BECCARIA (de Becariis), Castellino
Di antica ed influente famiglia pavese, primogenito di Musso, il B. nacque a Pavia probabilmente nell'ultimo decennio del sec. XIII.
Il B. apparteneva al ramo principale della famiglia; i suoi quattro fratelli minori - Fiorello, Antonio, Manfredo e Leodrisino - daranno in seguito origine ai rami cadetti dei Beccaria di Vireto, dei Beccaria di Monte, dei Beccaria di Gropello, dei Beccaria di Santa Giulietta e di Robecco.
Il B. viene ricordato per la prima volta nelle fonti a noi note nel 1315, quando poté rientrare dall'esilio nella città natale, al seguito di Matteo Visconti, il quale, proprio grazie al tradimento di quella fazione dei cittadini pavesi favorevole agli esiliati Beccaria, aveva occupato Pavia e, cacciati i Langosco, e i loro partigiani di parte guelfa, si riserbò l'alto dominio sulla città, che preferì amministrare attraverso Manfredi Beccaria.
Subito dopo il suo rientro a Pavia, il B., all'insaputa dei componenti la sua consorteria, s'impadronì delle terre di Lomello e di altri luoghi, rimasti fedeli ai Langosco, e li tenne per qualche tempo in suo potere, finché si sottomise, con essi, al maggior esponente della famiglia, Manfredi, allora capo della consorteria e della fazione dei Beccaria e signore di fatto di Pavia. Forzato pertanto a non occuparsi di politica attiva in patria, il B. si volse allora alla carriera podestarile: nel 1320 fu a Voghera, a Novara nel 1323-1324, nel 1325 a Bergamo.
Durante la podesteria novarese il B., espressamente richiesto dalle parti in causa come arbitro, risolse una vertenza apertasi tra il Comune di Novara e gli abitanti di Galliate.
Morto Manfredi Beccaria (22 marzo 1322), dopo il breve periodo in cui prevalse il cugino Beccario di Nicoletto Beccaria, il B. e suo padre Musso gli subentrarono nella direzione della consorteria dei Beccaria e del ghibellinismo pavese; e appunto come capo riconosciuto dei ghibellini di Pavia il B. si presentò, nel maggio 1327, insieme con i maggiori esponenti della fazione filo-imperiale in Italia, a Como, dove Ludovico il Bavaro aveva voluto convocare i capi ghibellini italiani.
Nel periodo che va dal 1322 sino al 1342, anno in cui morì Musso, difficile è distinguere la vicenda politica del B. da quella del padre, che resse come signore di fatto, ma sotto il protettorato di Azzone Visconti, il Comune pavese per circa vent'anni. Non sappiamo neppure quando - e profittando di quale favorevole occasione - Musso abbia cominciato a fregiarsi di quel titolo di "princeps civitatis", che pure accompagna il suo nome nella leggenda di una rara moneta d'oro coniata a Pavia sotto il suo governo, e che venne ripreso più tardi, alla sua morte, da Castellino.
Il 9 maggio 1323 anche il B., come del resto il padre Musso ed altri maggiorenti pavesi, aveva ricevuto dal collegio degli Inquisitori di Lombardia l'intimazione a presentarsi davanti al loro tribunale, riunitosi a Lomello, per rispondere alle accuse di aver favorito ed aiutato i Visconti, ribelli alla Sede apostolica e scomunicati; insieme agli altri convenuti, il B., che né aveva risposto all'intimazione degli Inquisitori né si era presentato dinnanzi al loro tribunale, era stato condannato come contumace e scomunicato. Tuttavia, nel 1328, dopo il grave episodio dell'assalto al convoglio che trasportava i 60.000 fiorini d'oro inviati da papa Giovanni XXII al cardinale Bertrando del Poggetto per le necessità della guerra, nessuna sanzione religiosa - a differenza di quanto avvenne per i suoi consorti, i quali furono nuovamente colpiti da scomunica e interdetto venne lanciata contro il B. e suo padre Musso.
Intanto era sceso in Italia, col titolo di vicario imperiale, il figlio dell'imperatore Enrico VII, Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, il quale, dopo aver riunito a Trento, sul finire del 1330, una dieta di tutte le comunità e signorie della Lombardia, e dopo essersi incontrato a Castelfranco modenese col cardinale Bertrando del Poggetto, legato pontificio in Lombardia e comandante le truppe della Chiesa operanti contro i Visconti (16 apr. 1331), aveva preso, l'8 giugno 1331, solennemente possesso di Pavia, che lo aveva riconosciuto, sin dagli inizi dell'anno, signore a vita della città. Il nuovo signore di Pavia aveva riammesso nella città gli sbanditi e i fuorusciti di parte guelfa ed aveva sostituito il vicario imperiale lasciatovi da Ludovico il Bavaro con un uomo di sua fiducia, Odofredo da Iseo. I signori e le comunità ghibelline di Lombardia si riunirono allora a congresso in Castelbaldo e stabilirono, sotto la presidenza di Azzone Visconti, una lega contro Giovanni del Lussemburgo (8 ag. 1331). In seguito a ciò i Beccaria, non volendopiegarsi al vicario imperiale né rinunziare all'acquisita egemonia su Pavia, abbandonarono, insieme ai loro fautori, la città, dichiarandosi in tal modo aperti nemici del re, il quale prese contro di loro severissime misure: creato un tribunale speciale, "gli diede cura di fare inquisizione strettissima di tutti i cittadini quali erano della Beccaria fazione, citarli con Editto e condannarli nel Capo"; i beni dei profughi volontari vennero parzialmente confiscati (agosto 1331).
La via seguita dal B. sembra, in questo frangente, staccarsi da quella del padre: mentre Musso si era mostrato nemico dichiarato del re, il B., creato da Giovanni "vicarius seu rector et potestas civitatis Parmae" in suo nome, prendeva possesso del palazzo podestarile della città emiliana, rimanendovi sino ai primi dell'anno seguente, quando la situazione pavese mutò radicalmente per il fattivo intervento di Azzone Visconti, signore di Milano.
Nel novembre 1332, infatti, il nuovo podestà Oberto di Coconate, vicario di Pavia "pro rege Boemiae", venne rovesciato e costretto alla fuga da un'insurrezione popolare promossa da Musso Beccaria e dai fautori della sua fazione, con l'appoggio esterno di Azzone Visconti, che inviò un corpo d'esercito al comando del quale era il cugino Lodrisio; la liberazione della città venne completata nel giugno dell'anno successivo, allorché la guarnigione imperiale, che si era ridotta nel castello di Porta Milano, si arrese per fame, dopo sette mesi d'assedio, alle milizie pavesi e viscontee. Azzone Visconti lasciò la signoria sulla città al fidato Musso, il quale riconobbe l'alta autorità del Visconti, ne seguì le direttive politiche, ed accettò i podestà da lui inviati.
È questo un periodo di grande fortuna e potenza non solo per la fazione dei Beccaria, ma anche per la stessa città da loro dominata, che non soltanto non perse, ma forse aumentò la propria autonomia, il che è provato dal fatto che mai, sia sotto Musso, sia sotto il B., nessuno dei signori di Milano s'intitolò negli atti pubblici "signore di Pavia" (cosa che invece di regola fecero con le altre città direttamente dominate, e come più tardi farà Galeazzo II con la stessa Pavia); come dalle trattative iniziate col marchese di Saluzzo da Roberto re di Napoli a nome proprio e delle città alleate (fra cui figurano e Pavia e Milano e numerose altre: 12 febbr. 1334); come da una supplica inviata ai governatori di Pavia dagli eremitani di quella città, nel cui indirizzo di saluto gli scriventi si rivolgono "Dño Potestati Papiae nec non Dño Mussio de Beccaria Milite et ceteris sapientibus praesidentibus factis et negociis Conimunis Papiae" (5 apr. 1335); come dall'alleanza stretta nel 1343 (o 1342) dal B. con i signori di Milano Luchino e Giovanni Visconti; come infine dalle sottoscrizioni della lega decennale stretta il 18 genn. 1350 tra Verona e Mantova, sottoscrizioni in cui il B., rappresentato da Beccario Beccaria, è qualificato "signore di Pavia".
Nel 1333 il B., col padre e i fratelli, si collegò con Roberto, re di Napoli, con i marchesi Spinetta e Corradino Malaspina contro il re Giovanni di Boemia che, nel giugno dello stesso anno, aveva contratto alleanza col cardinal legato, Bertrando del Poggetto, con le città di Cremona e di Bobbio, con i fuorusciti pavesi di parte guelfa e con il marchese Giovanni Malaspina ed i suoi figli Manfredino, Lucchino e Moroello.
La manovra, che rientrava nel quadro dell'ambigua politica di Azzone Visconti - che allora Musso Beccaria seguiva prudentemente -, era motivata, per i Pavesi, dai risentimenti provocati nella città dal comportamento protervo e dallo spadroneggiare delle truppe boeme. Allo stesso modo, questa multicolore alleanza di guelli con ghibellini, questa ibrida collusione di antichi nemici era dovuta alla necessità di scacciare dall'Italia l'ormai pericoloso ed indesiderabile Giovanni di Boemia.
Sceso in lizza, il B. fu di valido aiuto, con i suoi armati, a Luchino Visconti (zio di Azzone e condottiero delle milizie milanesi) nelle operazioni che portarono alla conquista di Montesegale - ultimo baluardo degli odiatissimi Langosco - e di Bobbio. Tuttavia, quasi dieci anni dopo, preoccupati per la sempre crescente espansione viscontea e per i suoi riflessi sull'autonomia pavese, Musso Beccaria e il B. cercarono di allearsi con Ludovico il Bavaro nel 1342: il tentativo fu stroncato da Luchino Visconti, il quale con le armi li costrinse alla resa.
Morto Musso nel 1343, il B. ne ereditò, insieme col titolo di "principe" di Pavia, anche l'ambiziosa politica e la volontà di sempre più ampia autonomia. Fu così che, pur non ignorando la rivalità esistente tra Luchino Visconti ed il marchese Giovanni II del Monferrato (sorta perché Luchino, pur essendo alleato del Monferrato, aveva occupato Asti, Tortona, Alessandria e altri domini angioini e sabaudi in Piemonte, cui aspirava Giovanni II), il B. non esitò, in un momento di forte tensione fra il Monferrato e Milano, ad aiutare Giovanni II contro gli eserciti degli Angioni e dei Savoia - i quali difendevano come potevano il loro patrimonio piemontese pericolante dopo la morte di Roberto d'Angiò (26 genn. 1343), nella battaglia della Gamenaria (Asti), in cui dettero bella prova di sé i contingenti pavesi condotti dallo stesso B.: la vittoria si concluse con la rotta dei Sabaudo-Napoletani (23 apr. 1345).
L'ardito gesto non fece tuttavia perdere al B. l'amicizia e la protezione dei Visconti se, accanto a Luchino, negli atti della tregua triennale conclusa nel marzo del 1346 - grazie alla mediazione di un legato pontificio - fra il Regno di Napoli e il conte di Savoia, da un lato, il marchese del Monferrato, Milano e Pavia coi loro alleati, dall'altro, vediamo comparire anche il nome del Beccaria.
Ormai divenuto uno dei più potenti signori della Lombardia, il 20 sett. 1346 il B. fu padrino dei due gemelli di Luchino Visconti in occasione del loro battesimo, intervenendo alle grandi feste che si tennero in loro onore a Milano (come del resto aveva già fatto nel 1343 per il battesimo della secondogenita di Luchino, Ursina); e proprio nello stesso 1346 fu protagonista di un episodio che è indizio di un suo nuovo orientamento politico.
Durante una sua visita a Milano, Giovanni II del Monferrato, venuto a sapere di una congiura ordita contro di lui da Luchino, riusciva a fuggire da Milano e a riparare in Pavia. Il B. dal canto suo, non solo lo aveva accolto con ogni onore, da amico, ma gli aveva offerto anche la protezione necessaria perché potesse rientrare in Piemonte.Tuttavia il progressivo avvicinamento del B. a Giovanni II del Monferrato, anche se era motivato dalla volontà di salvaguardare, insieme col suo regime, l'antica gloriosa autonomia di Pavia, fu fatale non solo alla signoria del B. ma, alla lunga, anche alla stessa città.
Già agli inizi del 1354 l'arcivescovo Giovanni Visconti (divenuto unico signore di Milano il 24 genn. 1349), forse temendo sviluppi negativi per Milano dal nuovo atteggiamento politico assunto dal B., aveva avanzato la richiesta di essere eletto signore di Pavia; la cosa, per il momento, non aveva avuto alcun seguito, sia per i disordini che la richiesta dell'arcivescovo aveva provocato nella città, sia per l'improvvisa morte dello stesso Giovanni Visconti (5 ott. 1354).
Il 3 giugno del 1355, infatti, l'imperatore Carlo IV del Lussemburgo concesse al marchese Giovanili II il vicariato imperiale per la città ed il territorio di Pavia, ammonendo i Visconti, il 2 agosto, a non nuocere a Giovanni II e ordinando ai Pavesi di dare tutto il loro appoggio al suo nuovo vicario: i Beccaria non tardarono ad ottemperare all'ordine imperiale, sanando in questa occasione una antica discordia esistente tra il B. e i fratelli.
Questa nomina, che fu il prezzo pagato da Carlo IV per l'appoggio datogli dal marchese del Monferrato, l'unico nella generale ostilità degli Stati italiani, non fu mal vista dal B. e dai suoi consorti, i quali la dovettero anzi considerare, almeno in un primo momento, come una garanzia di quella indipendenza dal dominio dei Visconti, e di Milano che era stato l'obbiettivo della politica estera del Beccaria. Il marchese, dal canto suo, non sembrò inizialmente desideroso di modificare lo status quo ante cittadino: lo dimostrano sia l'intestazione della lettera di raccomandazione in favore del pavese Giovanni Landolfi, indirizzata dall'imperatore il 10 maggio 1355 al suo vicario e luogotenente in Pavia, al podestà, ai domini B. e Milano di Zannone Beccaria, ai consoli della città; sia l'accessione di Pavia - di cui, Giovanni II risulta procuratore anche a nome dei "Magnifici Castellino, Milano, Fiorello e Rainaldo de Beccaria" - all'alleanza contro Barnabò e Galeazzo II Visconti, signori di Milano, stretta tra il marchese del Monferrato, i Gonzaga, signori di Mantova, ed il signore di Ferrara, Obizzo II d'Este (Ferrara, 30 ott. 1355).
Il significato politico della nomina di Giovanni II del Monferrato a vicario imperiale a Pavia e le sue implicazioni necessariamente anti-viscontee erano stati compresi, ben prima della stipulazione della lega di Ferrara, da Galeazzo II Visconti il quale, come scrive l'Azario, "cogitavit vindicare sibi dominium Papiae et districtum et post multas ambaxatas necessarium fuit occulta detegere": togliendo pretesto dalle usurpazioni compiute in Piemonte tra il 1355 ed il 1356 dal marchese del Monferrato, si riaccesero le ostilità tra quest'ultimo ed i Visconti. Fin dalle prime mosse della guerra ci si avvide, tuttavia, che il principale obbiettivo dei Visconti era l'occupazione di Pavia nell'aprile del 1356, infatti, dopo il fallito attacco condotto da reparti piacentini contro il castello di Arena, dominio personale di Milano di Zannone Beccaria, Galeazzo II iniziava le operazioni militari tentando la conquista di sorpresa di Pavia con un grosso esercito (le cronache coeve parlano di 40.000 uomini, rinforzati da contingenti forniti da Barnabò Visconti) e quindi, fallito il primo attacco per la tenace difesa dei Pavesi, mettendo il blocco alla città; poco dopo, lasciata la direzione dell'assedio a Pandolfo Malatesta, il Visconti occupava in territorio pavese i centri di Mortara e di Gorlasco. Era fatale che la città cedesse, ma cadde dopo una lunga e disperata resistenza che è ricordata con ammirazione dal cronista Matteo Villani, e in cui fece la sua apparizione a Pavia la singolare figura di un frate, Iacopo Bussolaro, degli eremitani di S. Agostino, che diresse la sua predicazione contro la decadenza religiosa, il malcostume, la corruzione e i vizi dilaganti nella città, ispirandosi anche alle difficoltà che Pavia attraversava in quel momento e riuscendo a conquistarsi grande ascendente sul popolo. In questa accesa temperie di riforma religiosa e di amor patrio cominciarono a mostrarsi i chiari segni del dissidio scoppiato, per ragioni di egemonia politica sulla città, tra il vicario imperiale ed il B., e tra i "giovani", e i "vecchi" nell'ambito della stessa consorteria dei Beccaria. Il B., preoccupato dai maneggi del podestà e del capitano del popolo (nominati da Giovanni II), aveva fatto di tutto, con il fratello Fiorello e con altri esponenti della sua fazione, per opporsi ad ogni aumento di potere del marchese del Monferrato, non solo, ma aveva impedito che quest'ultimo levasse tasse in Pavia e nel contado. La cosa non mancò di irritare il marchese, il quale, dietro consiglio del piacentino Dondazio Malvicini Fontana, pensò di sfruttare contro i Beccaria la predicazione del Bussolaro.
Il B. aveva approvato la predicazione del frate e l'aveva incoraggiata. Il suo atteggiamento benevolo non cambiò neanche quando il Bussolaro cominciò a combattere dal pulpito la vita disordinata ed immorale di alcuni membri della consorteria e della fazione dei Beccaria.
Il frate dovette considerare debolezza questo atteggiamento del B. e, nell'entusiasmo del successo, spinto dal favore dei fedeli, si volse a combattere altri mali che del pari affliggevano Pavia, e quelle ch'egli pensava ne fossero le cause, arrivando infine "a dire molto contro la disordinata Signoria dei tiranni" (Villani).
Dal fustigare la tirannia in generale a prender di petto i signori cittadini il passo fu breve: istigato dal marchese del Monferrato, profittando dell'assenza da Pavia del B., che si trovava presso il marchese, nell'autunno del 1357 in una infuocata predica il Bussolaro si scagliò contro di lui e Fiorello Beccaria, accusandoli direttamente di succhiare il sangue del popolo come usurai ed accaparratori di grano; quindi, infiammato dagli antichi ideali di libertà comunali, affermò che "la salute di quel popolo era che si reggesse in Comune". Impedito dal marchese del Monferrato, presso il quale si trovava ospite, a ritornare in Pavia per veder chiaro nella situazione creatasi dopo tale predica, il B. si accordò con Fiorello per far eliminare segretamente - così almeno sembra - il frate, ormai divenuto pericoloso; egli inoltre, imprimendo così un nuovo cambiamento alla sua politica, entrò in contatto coi Visconti. Scoperta la trama ed espulsi, per incitamento del Bussolaro, i più autorevoli capi della fazione Beccaria, l'agostiniano poté formare nella città un governo popolare con l'appoggio del marchese del Monferrato (novembre 1357).
Intanto il B. e Fiorello, che erano stati confinati da Giovanni II a Valenza sul Po, erano riusciti a fuggire: si recarono dapprima a Bassignana, poi a Voghera, infine a Milano. Qui si misero in contatto con alcuni emissari della fazione a loro favorevole in Pavia, per cercare di rientrare ad ogni costo in patria. Decisi a tutto pur di riuscire nell'intento, si legarono a Galeazzo II Visconti con cui stipularono alcuni patti (tra i quali, pare, figurò l'impegno di cedergli la signoria su Pavia, una volta riconquistata) in cambio del suo appoggio militare. Non appena la cosa fu risaputa a Pavia, provocò un'aspra reazione: dodici fautori dei Beccaria vennero decapitati, quanti ancora della famiglia restavano nella città furono espulsi "in perpetuo", i loro beni confiscati, le loro case ed il palazzo distrutti e rasi al suolo a furor di popolo (là dove questi sorgevano nacque la spianata dell'attuale Piazza Grande).
Il B. dovette morire ai primi del 1358, dato che il suo nome non compare fra quelli dei firmatari dei patti stipulati a Zavattarello fra gli espulsi Beccaria e i Visconti, e le cui trattative erano state appunto da lui iniziate sul finire dell'anno 1357.
Il B. moriva senza lasciare prole: la moglie, Giulia Ricciardi, figlia del signore di Treviso, non gli aveva infatti dato figli. I suoi beni passarono quasi tutti ai discendenti di suo fratello minore, Leodrisino.
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