CASTIGLIONCHIO, Lapo da, detto il Giovane
Nacque da Averardo, ultimogenito di Lapo il Vecchio, e da Maria Ardinghi verso il 1406, probabilmente a Firenze.
La data di nascita si ricava, contro la comune attribuzione al 1405, dalle recate catastali del padre che, rispettivamente nel 1427, 1431, 1433, gli attribuisce ventuno, ventiquattro e ventisei anni (Arch. di Stato di Firenze, Catasto 72, c. 6v; 356, c. 98r; 450, c.92r); tuttavia nell'abbozzo di un'iscrizione funebre, nel frontespizio del codice Magliab. XXIII, 126, il C. è detto morto nell'ottobre 1438 "d'età d'anni XXXIII". Va inoltre notato che Ginevra Cavalcanti, data dal Luiso come madre del C., ne fu invece la matrigna, da cui nacquero i fratellastri Francesco e Alberto.
Discendenti dall'antica nobiltà feudale dei signori di Quona, in Valdisieve, i Castiglionchio si erano inurbati e fatti popolani e guelfi, ma non avevano dimenticato le tradizioni e i costumi nobiliari. celebrati appunto da Lapo seniore nella nota Epistola indirizzata al figlio Bernardo. Nel corso del tumulto dei Ciompi gli fu arso il palazzo e decretato il bando; né da allora le sorti del casato, pur riammesso a Firenze, poterono risollevarsi. Si trattava in realtà, oltre le circostanze politiche, di un fenomeno di inadattabilità sociale, dell'incapacità di inserirsi in attività tali da sostenere l'antico prestigio. Ciò è bene espresso nell'epistola responsiva indirizzata da Bernardo al padre (ibid., pp. 133ss.), significativa per la consapevolezza della decadenza, coesistente con l'immutato orgoglio nobiliare, che vieta di esercitare "arti né vili né oneste",e di cui egli ritiene di potersi ancora legittimamente fregiare. Non dissimile appare la situazione nelle recate catastali di Averardo, dove una rendita ancora discreta (1340fiorini, secondo il calcolo di D. Herlihy) appare tuttavia minata dagli indebitamenti, dalle tenute improduttive, e soprattutto, dall'assenza di un'attività proficua.
Dello status familiare risentì sensibilmente il giovane Castiglionchio. Egli, infatti, presto attratto dagli studi umanistici, in ciò confortato vuoi dalle tradizioni domestiche vuoi dalla consuetudine, fra gli altri, del vecchio cancelliere Bartolomeo - o Benedetto - Fortini (come il C. ricorda in una lettera al medesimo, Bologna, 26 genn. 1437: Luiso, p. 237; Rotondi, p. 182), li aveva coltivati in privato, disdegnando una carriera accademica ("abeo ministerio servili quidem et quaestuoso plurimum abhorret animus": lettera al compagno di studi Antonio Tornabuoni, Bologna, 23 nov. 1436: Rotondi, p. 163; e lettera a L. Bruni, 23 sett. 1436: Luiso, p. 235; Rotondi, p. 140). Le lettere furono tuttavia forzatamente alternate con certi "negotia",cui egli allude nella dedicatoria a Leon Battista Alberti delle versioni di Luciano, De sacrificiis e De tyranno (Bandini, col. 362; Rotondi, p. 311). L'antica consuetudine coll'Alberti, che è testimoniata nella dedica suddetta, fa inoltre pensare a prolungati soggiorni del C. a Bologna, dove verosimilmente si trovava nel 1427, quando risulta assente da casa (Catasto, 72, c. 6v).
Si può pertanto presumere che si trattasse di impiego presso una compagnia bancaria, forse di parenti, un cui ramo si era stabilito a Bologna, ovvero degli Alberti stessi, presso cui vedremo impiegato il fratello Francesco (lettera a P. Colonna, Firenze,4 maggio 1436: Luiso, p. 216; Rotondi, p. 58). Fu probabilmente qui che, non senza influenza dell'amico Leon Battista, si applicò a una disciplina più metodica di studio (in tal senso si intenderà l'affermazione, nel proemio a G. Correr della Comparatio inter rem militarem et studia litterarum, Rotondi, p. 401, secondo cui "latinas litteras sero admodum didici et graecas natu iam grandior",e forse incontrò F. Filelfo, condotto nel 1428 allo Studio. Del Filelfo, venuto l'anno successivo a Firenze, egli divenne "auditor et familiaris" (lettera di questo a L. Bruni, Siena, 11 apr. 1436, Epistolae, p. 90, I. II, 26), perfezionandosi particolarmente nel greco. A tale scuola, come confessa in una lettera ad Angelo da Recanati (Firenze, 16 giugno 1436: Luiso, p. 226; Rotondi. p. 82), egli maturò l'ambizione di essere annoverato "inter homines clarissimos virosque doctissimos" (significativa appare l'amicizia contratta verso il 1434 con L. Valla, che per lettera a F. Patrizi, Bologna, 1° sett. 1436 - Rotondi, p. 114 - egli raccomanda come "summa mecum amicitia usu ac familiaritate coniunctissimus"); e, come ancora si confidò a L. Bruni (per lettera del 23 sett. 1436), "tentare institui et ad eum quem ipse mihi institueram cursum incumbere". Ma, secondo il proemio al Correr, la sua vita fu quindi sconvolta "propter gravissimos nostrae civitatis casus et ob multa et varia domesticae rei incommoda"; ché, come è precisato nella dedica all'Alberti, "etsi non invite, non tamen libenter coniecimus nos in gravissimum certamen ac discrimen". Nonc'è dubbio che il C. si riferisca all'ascesa al potere di Cosimo de' Medici (ottobre 1434), e alla susseguente rovina della famiglia, probabilmente perché legata d'antica attinenza con gli Albizzi, eredi del possesso di Quona (Epistola di Lapo seniore, p. 31). Egli stesso afferma di essersi ridotto a povertà per i rivolgimenti cittadini (lettera a A. da Recanati, 16 giugno 1436): ciò che trova riscontro nelle successive recate di Averardo, dove l'imponibile appare decimato fino alla somma di 126 fiorini, e compare una lunga serie di "beni alienati 1427 in qua", evidentemente sotto la pressione fiscale (Catasto 617 [1442], cc. 3r-7r; 663 [1446], cc. 3r-5r). Pur non direttamente colpito da persecuzione, la situazione in Firenze era divenuta per lui precaria e, a suo dire, non priva di rischio (lettera a A. de Recanati, Firenze, 24 giugno 1436: Luiso, p. 229; Rotondi, p. 91); né contraddice la dedica a Cosimo della versione della Themistoclis vita di Plutarco (1435 c.: Bibliotheca Smithiana, pp. 327 ss.; Rotondi, pp. 290 ss.): nel dibattere del potere della fortuna e della virtù, il C. esprime disillusione verso la vita civile ed esorta il Medici a usare moderatamente del successo. E ancora a Ferrara con la Curia egli rifiutò di incontrarlo (lettera a G. Bacci, 14 marzo 1438: Rotondi, p. 275). Gli "studia humanitatis",già abbracciati come professione di vita, acquistarono così ai suoi occhi il senso di un valore sostitutivo della condizione civile, e quindi della libertà perduta, "ut mihi omnis nostra salus, omnis libertas, omnis quies animi... in illis contineri videatur" (proemio a G. Correr: Rotondi, p. 401).
La decadenza di una famiglia e dei relativi ideali nobiliari e l'affermarsi contestuale di una vocazione umanistica costituiscono l'argomento del primo scritto originale del C., la lunga epistola a un Simone di Simone di Boccaccino Lamberti, posta a capo alla propria silloge epistolare (1434 circa; A. Traversari, Latinae epistolae, II, coll. 1076-1091; Rotondi, pp. 1-37). Era questi tra gli ultimi discendenti, "quasi cygni vocem",di casato d'antichissima nobiltà, di poco maggiore del C. (era del 1402), che, dedicatosi alla carriera delle armi, l'aveva abbandonata per dedicarsi interamente alle lettere, e che quindi, come informa un poscritto, era morto prematuramente. Lo scritto si dilunga in una condanna della "militia" del tempo, "nunc... funditus deleta",dove apparivano estinti gli antichi ideali cavallereschi. Non si tratta tuttavia di rimpianto delle tradizioni feudali del Medioevo, bensì del riscontro col modello antico, sulla falsariga soprattutto di L. Bruni (De militia; Praefatio in vita Sertorii); mentre, a contrasto, era esaltata la recente rinascita dell'eloquenza antica (sono fatti i nomi di Guarino, F. Barbaro, L. Giustinian, dei "fiorentini" N. Niccoli, G. Aurispa, A. Traversari, C. Marsuppini, ma particolarmente dei "tria illa lumina latinae linguae",Poggio, Filelfo, e, al di sopra di tutti, L. Bruni: Rotondi, p. 6), a cui Simone si apprestava a recare il proprio contributo. Si intende che gli "studia" vengono concepiti in senso rigorosamente secolare: tale è il senso del patrocinio che il C. si assume dell'amico, contro l'opinione di coloro, "hostium bonorum omnium",che ne avevano biasimato la scelta (ibid., p. 15), alludendo ai difensori della tradizione cristiana contro Pindirizzo secolarizzante degli umanisti. Di qui sarebbero derivate ricchezze oneste, amicizie, riconoscimenti e onori amplissimi; ma soprattutto, superando il riserbo proprio a taluni, e cimentandosi con opere proprie, avrebbe conseguito la gloria, unica garanzia di durata nella corruttibilità della specie umana (ibid., p. 35). Siffatte espressioni, confermate nella dedica all'Alberti (p. 313), non lasciano dubbi che per il C. la vocazione umanistica avesse fatto tutt'uno col ripudio così delle tradizioni familiari e civili, come della stessa fede religiosa. I medesimi temi sono riproposti e rincarati (sia pur con maggior cautela sul fatto dell'immortalità), nella Comparatio inter rem militarem et studia litterarum (Rotondi, pp. 400-451), che per questo deve essere giudicata altrimenti che non un semplice "luogo comune degli umanisti" (Luiso, p. 209). In realtà la diatriba comune, che rifletteva il conflitto di preminenza dei due più prestigiosi ordini sociali, era quella tra "militia" e "iurisprudentia",e che era stata fra l'altro sostenuta a suo tempo, naturalmente in favore del diritto, da Lapo seniore (Epistola di Bernardo da Castiglionchio, p. 141). Il luogo dell'avvocato, conformemente a uno spunto del Bruni (Ep., VI, 6), che aveva anteposto le "humanae litterae" allo studio della giurisprudenza, viene ora occupato dal letterato, depositario di ciò che il C. definisce "hoc maximum et absolutissimum, vel potius solum bonum" (Rotondi, p. 450); e a una più radicale svalutazione della "militia",soggetta ai soli istinti di rapina e conquista (è interessante l'affermazione che fin da principio essa fu praticata da mercenari, "quorum ars aucta et inveterata res militaris appellata est": ibid., p. 410), e con essa delle illusioni di coloro, "qui civilem vitam vivunt" (ibid., p. 432), fa riscontro la celebrazione dei piaceri e vantaggi che si potevano attendere dall'esercizio delle lettere. In tal senso l'opuscolo s'iscrive tra le prime opere in cui, pur sotto forma di generalità, è rivendicato il prestigio anche sociale dell'"eruditus",e in questo si apparenta, e forse in qualche misura dipende, al De commodis litterarum atque incommodis dell'Alberti (1428), a cui si accomuna anche per l'impostazione a un tempo stoicheggiante e utilitaristica.
Verso la prima metà del 1435 il C. dovette seguire il Filelfo a Siena, dove si legò d'amicizia con la cerchia dei suoi uditori, principale fra i quali Francesco Patrizi, con cui rimase in rapporti di corrispondenza e scambio di manoscritti greci (in lettera al medesimo, Firenze, 8 maggio 1436, ricorda le amicizie strette "cum affui": Luiso, p. 221; Rotondi, p. 63). In tale cerchia era un Gaspare da Recanati (lettera al medesimo, Bologna, 28 genn. 1437: Luiso, p. 238; Rotondi, p. 184), e fu probabilmente per tal via che il C. si legò ai suoi familiari Angelo, allora segretario del cardinale G. Casanova, e lo zio di questo, Giovanni Morroni da Rieti, chierico della Camera apostolica (sulla parentela, v. la lettera ad Angelo 24 giugno, e quella a G. da Rieti, stessa data: Luiso, p. 230; Rotondi, p. 93; circa la consuetudine con Tommaso, nipote del Morroni, vedi la disapprovazione del Filelfo, per lettera al C., 9 sett. 1436: Rosmini, I, p. 131). Grazie a tali amicizie, il C. mirò ad accreditarsi nella Curia papale, allora riparata a Firenze; e verso l'estate 1435 su istanza di A. da Recanati venne anch'egli assunto ai servizi del Casanova (lettera ad Angelo del 16 giugno).
Di tale impiego resta la testimonianza di alcune epistole, scritte a nome del cardinale, che era confessore di Alfonso d'Aragona, al sovrani di Aragona, Castiglia e Portogallo per condolenza della prigionia del re dopo la battaglia di Ponza (5 ag. 1435), e quindi al duca di Milano, per celebrarne la liberazione (dicembre 1435: Luiso, pp. 215 s.; Rotondi, pp. 44 ss.). Secondo l'uso di Curia, il servizio presso questo o quel dignitario era la via per poi ottenere un ufficio qualificato; e il C. appunto mirò a conciliarsi il Casanova onde accreditarsi presso il papa, al quale fece pervenire nell'occasione le versioni del De fletu e De somnio di Luciano ("XVI kal. octobris 1435"), e quindi della Solonis vita di Plutarco (lettera al Casanova, s.d., ma settembre 1435, e non 1434, come Luiso, p. 211), attendendosi come ricompensa un impiego (lettera a Eugenio IV, stessa data: Luiso, pp. 213 s.; Rotondi, p. 40).
Morto il Casanova il 1° marzo 1436, il C. entrò nella famigliarità di Prospero Colonna, ancora adoperato in mansioni generiche; e per lui attese alla versione delle Vite plutarchiane di Teseo e Romolo (dedica in Luiso, pp. 268 ss.; Rotondi, pp. 336 ss.). Ma portatosi il cardinale a Bologna al seguito del papa, il 3 aprile, il C. fu lasciato inopinatamente a Firenze.
Per lettera a G. Correr, 4 maggio (Luiso, p. 219; Rotondi, p. 59), egli attribuì la disgrazia "malivoli alicuius hominis calumniis",sfogandosi con insofferenza contro l'ambiente - alludeva certamente agli ecclesiastici - dove si era trovato a vivere. Di fatto, sul modello degli umanisti affermati, aveva pensato alla carriera curiale come al più alto riconoscimento letterario, dove "mihi ultro honores et praemia delatum iri" (lettera a A. de Recanati del 16 giugno); mentre ora dalla delusione traeva considerazioni di generale pessimismo, nel paragone tra la "disciplinam ac religionem" degli antichi e dei moderni, nonché nel diverso pregio in cui i "principi" tenevano la cultura (lettera a L. Bruni, 23 sett. 1436: Rotondi, p. 143). Viceversa non par dubbio che una così ingenuamente manifesta professione di umanesimo avesse destato sospetto negli ambienti curiali ed ecclesiastici. Rispondendo alle lamentele del C., il Correr, personalità vicina al papa, lo ammonì di non accusare la mala fortuna, "quippe quae nihil sit" (lettera al C., Bologna, 1º luglio: Rotondi, p. 98), ritenendo cioè che il suo stesso nome "christianis hominibus etiam commemorare nefas esse" (lettera di replica al Correr, Firenze,7 luglio: Rotondi, p. 103). Ancora secondo la replica suddetta, il C. sarebbe stato addirittura minacciato d'inquisizione ("bis iam ab iis in discrimen capitis et fortunae coniectus sum": ibid., pp. 102 s.), sì che, come a discolpa, si premurava di profferire una sorta di professione di fede in Dio creatore: se al contrario si era riferito alla "fortuna",aveva seguito il modo degli antichi filosofi e poeti, che pur non ignorando Dio, principio e causa di tutto, "fortunae tamen nomen... multis in locis ascripserunt" (ibid., p. 104). Significativa appare anche l'ironia del Correr circa le accuse ai "calunniatori",su cui il C. avrebbe meglio giudicato, in quanto traduttore della Calumnia di Luciano. Egli si riferiva particolarmente alla dedica relativa a Giovanni da Rieti, dove era sviluppato il tema delle insidie curiali, che questi l'avrebbe ammaestrato a schivare (Luiso, pp. 283 ss.; Rotondi, pp. 332 ss.), così inserendosi nella pubblicistica inaugurata da Poggio col Contra delatores, vale a dire gli scritti di autodifesa degli umanisti contro le censure disciplinari ecclesiastiche.
In tale ordine d'interesse sono notevoli le dediche a G. Vitelleschi, segnatamente della Periclis vita di Plutarco, in occasione della nomina ad arcivescovo di Firenze (ottobre 1435), dove lo difende da accuse di ipocriti, che, non solo insofferenti di ogni "laborem et industriam" altrui, ma incapaci "ne lucem quidem intueri",vorrebbero negare "religioso homini militare munus" (Bibl. Smithiana, pp. 329 ss.; Rotondi, pp. 313 ss.); e di Giuseppe Flavio, De mortibus Macabeorum [Bellum iudaicum], dove esalta il naturale impulso alla virtù e alla gloria contro i principî di una "inertem et desidiosam vitam",e contrappone gli eroi di Giuseppe ai cristiani degeneri (Luiso, pp. 291 s.; Rotondi, pp. 359 ss.). Va infine segnalata la corrispondenza con P. C. Decembrio, in cui invoca la solidarietà del ristretto numero degli "eruditorum" (lettera del 28maggio 1437:Luiso, p. 253; Rotondi, p. 238);e contrappone il privilegio del segretario ducale, "ut in otio et in negotio versari honeste et cum dignitate possis",alla propria sorte, costretto a vivere tra ecclesiastici, corrivi, a ogni vizio (lettera del dicembre 1437: Luiso, pp. 255 s.; Rotondi, pp. 250 ss.).Dopo aver sperato di succedere al Filelfo nello Studio di Siena (lettera a A. da Recanati del 16 giugno), e tentato di accreditarsi presso Alfonso d'Aragona mediante l'omaggio della Fabii Maximi vita (lettera ad A. Beccadelli, 30 maggio: Luiso, p. 222; Rotondi, p. 69; e anche la dedica al medesimo di Nicocles e Ad Nicoclem di Isocrate, su cui Carlini, Appunti, p. 306), in luglio, su invito di A. da Recanati, lo raggiunse a Bologna come suo ospite (lettere di Angelo al C. da Bologna, 20 giugno; del C. al medesimo, da Firenze, 7 luglio: Rotondi, p. 106). Ma in settembre, ancora senza una destinazione, ricercava impiego fin presso il cardinale Cesarini a Basilea (lettera al medesimo, in nome di "una "societas" non menzionata, Bologna, 11 settembre; Rotondi, p. 12); e, d'altra parte, si rivolgeva per incoraggiamento e sostegno a L. Bruni (lettera del 23 settembre). Quindi, grazie anche all'intercessione, richiesta e ottenuta, di F. Barbaro presso il nipote Ermolao (lettera al Barbaro, 15 settembre: Rotondi, p. 157; di F. a E. Barbaro, 15 ottobre: Sabbadini, Centotrenta lettere, p. 82), entrò nella famigliarità del potente L. Trevisan, cubiculario apostolico e vescovo di Traù, che gli ottenne la condotta per le letture di retorica e filosofia morale allo Studio di Bologna (lettera al Trevisan, 19 novembre: Rotondi, p. 157). Il 1º novembre egli tenne un'eloquente prolusione, svolgendo i temi prediletti "de studiorum commodis et utilitatibus",e celebrando il merito disconosciuto degli "studiosi homines",nonché l'opportunità unica che si offriva loro nella Curia romana, "omnium gentium et nationum theatrum" (Müllner, Reden und Briefe, pp. 129-139; una seconda prolusione, De laudibus philosophiae, ibid., pp. 139-142). Ma una malattia lo costrinse a rinunciare all'insegnamento non ancora incominciato (lettera al Trevisan del 19 novembre e a F. Patrizi del 3 dicembre: Rotondi, p. 169).
Poco dopo, ancora per opera di A. da Recanati, fu accolto presso il conterraneo di questi, Iacopo Venier, chierico di camera,come precettore dei nipoti, e, in seguito alla sua partenza per la legazione di Avignone, come amministratore della casa (lettere a Gaspare da Recanati del 28 genn. 1437, e a I. Venier del 19 marzo: Luiso, p. 240; Rotondi, p. 192). Ma entrato poi, attraverso l'amico Giovanni Bacci d'Arezzo, chierico di camera, nella confidenza di Biondo Flavio, poté, grazie a quest'ultimo e all'intercessione del Bruni, accreditarsi presso il cardinale camerlengo, F. Condulmer, che sulla fine dell'anno lo assunse in casa (lettera a Biondo dell'8 aprile: Rotondi. pp. 200 ss.; al medesimo, s.d., ma aprile-maggio: ibid., pp. 225 s.; di L. Bruni al C. del 4 maggio, e commendatizia dello stesso al Condulmer, s.d.: ibid., p. 227 [su cui Baron, p. 248]; una pseudolettera di "Angelo Aretino" al C., fine 1437 [Rotondi, p. 248], illustra in forma dissimulata la vicenda del C. in casa Venier, dove si sarebbe fermato 11 mesi; una conferma può essere la lettera di benservito del discepolo Cruciano Venier, 10 genn. 1438: ibid., p. 258). Una volta di più si trattò di una delusione. Sempre aspirando invano a un ufficio, fu presto disilluso "de voluntate Camerarii erga me",mentre, dopo il trasferimento a Ferrara per il concilio, si trovò impegnato, rinchiuso nel palazzo pontificio, in "laboribus, incommodis",evidentemente per la traduzione dei testi conciliari, senza ricavarne, a suo dire, "merces nulla" (lettera a G. Bacci, Ferrara, 12 febbraio: Rotondi, pp. 263 ss.). Secondo quanto scrisse nel dialogo De Curiae commodis, ilC. si sarebbe allora posto al seguito del cardinale Giordano Orsini, dedicatario della Publicolae vita di Plutarco (Bibl. Smithiana, pp. 323 ss.; Rotondi, pp. 302 ss.), con cui era già stato in rapporto per l'acquisto di una scrittoria apostolica (lettera a A. da Recanati, 12 sett. 1436: Rotondi, p. 129), e a cui è probabile fosse stato raccomandato da A. Traversari (per il cui interessamento nei riguardi del C., vedi Latinae epistolae, col. 615; e dedica a G. Cesarini della Arati vita di Plutarco, 15 luglio 1438: Bandini, col. 362; Rotondi, p. 383; egli aveva inoltre raccomandato all'Orsini Leonardo Dati, amico del C., che aspirava a divenirgli segretario; vedi lettera a Gabriele monaco, 12 febbr. 1438: Traversari, coll. 630 s.). Ma, morto il cardinale il 29 maggio, sarebbe tornato a Ferrara sulla fine di giugno; poco dopo lo ritroviamo al servizio del camerlengo, a cui nell'occasione dedicò il dialogo citato, terminato appunto "in palatio maiori VII kal. septembris" (Della Torre, p. 247).
Le circostanze lumeggiate nell'epistolario impediscono di accogliere l'interpretazione dello Scholz, che esclude un intento polemico, e associa lo scritto del C. alla "indifferenza o scetticismo" verso il credo religioso che contraddistinguerebbe il primo umanesimo (Eine ungedruckte Schilderung, p. 405);mentre l'esaltazione della Curia da un punto di vista mondano sarebbepronunciata "in tutta ingenuità" (ibid., p. 409).Nel dialogo l'amico Angelo da Recanati - vale a dire colui che nella realtà aveva introdotto il C. nel mondo curiale - lo dissuade ora dal rimanere, ripetendo le amare considerazioni delle epistole. Al che il personaggio dell'autore, nell'intento di difendere la Curia dai denigratori, ribatte celebrando come realtà ciò che aveva nutrito come speranza e ambizione, vale a dire di entrare a far parte onorevolmente di quella Curia, riconosciuta come il maggior centro intellettuale e politico. Nel corso del dialogo il C. sviluppa un tipo di argomentazione già altre volte adottato, vale a dire il procedimento retorico dei pro e contro, dove all'esposizione della tesi, che rispecchia il punto di vista più pessimistico, fa seguito una confutazione che, senza negarlo, lo contempera con uno sforzo di maggiore e più spregiudicata aderenza alla realtà. Così nella dedica citata a Cosimo de' Medici dopo avere ampiamente insistito sul potere della fortuna, ammette l'efficacia della virtù, purché consapevole dei suoi limiti; nell'epistola a L. Bruni del 23sett. 1436, dopo aver contrapposto l'età presente all'antica, e lamentato il venir meno nei principi di ogni considerazione per la virtù e dottrina, si richiama alla "ragione",e non dispera di poter riuscire tra i pochi che, sul modello eminente del Bruni stesso, sanno accreditarsi presso il principe, dove, chiamati a parte delle decisioni, "suo arbitrio cuncta gerunt et faciunt" (Rotondi, p. 145). Particolarmente notevole, anche per la contemporaneità col dialogo, è la dedica citata al card. Cesarini. Il C. immagina che la figura venerabile di Arato gli compaia in sogno, rimproverandolo di sprecare le sue fatiche per risuscitare la virtù antica, non ottenendo se non di imprigionarlo nel palazzo di un principe, là dove "nihil honesti fiat, nullum pudicum aut principe dignum proferatur verbum",e dove gli eruditi sono trattenuti "quasi ad ludum et iocum" (Rotondi, pp. 379 s.):Ribatte l'autore, destandosi, che Arato intendeva in realtà i principi antichi, "sed de nostris impudens mendacium esse"; ché - non diversamente che nelle conclusioni del dialogo (ediz. Scholz, pp. 152 s.) - al presente la virtù rappresentava in essi la norma, salvo poche eccezioni degeneri. Si intende di qui che, insieme con affermazioni serie (come la celebrazione delle glorie letterarie della Curia, fra cui è ora compreso l'"aequalis" del C., L. B. Alberti: ibid., pp. 131 ss.;o la giustificazione delle arti politiche curiali: ibid., pp. 128 s., 133 s.,che sviluppa la lezione di realismo impartitagli da L. Bruni, per lettere del 10 marzo e del 4 maggio 1437:ediz. Mehus, X, 9;Rotondi, pp. 190, 227), altre,ben lungi dal mancare di intenzione satirica, assumono il carattere di un crudo sarcasmo. Così la compiaciuta descrizione dei piaceri gastronomici e venerei (ediz. Scholz, pp. 138 ss.) va riscontrata con la lettera al Bacci del 14 marzo 1438,dove siffatti vizi, a cui l'amico l'avrebbe esortato, sono metaforicamente assimilati agli indirizzi correnti del mondo ecclesiastico, incompatibili con una vera professione di virtù (Rotondi, pp. 270 s.). Oltre all'aspetto allusivo e polemico, il dialogo non è privo di una qualche ambizione filosofica, o, diremmo meglio, ideologica. Esso si apre con una discettazione sul "sommo bene",identificato con la "beatitudine divina",conseguibile per mezzo della "religione",che a sua volta si identifica col "verum immortalis Dei cultum",e trova la massima celebrazione nella moltitudine orante degli ecclesiastici convenuti in Curia. Appare evidente nella trafila un'intenzione satirica verso la stessa argomentazione teologica (che altrove il C. esclude esplicitamente dall'ambito dei propri interessi: ediz. Scholz, p. 131; Eine ungedruckte Schilderung, p. 406), come del resto è reso trasparente dalle interruzioni del contradditore, che, pur dichiarandosi convinto i his argutiis tuis",non può ammettere in coscienza la compatibilità della Curia con la "religione" (ediz. Scholz, p. 123). È inoltre significativo che ogni volta che il C. tocca un tema teologico, ne tratta non come di scienza propria, bensì come udito da altri (ibid., pp. 123, 142). Come a riscontro, viene invece indicato l'ideale prettamente secolare del "prudenter moderateque vivendi",che nella vita di Curia, dove occorre di necessità "multa videre, multa audire, multa discere, multa et ipsum agere",trova la sua massima esaltazione (ibid., pp. 126 s.). La contrapposizione di un ideale secolare a quello teologico o, semplicemente, religioso, diviene esplicita nella polemica conclusiva contro gli apologeti della povertà evangelica (ibid., pp. 142 ss.). Nell'occasione non soltanto viene rivendicato, ancora una volta sulla traccia del Bruni (Baron, Franciscan Poverty, pp 20 s.), il valore delle ricchezze, "salutares et ad bene vivendum maxime necessariae" (ediz. Scholz, p. 145), e affermato che esse offrono mmor spunto a delinquere che non la povertà (tanto più se in persona pubblica come un papa, esposto all'osservazione altrui), ma si giunge ad asserire la relatività della stessa norma cristiana. Cristo, nell'intento di fondare la nuova religione, doveva prescrivere norme radicalmente divergenti dall'antica, ché altrimenti "non movisset homines ad religionem, ut sibi proposuerat",né essi avrebbero potuto sospettare che egli fosse realmente figlio di Dio. Ma una volta affermatasi la vera religione, "exornanda est opibus",recedendo "parumper a pristina illa Christi austeritate ac novum aliquid addendum" (ibid., p. 149). Né, in genere, i contradditori tenevano debito conto "dei tempi, degli uomini, dei luoghi",e del mutare dei criteri di valutazione relativi: tanto infatti contano le situazioni storiche, "ut omnis vitae actio in his tota consistere videatur" (ibid., p. 148). Appare di qui evidente come l'argomentazione retorica del C., ben lungi dal non combattere la "Cristianità ecclesiastica" (Scholz, Eine ungedruckte Schilderung, p. 405), tenda invece a contrapporsi e a precludere ogni tematica teologica, sottintendendo che in tanto la Curia poteva ritrovare la dignità contestata, in quanto avesse saputo francamente riconoscere la sua natura di centro politico e culturale.
Rimane ora difficile stabilire se col suo opuscolo il C. avesse realmente mirato a lusingare il dedicatario, offrendo una sorta di modello per una nuova apologetica curiale, ovvero se avesse inteso, data la troppo trasparente polemica e spregiudicatezza di opinioni, lanciare una sorta di sfida, come a riepilogo di una sfortunata carriera, al mondo della Curia, da cui si vedeva respinto. Nella realtà, comunque, fu ancora l'ipotesi più pessimistica a prevalere. Poco dopo la stesura del dialogo, secondo le esortazioni quivi attribuite ad A. da Recanati, il C. lasciò definitivamente la Curia. In settembre era nuovamente a Firenze, dove per lettera del 30 il Filelfo lo raccomandava a L. Bruni (Epistolae, p. 111, l. II, 46);quindi, secondo il tenore dell'iscrizione funebre nel frontespizio del cod. Magliab. XXIII, 126, "morìnella cità di Vinegia... del mese d'otobre [1438]... di morbo".
La fama del C. rimase soprattutto affidata all'opera di traduttore. Accanto alle opere qui sopra menzionate (Plutarco, Vitae di Solone, Temistocle, Pericle, Fabio Massimo, Publicola, Teseo e Romolo, Arato; Luciano, De fletu, De somnio, De sacrificiis, De tyranno, Calumnia;Isocrate, Nicocles, Ad Nicodem;Giuseppe Flavio, Bellum Iudaicum),ricordiamo ancora: Plutarco, Artaxersis vita (dedicato a Unfredo di Gloucester); Luciano, De longaevis, Patriae laudatio (dedicati prima a G. Manetti - per cui vedi Vespasiano da Bisticci, e il codice di Perugia, Bibl. comun., H 4, c. 50v - e quindi a G. Correr), Demonactis vita (dedicato a L. Trevisan); Teofrasto, Liber de impressionibus (cioè i Caratteri, dedicato a F. da Legname); Isocrate, Oratio ad Daemonicum (dedicato a P. Colonna); Demostene, Oratio funebris (dedicato a I. Venier); Senofonte, Praefectus equitum (dedicato a Gaspare Villanova da Todi). Siffatta attività si ispirò alla convinzione, espressa nella dedica a F. da Legname, della grande superiorità della cultura greca sulla latina, la quale ne derivò i temi, ma ignorandone larghi settori, "de iis... in quibus mathematici, physici metaphysicique versantur" (Luiso, pp. 285 ss.; Rotondi, pp. 297 ss.). Si intende di qui come il C. meditasse un piano sistematico di traduzioni, e le dediche non mancano mai di promettere opere di maggior impegno. Ma di fatto egli fu limitato dalla necessità di pubblicare opuscoli brevi, per accreditarsi presso questo o quel dignitario, e anche la scelta delle opere fu spesso indotta dalla circostanza (allusivo è per esempio l'omaggio al papa del De fletu di Luciano, come saggio di satira contro certe "superstitiones"). Il nucleo più organico rimase quello delle Vitae di Plutarco, per cui il C. si ricollegò ai precedenti traduttori, di cui nomina Filelfo, Bruni, Aurispa, Guarino, e F. Barbaro (vedi la dedica a P. Colonna della Vita di Teseo e Romolo),e che procurò egli stesso di raccogliere in un codice, inviato al duca di Gloucester (vedi la dedica della Vita di Artaserse:Luiso, pp. 273 ss.). Numerose di queste versioni, più o meno rettamente attribuite, furono poi comprese nelle varie sillogi plutarchiane, e quindi nel corpus delle Vitae, dato alle stampe nel 1470 per cura di G. A. Campano. Sulla qualità delle traduzioni, studiosi moderni quali il Sabbadini e il Müllner hanno confermato l'elogio del Filelfo ("fluit enim oratio ac nitet": lettera al C. del 9 sett. 1436), riconoscendone lo scrupolo inconsueto di contemperare la proprietà stilistica latina con una relativa fedeltà all'originale. Anche la Comparatio e il De Curiae commodis non mancarono di una, sia pur circoscritta, tradizione letteraria (Kristeller, Iter, I, pp. 187,428; II, pp. 88, 263; ediz. Scholz, p. 108; Baron, Franciscan Poverty, p. 29); sul dialogo è inoltre interessante l'apprezzamento manifestato nel 1455 e nel 1470 da G. Aliotti, inquieta figura di monaco interessato ad accreditare nel mondo ecclesiastico la cultura secolare degli umanisti. A parte certi versi sul modello dei Priapeia e del Panormita, diretti a L. Dati (un saggio è edito in Della Torre, Storia, p. 296; la data del manoscritto, "1456",andrà corretta in 1436, quando è documentata l'amicizia del C. per il Dati: vedi lettera di F. Patrizi al C., Siena, 19 apr. 1436: Rotondi, p. 55), la sua opera senza dubbio più significativa rimane l'epistolario, da lui ordinato in silloge nell'attuale Vat. Ottob. lat. 1677. La stessa raccolta con l'integrazione di tre lettere è nel Parig. 11.388; ma assai più importante è il cod. 4.4.6 della Bibl. comun. di Como, che su complessive sessantacinque lettere ne contiene trentaquattro nuove. Secondo le conclusioni della Rotondi, esso rispecchia una fase anteriore di elaborazione letteraria, e preserva testi più espliciti che non quelli riservati alla silloge "pubblica". Anche le raccolte epistolari ebbero una certa tradizione (a parte il cod. Parigino, ilcod. Ravennate 182 è copia dell'Ottoboniano, è quello di Como è una miscellanea di provenienza lombarda); ma il ricordo dell'autore svanì presto o fu comunque sottaciuto. Vespasiano menziona del C. le traduzioni, ma non conosce gli altri scritti, e dell'uomo, con la povertà e il temperamento "maninconico",ricorda contradditoriamente il successo incontrato in Curia, dove avrebbe ottenuto "da papa Eugenio ch'egli fusse suo segretario et non so che altro ufficio",e dove sarebbe morto. Tale improprio profilo non fu corretto dagli studiosi moderni, fino al Luiso, allo Scholz e al Martines, contribuendo a travisare un'esperienza così significativa nelle sue stesse traversie, nonché così addentro a una fase cruciale dell'affermazione umanistica.
Fonti e Bibl.: Le lettere e le dedicatorie sono riordinate e presentate per regesti e saggi di edizione in F. P. Luiso, Studi su l'epistolario e le traduzioni di L. da C. iuniore, in Studi ital. di filologia classica, VIII(1899), pp. 205-299; ma per una più recente e completa classificazione, e, per gran parte, edizione, vedi la tesi di laurea inedita di E. Rotondi, L. da C. e il suo epistolario (Università di Firenze, Facoltà di Magistero, anno accademico 1970-71), in cui è tenuto presente il codice 4.4.6. della Comunale di Como; e inoltre M. Miglio, Una lettera di L. da C. il Giovane a Flavio Biondo: storia e storiografia nel Quattrocento, in Humanistica Lovanensia, XXIII(1974), pp. 1-30, e Id., Storiografia pontificia del Quattrocento, Bologna 1975, pp. 31-59, [8920]. Per i proemi, v. anche Bibl. Smithiana, seu Catalogus librorum D. Iosephi Smithii Angli, Venetiis 1755, pp. 322-329; A. M. Bandini, Catalogus codd. lat. Bibl. Mediceae Laurentianae, II, I, Firenze 1776, coll. 358 ss. Per le orazioni inaugurali, v. K. Müllner, Reden und Briefe italien. Humanisten, Wien 1899, pp. 129-42; il De Curiae commodis è edito da R. Scholz, Eine humanistische Schilderung der Kurie aus dem Jahre 1438, in Quellen und Forschungen aus italien. Archiven und Bibl., XVI (1914), pp. 108-153; e, parzialmente, da E. Garin, Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1952, pp. 170-211.
Sulle traduzioni vedi inoltre: R. Sabbadini, La scuola e gli studi di Guarino Veronese Catania 1896, pp. 134 s.; K. Müllner, Zur humunistischen Uebersetzungsliteratur, in Wiener Studien, XXIII(1901), pp. 276-278; V. R. Giustiniani, Sulle traduzioni latine delle "Vite" di Plutarco nel Quattrocento, in Rinascimento, s. 2, I (1961), pp. 14 ss.; G. Resta, Le epitomi di Plutarco nel Quattrocento, Padova 1962, passim; A.Carlini, Appunti sulle traduzioni latine di Isocrate di L. da C., in Studi classici e orientali, XIX-XX(1970-1971), pp. 302-309. Sul dialogo, vedi R. Scholz, Eine ungedruckte Schilderung der Kurie aus d. J. 1438, in Archiv für Kulturgeschichte, X (1912), pp. 399-413; H. Baron, Franciscan Poverty and CivicWealth as Factors in the Rise of Human. Thought, in Speculum, XIII (1938), pp. 29 s. Per altri documenti e trattazioni, vedi: Epistola o sia ragionam. di messer Lapo da Castiglionchio, celebre giureconsulto... (colla vita del medesimo compostadall'abate L. Mehus...), Bologna 1753; [D. Herlihy], Indice delle famiglie del Catasto (1427-1429), repertorio inedito presso l'Arch. di Stato di Firenze; F. Filelfo, Epistolae a cura di N. S. Meucci, I, Firenze 1743, passim (e anche C. de' Rosmini, Vita di F. Filelfo da Tolentino, I, Milano 1808, p. 181; G. Benadduci, Contributo allabibliografia di F. Filelfo, Tolentino 1902, p. 17); R. Sabbadini, Centotrenta lettere inedite di F. Barbaro, Salerno 1884, p. 82; L. Bruni, Epistolae, a cura di L. Mehus, II, Firenze 1741, pp. 179 s.; Id., Humanistisch-philosophische Schriften, a cura di H. Baron, Leipzig-Berlin 1928, p. 226; A. Traversari, Latinae epistolae, a cura di D. Canneto, Firenze 1759, col. 615 (ma la datazione della lettera va corretta da 1433 in 1437: vedi F. P. Luiso, Riordinamento dell'epistolario di A. Traversari, Firenze 1899, pp. 39 s., e in Riv. delleBibl. e degli Archivi, VIII[1897], p. 169); G. Aliotti, Epistolae et opuscula, a cura di G. M. Scarmagli, I, Arezzo 1769, pp. 346 s., 553 s.; Vespasiano da Bisticci, Le vite, a cura di A. Greco, I, Firenze 1970, pp. 581-583. E inoltre: A.della Torre, Storia dell'Accademia platonica diFirenze, Firenze 1903, pp. 246-248, 296; L. Martines, The Social World of the Florentine Humanists, Princeton 1963, p. 339 e passim;R. Fubini, Papato e storiografia nel Quattrocento, in Studi medievali, s. 3, XVIII (1977), pp. 324 ss., 330; P. O. Kristeller, Iter Italicum, I-II, ad Indices.