CASTELFIDARDO (A. T., 24-25-26)
Borgo medievale in provincia d'Ancona, posto su un colle, a 199 m. s. m., a dominio del bacino deltale del Musone. La popolazione del comune era di 6414 ab. nel 1881, di 6860 nel 1921, dei quali 2101 nel capoluogo. Il territorio (kmq. 32,70) è costituito di fertilissime basse colline e piane deltali, irrigate dal Musone e dall'Aspio. Industria caratteristica è quella delle armoniche, sorta nel 1864, per opera di Paolo Soprani; fiorentissima è la bachicoltura. Castelfidardo ha di notevole l'ossario e il monumento commemorativo della battaglia del 18 settembre 1860, opera di Vito Pardo.
Storia. - Il castello si vuole fondato dai cittadini osimani profughi per l'assedio posto a Osimo da Belisario; si fa anche il nome di un Giscardo che li avrebbe guidati, da cui il nome di Castel Giscardo, divenuto in seguito, fino a tutto il sec. XV, Castel Ficardo (Castrum Ficardi), poi Castelfidardo. Fin dal sec. XII ebbe vita comunale autonoma. Appartenne alla parte ghibellina. Rovinato da Enzo, figlio di Federico II (1240), il castello fu poi restaurato da Gregorio IX. Il re Manfredi ne diede l'investitura a Rinaldo di Brunforte (1260); ma nel 1281 passò sotto l'immediata protezione della Chiesa. Scomunicato di nuovo da Clemente V (1309), perché alleatosi con Ancona ai danni di Osimo, tornò definitivamente in potestà della chiesa ai tempi del cardinale Albornoz (1354). Nella prima metà del sec. XV fu di Carlo Malatesta e poi di Francesco Sforza, indi seguì le sorti della Marca sotto il dominio della Chiesa, ma fino alla metà circa del sec. XVI ne fu contesa la giurisdizione tra Ancona e Osimo.
Bibl.: Statutorum ecclesiasticae terrae Castri Fidardi volumen, Macerata 1588; G. Cecconi, La storia di Castelfidardo dalla prima origine del castello a tutta la prima metà del secolo XVI, Osimo 1879; C. Romiti, Castelfidardo nei tempi antichi e nei tempi moderni, Firenze 1910.
La battaglia di Castelfidardo (18 settembre 1860). - Considerata da un punto di vista esclusivamente militare la battaglia di Castelfidardo (l'azione si svolse propriamente attorno alla località detta delle Crocette) fu in realtà un combattimento di modeste proporzioni, ma le sue conseguenze furono politicamente decisive e deve per questo essere annoverata fra i più rilevanti fatti d'armi della storia d'ItaliaMilitarmente rese vana la difesa di Ancona e aprì all'esercito italiano la via di Napoli attraverso il territorio pontificio, e politicamente fu il colpo di grazia alle speranze dei legittimisti d'Europa circa un possibile intervento austriaco. Tutto ciò all'infuori del duplice obiettivo raggiunto: la conquista delle Marche e la distruzione dell'esericito nemico.
L'11 settembre 1860, dopo una nota diplomatica del ministro Cavour al cardinale segretario di Stato Antonelli, il IV e il V corpo d'armata italiani passavano il confine al Tavullo, seguendo il'primo la via litoranea e il secondo la val Tiberina. L'esercito pontificio, agli ordini del generale Lamoricière, mantenutosi fino allora in posizione centrale fra Terni Spoleto, mosse verso Loreto con l'intendimento di appoggiarsi alla fortezza di Ancona, in attesa degli sperati aiuti stranieri. Questo movimento era compiuto il giorno 18 e diede luogo a una battaglia d'incontro. Le forze italiane del IV corpo, al comando del generale Cialdini, giunte fra Osimo e il piano d'Aspio ammontavano a 17.000 uommi con 42 cannoni, ma al combattimento non presero parte che la brigata Regina, i tre battaglioni bersaglieri 11, 12 e 26, i lancieri di Novara e due batterie, in tutto cioè 4800 uomini, 450 cavalli e 14 pezzi. Delle forze pontificie (16-17 mila combattenti, divisi in tre brigate) due sole brigate (6800 uomini, 16 cannoni), comandate dai generali De Pimodan e Lamoricière, presero parte all'azione.
Le brigata Pimodan, dopo aver marciato per sei giorni fra i monti senza riposo e con scarsi rilornimenti, aveva raggiunto a Loreto la sera del 17 l'altra brigata, che l'aveva preceduta. Nella medesima sera i due comandanti decisero per il mattino seguente di prendere l'iniziativa. Fu stabilito che Pimodan avrebbe trattenuto l'avversario in un combattimento temporeggiante, mentre Lamoricière avrebbe, per la via di Urbana, raggiunto Ancona. Senza che il Cialdini lo prevedesse, l'attacco fu sferrato improvviso verso le nove dalla brigata Pimodan, su due colonne. Il Pimodan riuscì a ricacciare gli avamposti dei bersaglieri italiani che ripiegarono su Monte Oro. Poco dopo però giungeva il 10° fanteria comandato dal tenente colonnello Bossolo, seguito dal 9° reggimento che fu inviato a guardare i passi dell'Aspio. La lotta si accese allora da ambo le parti, rinforzata dalle truppe del Lamoricière che, arrestando la loro marcia, vennero a schierarsi a Cascina Camilletti. In questo momento il Pimodan cadeva ferito e veniva trasportato a Cascina Catena. Cercò il Lamoricière di porre subito un argine all'incalzare della brigata Regina e di aggirarla sul fianco, ma il 1° reggimento estero dovette ripiegare di fronte all'urto del 10° fanteria, e trascinò con sé i reparti retrostanti. Era circa mezzogiorno quando lo stesso Lamoricière, vista la battaglia perduta, affidò il comando al colonnello de Coudenhove e gli ordinò di raggiungere Ancona dove egli stesso si diresse con una scorta di pochi cavalieri. Intanto l'ondata della brigata Regina e dei bersaglieri riusciva a vincere la valorosa resistenza dei cacciatori del maggiore Fuckmann, e la cavalleria italiana guidata dal generale Griffini procedeva a un energico inseguimento. Alle ore 14 il combattimento era finito; esso era costato alle truppe italiane 60 morti, fra cui sei ufficiali, e ai pontifici 88 morti e 600 prigionieri.
Bibl.: A. de Segur, I martiri di Castelfidardo, Bologna 1862; Narrazione della battaglia di Castelfidardo, scritta da un romano, Roma 1862; A. Di Prampero, La battaglia di Castelfidardo, ricordi personali, Udine 1896.