CASTELLANI, Castellano
Figlio di Pierozzo e di Ginevra di Pancrazio d'Empoli, nacque a Firenze nel 1461. La famiglia apparteneva a un ramo collaterale - ed economicamente debole - dei Castellani di Altafronte: preclusa dai più alti uffici cittadini, aveva potuto ottenere soltanto il priorato in due occasioni, con un Pierozzo nel 1390 e con Luca di Buonaggiunta nel 1418.
Nel catasto del 1480 il padre del C., che era scrivano nell'ospedale di S. Maria Nuova, denunciava nove figli, di cui il maggiore è il nostro personaggio, "tutti sanza dota". A completare il quadro di una condizione economica molto pesante, oltre la famiglia numerosa e la modesta professione esercitata da Pierozzo, resta poi la testimonianza di non poche vendite che questi effettuò, durante la sua vita, di case e terreni. Ma nonostante tali ristrettezze il primogenito fu mandato a studiare a Pisa, ove, completati gli studi superiori. si addottorò in diritto canonico. È importante sottolineare le umili origini e anche i disagi indubbiamente sofferti dal C. in gioventù: ciò può aver determinato in lui il desiderio di cambiare stato, abbracciando, sembra assai presto, quello sacerdotale, nonché la gelosa custodia di un'attività, quella accademica, che lo affrancava così vistosamente dalle angustie familiari. Le contraddizioni insite nella vita del C., che mettevano in seria crisi la sua biografia (pallesco o piagnone? amico del Soderini o favorevole alla restaurazione medicea?), possono essere risolte pensando alla scelta iniziale di essere prete e professore, categorie ovviamente comprensive di ogni mera accidentalità di carattere politico. E la volontà di riscattare le inevitabili cessioni al contingente può aver condizionato la strumentazione di una cultura professionale (tradizionalmente scolastica, agiografica, scritturale) nel senso rigoristico e predicatorio contro quelle gratifiche mondane che pure l'uomo reclamava a vantaggio di una privata incolumità.
Ancora giovanissimo, nel 1482, il C. figura tra i cinque canonisti che fungono da consiglieri dello Studio pisano. Nel 1488 egli è lettore di diritto canonico a Pisa con uno stipendio annuo di trenta fiorini che il C. vedrà progressivamente accrescere anche tramite i rapporti di familiarità che lo legarono con Giovanni de' Medici. La funzione di sostegno che il giovane canonista assolve in questo periodo nei confronti della dinastia dominante è comunque fuori discussione. Alla morte di Lorenzo il C. invia a Piero de' Medici una lettera di condoglianze in cui, fra l'altro, viene esaltato il mecenate come l'artefice della fortuna propria e del benessere collettivo, salvo poi a ritrattare tale giudizio nel capitolo intitolato Meditatio mortis, ove anche la figura del Magnifico viene piegata a illustrare un esempio di caducità: "Non ti ricordi di quel verde alloro / che resse la città con tanta pace? / Hor non ha più voler ch'abbia costoro", cioè i docili abitatori delle tombe. La frequentazione dei cimiteri conferisce al visitatore un notevole senso di benessere; trattandosi di potenti il sopravvissuto diviene lo scrittore-guida, il decifratore di un destino universale.
Quando, nel 1494, Pisa si ribella a Firenze e accoglie Carlo VIII, lo Studio viene chiuso ed il C. è costretto a trasferirsi a Prato (1495). Qui si incontra col Savonarola giunto, nel '96, da Firenze per tenere un ciclo di sermoni agli studenti. Col domenicano egli collabora nella riforma del monastero di S. Michele dell'Ordine di S. Benedetto Negro e intrattiene con lui rapporti destinati a incidere profondamente sulla sua natura di scrittore. Affascinato dalla personalità aggressiva del frate, dalla violenza, che si diceva ispirata, della sua oratoria, dal terrorismo di una ideologia puramente repressiva, il C. divenne un poeta piagnone, anche se non esitò, di lì a pochi mesi, a collaborare con la Signoria nell'istruzione del processo contro il Savonarola, spinto a ciò dal desiderio di rientrare nelle grazie dei Medici e di garantirsi una situazione di prestigio conquistata nell'ambito della gerarchia ecclesiastica (in un documento del 1498 il C. appare come vicario del vescovo di Fiesole). Fu un amore breve e intenso quello che il C. nutrì per il Savonarola, al pari di tutta una frangia particolarmente vulnerabile dell'intellettualità fiorentina, con a capo il Ficino e gli adepti della "setta" neoplatonica, che capitarono tra i tormenti dei castigatore, ma seppero svincolarsene un istante prima che il fuoco del rogo distruggesse anche le ultime "vanità". La mortificazione della natura, in cui poteva esaltarsi la frenesia savonaroliana, generava peraltro un'ipertrofia dell'istituzione ravvisabile in un destino metafisico. È in questa facoltà immediata di decifrare l'esistenza come segno prescritto, e quindi come spettacolo, manifestazione esemplare, che si salva il letterato dallo scacco dell'asceta. Solo che venga riproposta la Scrittura (si pensi al passaggio dal laudario agli Evangelii sulla Quaresima)l'universalità dell'istituzione riscatta il fallimento dell'esistenza, la generalità del messaggio rende l'opera anonima, o comunque la confonde in un contesto di partecipazione e di attesa collettiva (sacra rappresentazione), ma nulla vieta all'individuo di interiorizzare una esigenza di rigore morale nei confronti di qualsiasi regime, mentre sul piano della prassi la sua disponibilità ufficiale diviene un elemento quasi indifferente. In effetti l'attività letteraria del C. (governatore e procuratore di una compagnia di pietà, quella di S. Gerolamo della Costa) poté sfidare le inclemenze della stagione fiorentina al valico tra Quattro e Cinquecento mantenendosi costantemente fedele alla tradizione savonaroliana. Al livello pubblico il suo ufficio universitario non conosce che le soste dovute alle vicissitudini dello Studio. Insegna infatti dal 1497 al 1503 a Firenze; nel 1505 lo Studio si chiude per riaprirsi soltanto dieci anni più tardi a Pisa e il C. viene reintegrato nei ruoli ottenendo, forse per diretto interessamento di Leone X, la lettura ordinaria di diritto canonico. Eppure nel decennio soderiniano, che si era concluso nel '12, il C. non aveva lesinato gli elogi del nuovo regime indirizzando versi al gonfaloniere ("solida pietra") e all'ambiziosa moglie di lui, la "gloriosa madonna" Argentina Malaspina. Ma nel clima ampiamente permissivo della restaurazione medicea dovettero giovare a favore del C. gli antichi rapporti di familiarità stabiliti col cardinale Giovanni; d'altro canto, la garanzia e la continuità delle relazioni personali costituivano un preciso programma politico attuato da Leone X nei confronti del riconquistato feudo fiorentino. Così il C. poté superare, nel tranquillo ambiente dello Studio pisano, un nuovo salto di regime. A Pisa svolse regolari corsi accademici fino al 1519, quando dové sospendere ogni attività per una grave malattia. Morì probabilmente sul finire del medesimo anno.
La produzione del C. come autore di laude, sonetti e capitoli devoti, Evangelii sulla Quaresima, sacre rappresentazioni è molto abbondante e può essere ascritta ad un periodo che va dagli anni immediatamente successivi al 1490 al 1519, anno in cui risulta stampata, con data 15 marzo, La Rappresentatione della Cena et Passione di Christo. L'accertamento di un corpus di opere più ampio di quanto venisse attribuito al C. dalla tradizione è frutto delle ricerche compiute da G. Ponte, il quale di recente ha rivendicato allo scrittore fiorentino, con buone probabilità di giustezza, sebbene le argomentazioni non evadano dal campo congetturale della prova stilistica o tematica, un folto manipolo di versi adespoti, desunti da manoscritti o da stampe per lo più popolari, largamente diffuse ma filologicamente infide. Limitando il campo delle scoperte alle sole proposte di nuova attribuzione, basti pensare che viene assegnata al C. la celebre Canzone dei morti, tradizionalmente ascritta all'attività di Antonio Alamanni, e che rispetto ai sei drammi sacri attribuiti al C. dalle antiche stampe e in parte riprodotti dal D'Ancona (Figliuolprodigo, S. Onofrio, S. Venanzio, S. Eufrasia, S. Tommaso, Cena e Passione di Cristo), si aggiungono ora altri dieci titoli (Disputa al Tempio, Resurrezione di Gesù Cristo, Conversione di S. Maria Maddalena, Un miracolo di S. Maria Maddalena, Costantino imperatore, S. Silvestro papa e S. Elena, SS. Grisanto e Daria, S. Eufemia, I sette dormienti e S. Dorotea).
Ne risulta il profilo di un intellettuale impegnato e assiduo. Forse il C. è da considerarsi tra i maggiori organizzatori della rappresaglia piagnona negli anni coincidenti con la crisi del potere mediceo; è sicuramente lo scrittore che abilita i versi al programma censorio del Savonarola (basterebbe, per convincersene, considerare le rime del C. esemplate sopra alcuni brani dei sermoni savonaroliani). E questa tendenza all'arte come frustrazione, assunzione di un materiale che non può trasfigurarsi in una forma, percorre tutto il Cinquecento fiorentino, giungendo, con o senza intenzioni di riforma religiosa e civile, sino a Michelangelo, attraverso il Benivieni, il Gelli, il Varchi. Ma esaurita tale dimensione diacronica, che completa il quadro dei lasciti quattrocenteschi individuati dal Ponte nella poesia del C., nonché delle ascendenze mediolatine sottolineate dal Bigi, resta ancora inesplorato il rapporto che connette siffatta letteratura con le manifestazioni del pieno umanesimo mediceo, rimane da valutare la sua forza d'urto nella correlazione, ovviamente sincronica, di eversione e restaurazione, di libertà e costrizione.
La libertà non è un valore, ma una prassi di rifiuto, che scarta linguisticamente ogni forma di ontologia creando nuovi spazi discorsivi, nuove possibilità di incontro e di accordo intellettuale. La sufficienza della vita, che si apre al soddisfacimento e al gioco, alla ricchezza e al potere, è il prodotto di un linguaggio che si determina come possibilità assoluta, come praticabilità a priori dell'esperienza e della realtà. La poesia religiosa di Lorenzo, di solito scarsamente citata come prova di valori umanistici, può offrirsi a dei rilievi considerevoli. Si considerino questi versi tratti dalla lauda "O Dio, o sommo bene, or come fai": "La vista in mille varie cose vòlta / te guarda e non ti vede, e sei lucente; / l'orecchio ancor diverse voci ascolta, / e 'l tuo suono è per tutto, e non ti sente: / la dolcezza comune ad ogni gente / cerca ogni senso e non la truova mai". È un miracolo d'amore che sfugge ai sensi, nella misura in cui l'apparente coordinazione cela un significato avversativo. L'esperienza umana non trova soltanto un ostacolo alla comprensione di Dio, ma letteralmente si perde, si smarrisce come parzialità itinerante di fronte ad una totalità ineffabile. Per cui è necessario il raccoglimento di una disposizione antitetica: un'esperienza solitaria e difficile da comunicare ("Muoia in me questa misera vita, / acciò che viva, o vera vita, in te; / la morte in moltitudine infinita, / in te sol vita sia, che vita se'"), che esibisce alfine il prodigio, l'orgoglio di una certezza comunicabile, mediante la praticabilità dell'"adunaton": "Allor l'occhio vedrà luce invisibile, / l'orecchio udirà suon ch'è senza voce...".
Il passaggio dalla lauda alla ballata, che è metricamente irrilevabile anche se si approfondisce per una sostanziale differenza tematica, è avvertito da Lorenzo nel senso di una "commozione" che suscita negli astanti (coloro che partecipano alla danza) l'invito rivolto dal solista della tornata. Si pensi alla bellissima "Chi non è innamorato", ove il numero delle persone e lo stesso spazio scenico in cui si compongono le varie figure vengono condizionati dal discorso selettivo dell'evocatore ("Amore in mezzo a questo ballo stia, / e chi gli è servo intorno. / ... Ognun ci s'innamori / o esca fuori dal loco tanto ornato"), sino a che la fissità di una ritrovata clausola ritmica non coincide con la tecnica di un "convincimento": "Se alcuna per vergogna si ritiene / di non s'innamorare, / vergognerassi, s'ella pensa bene, / più tosto a non lo fare". E tale ipotesi di un discorso reale, che approda nella ballata a un esito vincolante, può anche dare una forma aperta alla più rigida delle accezioni metriche: per esempio nella sestina "Quante volte per mia troppa speranza", ove l'incidenza che ciascuna delle parole-rima esercita sulla sfera semantica delle altre suggerisce combinazioni inattese e tutte da verificare (poniamo: "...non dico del morir che si fa in vita, / ma di quel, di che fanno i mortal pianti, / ch'è di vita miglior ferma speranza"), talché si crea una sorta di corresponsabilità fra l'autore e un pubblico colto circa la praticabilità di nuove strutture significanti.
Al livello popolare questo tipo di intesa viene generalmente salvaguardato. Certo, se si scorre la serie dei canti carnascialeschi del C. che sono stati editi da Ch. S. Singleton (I canti carnascialeschi..., Bari 1936) viene da supporre che alcune composizioni siano soltanto adespote piuttosto che anonime. Nel "Trionfo delle tre Parche" la morte è natura e oltre la morte è il nulla: le tre figure classiche si rivolgono a un pubblico disposto all'operazione culturale che riconverte l'istituzione in natura. Nella canzone "Guardate al cielo, il ciel creò costei", che è forse tra le più belle liriche rinascimentali, esplicito è l'invito agli studi quale pratica gratificata dallo spettacolo di una natura autosufficiente, che si rigenera in eterno e contiene in sé il principio di ogni bene. Qui l'ordine cosmico proviene dalla pacificazione dell'uomo con la vita e il patto è costituito da una concordia intellettuale che legittima la varietà dei fenomeni naturali (fantasticamente allegorizzati nella scenografia del carro trionfale) in uno spazio discorsivo articolato in parallelismi e contrasti ("... come 'l sol rende luce ad ogni stella / e 'l mar dà l'acqua a l'acque / diciam che questa è quella / ch'ogni cosa da lei vivendo nacque"). Ma anche su un piano di produzione chiaramente anonima esiste una possibilità minima di intesa letteraria e questa consiste nell'ostentata impudicizia del doppio senso in cui si accordano comicamente il rimatore e il pubblico. Al di là di quest'area di convergenza c'è il prete, il pitocco, l'evangelico povero di spirito, colui che intende la pratica sessuale come peccato della carne, tentazione diabolica. Come ogni motto di spirito anche l'allusività camascialesca crea un rapporto triadico, tra chi racconta, chi ascolta e colui alle spalle del quale si ride. Non a caso tra i più significativi temi della raccolta figura quello, di cui si ricorderà F. Berni (Le rime, a cura di E. Chiorboli, Firenze-Genève 1932) nei due capitoli "Alla sua innamorata", incentrato sull'equivoco tra frenesia erotica e possesso demoniaco, che nessun prete riuscirà mai a esorcizzare ("Canzona delle spiritate"), e l'altro che individua nella ricchezza la più elevata tra le virtù, in un ordine di valori polemicamente stravolto ("Canzona del bene"). È proprio questa esclusione che determina la volontà del dire in una società come quella medicea in cui il libero gioco della comunicazione sembra non da altro condizionato se non dall'intelligenza letteraria, e si potrebbe dimostrare che lì dove un procedimento polisemico trova modo di organizzarsi più coerentemente, di definire uno spazio letterariamente sufficiente, la poesia asserisce la felicità dell'avventura umana. L'esempio forse più perspicuo è costituito dalla "Canzona dei giostranti", un componimento in cui i vecchi lasciano ai giovani il campo delle prove d'amore votandosi, senza rimpianti, a più cauti diletti: "Senza tanto antivedere / nostra vita a caso fia, / de' sollazzi e del godere / seguirèm sempre la via, / che ci par somma pazzia miglior sorte ricercare...".
Èquesto il punto d'attacco dell'attività del Castellani. "Nostra età trapassa e fugge: / oggi prato e doman fieno" (lauda "Occhi mia, di lacrimare"): non si tratta di una metamorfosi, ma di un destino fuori del tempo, di una sentenza che condanna la vita in quanto la astrae dalla dimensione in cui praticamente si esplica. Il precipitato dei termini estremi che assediano la pianta-uomo (come non ricordare la polemica sull'impiego del tempo tra Lorenzo e Marsilio Ficino?) colpisce il potere politico in quanto potenza umana. Colui che domina gli eventi a fronte alta soggiace alla fossa, non sfugge a un destino di prostrazione, di atterramento ("ogni retto si riversa / quando vien l'ultimo giorno / ... non è campo, avello o fossa / che non mostri sua potenza": laude "Noi seguiam con pazienza"). La sorte è comune ad ogni eroe di cui vocifera il mondo: "Vedi Ercole, Sansone, il grande Ettorre: / tutti hanno mostro al vento la radice", afferma lo scrittore nella Meditatio mortis capovolgendo terroristicamente l'immagine della pianta, che era emblema dell'esistenza mentre ora assume un valore di monito alla rinuncia; rappresenta nel sonetto "Morte, che tagli tu? - No 'l vedi? Un frutto" la figura deturpata di tutto ciò che al mondo si presenta come eccellente. È un significato prescritto e immanente alle cose ciò che vieta all'uomo la loro praticabilità, che impedisce una possibile ristrutturazione significante da parte dello scrittore. Il quale, come responsabile di una forma eccedente la norma, si renderebbe colpevole di trasgredire la natura e viene quindi da essa stessa punito dal momento che non riesce a interrompere il rapporto istituzionale tra segno e significato, che si vieta uno spazio del dire legittimamente fruibile. L'oggettività della scrittura entra in competizione e sovrasta la sua soggettività, lo scrittore viene contrastato dall'uomo allo scattare di un corto circuito che è caratteristico dell'autocensura: "Vissi, bevvi, mangiai, andavo attorno; / or son qui feccia e sterco, e suono il corno, / e dato a' vermi ho tutto el corpo mio". Qui è la scrittura stessa che parla da un cartello appeso al muro del cimitero, ma non v'è dubbio che l'uso della prima persona e l'appello rivolto al lettore ("Lettor, che guardi? I' fu' ben uomo anch'io") celino la persona dell'autore. Questi potrebbe infrangere l'ordine naturale e attingere alla fama come gli eroi della letteratura e della storia solo che fosse un creatore. Alessandro, nella mitografia umanistica, è Achille meno Omero. Invece è costretto ad esibire l'impossibilità della letteratura, l'antiletterarietà di un esempio morale sempre e anonimamente rinnovabile.
La parola defraudata induce ad una fantasia distruttiva che si esercita con particolare frequenza proprio contro gli organi della voce. Il C. riduce l'uomo al silenzio, vanifica la facoltà fabulatrice e dell'intesa collettiva: o vostro riposo è una pietra dura / che serra a tutti la felice bocca" (sonetto "O miseri mortali, o gente sciocca"), "Vedi la testa ripulita e monda, / la bocca senza denti, e nulla dice" (Meditatio mortis). Privilegiato è invece il senso della vista che si esercita su scene di macabra fissità. Anche questo intento è reazionario, ritorce un tema diffuso in vari componimenti umanistici (per esempio nel rispetto di Poliziano "Allor che morte arà nudata e scossa"), in cui l'autore incita gl'innamorati a contemplare la tragica sorte di un amante non corrisposto. Il C. forza siffatto motivo sino a fare dell'appello alla vista il punto di sutura dell'aggressione discorsiva: "Non vedi, cieco, il tuo caduco ammanto / vestito a febbre, a doglie, a gotte, a tossa?" (sonetto "Uom, che vuol dir che tu te innalzi tanto"), "Che guardi tu, lettor?". Nella vertigine delle stagioni che caratterizza sempre i versi del C. l'oggetto della visione è immancabilmente il sepolcro, la scultura tombale, che rappresenta immediatamente il fuori e il dentro, la vita e il suo significato negativo. Esiste tuttavia anche un'altra sostanza diaframmatica che, impedendo la vista del di là, riflette un'immagine uguale e contraria: è lo specchio, un oggetto di fronte al quale si direbbero contraddette le entità più restie alla vanificazione, sebbene votate allo scacco per quanto appaiono materialmente resistentì (impulsi, età giovanile, organi sensoriali). Si consideri, ad esempio, l'attrazione necessitante che tale parola esercita nei versi del sonetto "Voi che guardate a questi morti intorno": "Misero a te, quanto è cieco il disio! / Ché, se tu leggi in questo rozzo specchio, / forse tu penserai che cosa è Dio. / De' apri, cieco, e non dormir, l'orecchio! / Tu vedi pur che come te fu' io: / giovane vissi, e fui canuto vecchio. / Un fuoco di copecchio / sarà la vita tua...". Da questo e da altri casi simili che si potrebbero citare appare evidente che il ricorso all'immagine specchio, della pietra funeraria, obbedisce alla volontà di una ritorsione. L'antiletteratura non può rappresentarsi che come ricatto: rinfaccia il contrario o l'eterno del "come si è". Perciò corrisponde al terrorismo di una tautologia (la morte, dirà Michelangelo, "ferma per sempre in che stato altri assale") rispetto alla sperimentabile diversità delle forme logico-reali, e non si distanzia dall'uso che il C., come tutti i rimatori di tradizione savonaroliana, fa dell'antitesi in contesti di questo tipo: "Non morendo, ognora io moro; / veggo sculto in me lo inferno / ... chi ben vive, anche ben muore; / chi ben muor, non può morire! (sonetto "Cuor maligno pien di fraude").
Ristretto in termini siffatti il margine della comunicazione, una letteratura di indirizzo popolare è la fossa comune. Il problema di rappresentare costituisce davvero la quadratura dei cerchio per il Castellani. Il quale nei drammi sacri riproduce la medesima alternativa di resistenza e di vanificazione, di egoismo e di rinuncia alla vita che informa le liriche religiose, sia che tale contrasto si articoli, nelle opere presumibilmente più antiche ("S. Onofrio", "S. Eufemia"), sul dissidio fra persecutori e martiri, sia che l'autore preferisca riproporlo all'interno di un personaggio ("Conversione di S. Maria Maddalena") ritratto prima e dopo di aver abbracciato la vera fede. I temi delle sacre rappresentazioni sono offerti al C. dalle Vitae Patrum, dalla Legenda aurea, dal Vangelo, ma la tradizione letteraria cui guarda il C. è quella che va dal Burchiello al Pulci, esplicitamente citato nella Rappresentazione dei SS. Grisanto e Daria (dice un ruffiano, incaricato di corrompere Daria: "Io son d'ogni arte bagnato e cimato, / e sempre cerco di commetter male; / e se io dicessi mie tristizie tutte, / io n'ho più dieci volte che Margutte"). Anche al contatto col Morgante comunque, la reazione del savonaroliano non lascia adito a dubbi, poiché l'alternativa cui si accennava è possibile al C. solo in quanto egli converte la dimensione iperreale, fantasticamente grottesca del linguaggio "comico" a una misura di realtà che può essere specularmente vanificata dalla figura, ad essa contraria, della virtù. Si potrebbe affermare, se non si temesse di irrigidire il discorso con la complicità di una formula, che mentre l'oggetto polemico delle laude e dei sonetti devoti è la lirica colta degli umanisti, quello dei drammi sacri è costituito dal poema popolaresco di destinazione colta. In entrambi i casi la lotta sferrata dal C. è contro la cultura, giunta al livello di rigodere intellettualisticamente della natura: "L'umana sapienza che vi guida - asserisce un distico della Meditatio mortis - di fumo e frasche e fronde vi trastulla!". Sotto questo aspetto la ripresa di canzoni popolari in alcuni drammi sacri ("Prendi il mondo come va", intonata da una brigata di truffatori nel "S. Onofrio", "La più bella arte che sia" inserita nei Sette dormienti) corrisponde, più che ad una volontà di variazione stilistica, ad un preciso fine parodistico e provocatorio che il C. consapevolmente annetteva a tutta la sua opera.
Il valore emotivo di essa è sempre connesso alla manifestazione di un adempimento scritturale. Perciò non sono tanto caratteristici i quarantadue Evangelii della Quaresima, ove la coincidenza con il testo sacro viene compromessa dal procedimento esornativo dell'"amplificatio", quanto alcuni componimenti come "Signore, io pur vorrei" ("Cor inundum ad te, Domine, lavabo: / soccorri el servo tuo, pietoso Dio / ... Omè, che 'l vizio rio / m'ha più che neve al sole arso e distrutto! / Però senza alcun frutto / fugiunt velut umbra dies mei"), dove l'apparente accordo tra la lingua dell'uso e quella della necessità sfuma in una dissolvenza che compromette l'orante; ovvero come "Anime afflitte e tribulate siàno", una serie di quartine rimate secondo lo schema a, a, a, b; c, c, c, b, in cui la lentezza del ritmo sdrucciolo sostenuto dai primi tre versi si interrompe per la regolarità del quarto verso, che sembra peraltro più breve a causa dell'enjambement:fuga della vita e perennità della sentenza ("Chi ci vedesse in quelle fiamme incedere, senza sperare al ciel potere ascendere, / forse che gli dorrebbe indarno spendere / el tempo che per noi si spendé invano").
Tali versi determinano anche una subordinazione difficilmente superabile. L'esistenza non può essere rappresentata indipendentemente dal suo castigo, e la norma include la colpevolezza dell'uomo che ha bisogno di perpetuare il peccato onde ristabilire l'ordine della Scrittura. Così il C. si esprime nelle Stanze in laude della Croce: "Il servo di peccar, Jesù, non resta / ed una lancia il divin petto isdruce. / ... È questa quella faccia sì formosa / dove si pasce el cielo e '/ paradiso ? 1 che vuol dir ch'io la veggo si lebrosa? / chi t'ha nel sangue a questo modo intriso?". Mentre Lorenzo, in un testo ispirato da non dissimili intenzioni laudative ("Vieni a me, peccatore"), non aveva esitato a risarcire la sostanza del sacrificio con gli smaglianti segni della visione profetica ("Ebro di caritate così 'l vide Esaia: / rosse e di vin bagnate le sue vesti paria: del turculare uscia / il vin: questa è la croce e 'l gran dolore"). Dalla differenza tra i due componimenti si misura una distanza di civiltà. La servitù ripristinata dal C. non è solo teologica, ma istituzionale nel senso più ampio del termine, poiché è la legge l'opera del servo, del suddito, del peccatore. Il servo determina la necessità della prescrizione e necessariamente le sopravvive, quali che siano le forme d'autorità che si impone la cultura. Questa è la ragione per cui la figura e l'opera del C. poterono evadere dall'età di Lorenzo a quella di Machiavelli. "Se ingrato è il servo, che sarà il signore?".
Bibl.: Sull'identificazione delle stampe adespote e di fortuna popolare, cfr. A. Cioni, Bibliogr. delle sacre rappresentaz., Firenze 1961, ad Indicem; e Id., Lapoesia religiosa, i canti agiogr. e le rime d'argomento sacro, I, Firenze 1963, ad Indicem. Recentemente il problema è stato ripreso nel più attendibile scritto dedicato al C., la monografia di G. Ponte, Attorno al Savonarola. C. C. e la sacra rappresentazione in Firenze tra '400 e '500, Genova 1969. Il medesimo studioso ha provveduto a una notevole raccolta di scritti del C. (Versi di C. C., in Studi di filologia e letter., I [1970], pp. 281-352). Entrambi i contributi sono stati recensiti da E. Bigi, in Giorn. stor. della lett. ital., CL (1973), pp. 130 ss. Cfr. inoltre G. Corsi, Laude di C. C., ibid., pp. 68-76. A puro titolo indicativo segnaliamo che la più autorevole silloge cinquecentesca di versi del C. è costituita dall'Opera nova spirituale, Venezia 1515 e ancora 1521 e 1525;gli Evangelii della Quaresima furono ristampatida G. C. Galletti insieme all'edizione Pacini di Laude vecchie e nuove..., Firenze 1863; i drammi sacri editi da A. D'Ancona furono inscritti nelle Sacre rappresentazioni dei secoli XIV, XV e XVI, Firenze 1872. Per la biografia del C. resta fondamentale lo studio di F. Avonto, La vita di C. C. secondo nuovi documenti, in Riv. delle bibl. e degli archivi, XXXIV (1924), pp. 92-116, ma appunti sul C. figurano nel maggiori lavori dedicati al Savonarola (di Villari, Ferrara, Schnitzer). Per un panorama esauriente su "La fortuna e la critica del Castellani" si rimanda al cap. I di G. Ponte, Attorno al Savonarola, cit., pp. 7 ss.