dei Cartaginesi.
Modello assoluto dei Punica è Virgilio, per il quale Silio nutre una vera e propria venerazione e dal quale riprende motivi cruciali come la contrapposizione fra Giunone e Venere o la discesa agli inferi di Scipione, modellata su quella di Enea; di matrice virgiliana è anche la profezia attualizzante di Giove, che nell’Eneide vaticinava l’avvento al potere di Augusto, qui quello di Domiziano. L’apologia del presente non cancella peraltro il rimpianto per l’eroico passato della città, né Silio si preoccupa di attenuare la contraddizione: l’atteggiamento nostalgico e sognante verso un passato eroicizzato, che si tinge di mito, è forse la vera cifra unificante di un poema epico che non ne ha altre.
Gaio Plinio Cecilio Secondo nasce a Como nel 61 o nel 62. La sua adolescenza è segnata da un trauma: nell’eruzione del Vesuvio del 79, che seppellisce Pompei e altri centri della costa campana, perde lo zio materno e padre adottivo Plinio il Vecchio, spintosi incautamente sul cratere per osservare da vicino l’eruzione.
L’ottima estrazione sociale e l’accurata formazione culturale spianano a Plinio la via per l’attività forense, coltivata in parallelo con la carriera politica: è oratore apprezzato; ricopre cariche sacerdotali; è console nel 100, e in quella occasione dedica un ampio discorso di ringraziamento all’imperatore Traiano, quindi, nel 111-112, governatore della Bitinia. Dopo questa data si perdono le sue tracce. Il suo nutrito epistolario in nove libri, pubblicato per espressa volontà dell’autore, consegna al lettore il quadro di un uomo che passa la sua vita tra gli appuntamenti mondani e letterari della capitale, che scrive all’imperatore lettere di raccomandazione per questo o quel conoscente, che si muove tra l’una e l’altra delle sue ville o descrive i luoghi, invariabilmente ameni, che ha visto e nei quali magari progetta di realizzare nuove costruzioni. È persuaso di essere un oratore inarrivabile e cita senza vergogna i complimenti che la sua eloquenza gli procura; è felicemente convinto di aver sposato la migliore delle donne, e ne trae conferma dal fatto che la moglie tesse a sua volta le lodi delle capacità intellettuali del marito.
Come molti privilegiati del suo tempo, Plinio si preoccupa però di destinare almeno una quota delle sue immense ricchezze ad usi in senso lato sociali: tra l’altro, provvede a fornire Como di una biblioteca pubblica, stanziando a questo scopo un milione di sesterzi, cui si aggiunge una donazione annuale di 100 mila sesterzi per il funzionamento della struttura e l’ampliamento del catalogo. È un esempio di evergetismo, un tratto tipico delle élite greco-romane e insieme un aspetto importante di un’etica civica che privilegia non tanto i gesti in favore di singole persone svantaggiate, ma la destinazione pubblica e collettiva di una parte delle proprie sostanze.
Infine, come funzionario imperiale Plinio è persona proba e scrupolosa: il decimo libro dell’epistolario contiene le lettere scambiate con Traiano durante il governo provinciale in Bitinia e le risposte fornite dall’imperatore ai quesiti posti dal solerte governatore, e ci offre un quadro di prima mano del carteggio tra un amministratore e il suo principe. In una di queste lettere fanno la loro comparsa anche i cristiani: Plinio chiede istruzioni su come regolarsi nei loro confronti, Traiano lo invita a non procedere d’ufficio contro di loro, ma ad accertare la loro lealtà ai poteri costituiti nel caso vengano denunciati. Un’indicazione non priva di contraddizioni, sulla quale ironizzeranno a lungo i primi polemisti cristiani.
Il Panegirico è il discorso indirizzato da Plinio a Traiano in occasione della nomina a console supplente per l’anno 100. In età imperiale la designazione dei supremi magistrati è ormai prerogativa del principe, e serve tra l’altro a premiare i funzionari più fedeli; da qui la consuetudine di rendere grazie per il beneficio ricevuto attraverso un pubblico discorso di ringraziamento.
Il testo pliniano è soprattutto una fonte preziosa per conoscere il punto di vista di un senatore sulla prassi di governo di Traiano, il generale spagnolo assurto nel 98 al trono imperiale e impegnato sin da subito ad avviare una politica di collaborazione fra principe e senato. In tutto il suo discorso, Plinio si sforza di tracciare il quadro di un principe “civile”: la monarchia è necessaria al governo del mondo, ma Traiano non è né un padrone né un tiranno, tanto meno un dio (con chiara allusione ai titoli che invece Domiziano, principe dall’81 al 96, aveva preteso per sé), piuttosto un padre, un magistrato che governa nel rispetto delle leggi, nell’ossequio verso il senato, nella costante ricerca del consenso da parte dei cittadini, consenso che costituisce la garanzia più sicura della sua incolumità.
Nel quadro un po’ mieloso tracciato da Plinio un dettaglio colpisce, una frase lasciata cadere quasi per caso ma non per questo meno significativa: “poiché ci ordini di essere liberi”, afferma il panegirista, esprimendosi a nome di tutto il senato, “noi lo saremo”. È una frase apparentemente paradossale: la libertà, che dovrebbe identificarsi con l’assenza di costrizioni, nasce in realtà dall’obbedienza ad un comando del principe. Di fatto, è il realistico riconoscimento che la considerazione di cui gode il senato è pur sempre frutto di una scelta del principe, costituisce in ogni caso l’espressione della sua volontà sovrana.
Pochissime sono le notizie biografiche degne di fede su Decimo Giunio Giovenale, di cui sappiamo il luogo e la data di nascita: Aquino, 60. Possiamo invece ipotizzare il 127 come terminus post quem della morte, visto che il poeta fa riferimento nella sua opera ad alcuni avvenimenti che si verificano in quell’anno. Amico di Marziale, di cui condivide la sorte di poeta-cliens, in cerca di protezione da parte dei potenti, Giovenale riconosce nel sentimento dell’indignazione la singolare Musa ispiratrice della propria opera: opera che rientra nel genere della satira, e della quale ci restano 16 componimenti suddivisi in cinque libri.
Proprio nella prima di queste satire (I, 79 ss.) l’autore esprime la sua dichiarazione di poetica: si natura negat, facit indignatio versum, qualemcumque potest (“se non lo consente il mio talento, sarà l’indignazione a scrivere versi, per come può”). In effetti l’arte di Giovenale è affidata ad un sentimento di ira nei confronti della realtà contemporanea, non solo storica ma anche culturale e letteraria. Scegliere il genere in cui si erano distinti Lucilio e Orazio significa per lui, che pure molto si discosta da quei modelli, contrapporsi ai modi al suo tempo più diffusi del fare letteratura: i modi della pratica retorica che trattava temi altisonanti ma del tutto sganciati dalla vita quotidiana. Per Giovenale non è possibile scrivere (e segnatamente, scrivere satire) senza immergersi nella realtà del proprio tempo, dove i soldi sono al primo posto nella scala dei valori, dove la corruzione è considerata un inevitabile presupposto per il successo, la spregiudicatezza è premiata e il rigore intellettuale e morale sono considerati spazzatura.
Di fronte a questo vero e proprio degrado culturale Giovenale non indica però positive ricette di rifondazione morale, ma si limita a contrapporre la bassezza del presente alla purezza di una mitica età dell’oro, in cui la terra era governata da pudicitia e dal rispetto della fides. Nella critica feroce e implacabile alla mentalità del presente rientrano gli attacchi contro le donne, colpevoli di un totale rovesciamento del modello della moglie univira e dedita esclusivamente alla custodia dello spazio domestico.
Il modello culturale romano dell’età arcaica funziona, nell’opera di Giovenale, come gabbia che impedisce di considerare con occhio equilibrato la presenza, nella città di Roma, di una “saggezza straniera” potenzialmente fonte di ricchezza e non di degrado. Se Roma è diventata una vetrina del malcostume, ciò si deve alla contaminazione con ogni sorta di alterità: la città non aveva in sé le radici del proprio male, ma è stata aggredita da agenti esterni. Si delinea così una concezione dell’”altro” come agente patogeno: Greci, orientali e soprattutto Giudei sono alle origini del male che ha aggredito l’organismo altrimenti sano della società. Una società dai contorni marcati e ben visibili, che non intende il linguaggio della trasformazione.