DELLA TORRE, Cassone (Casso, Castonus, Cassono, Castone, Gastone)
Fu figlio secondogenito di Corrado detto Mosca, figlio di Napoleone signore di Milano e della seconda moglie di costui, Allegranza di Guidone da Rho (solo il Castiglioni lo considera nato dalla prima moglie di Corrado, Valentina di Pietro Visconti); ci sono ignoti il luogo e la data della nascita (il Battistella lo dice nato in Friuli, ma non vi è nessun elemento che possa suffragare questa affermazione).
Lasciò Milano insieme con altri esponenti della sua famiglia dopo la sconfitta di Desio del 21 genn. 1277 e si rifugiò in Friuli. Grazie al prozio Raimondo, patriarca di Aquileia dal 1273, il 13 apr. 1296 ottenne conferma dell'elezione a canonico di Cividale, insieme col fratello minore Napoleone detto Napino ed un altro parente di nome Claudio, e ricevette un canonicato in Aquileia (Bianchi).
Rientrò a Milano nel 1302, dopo la cacciata dalla città di Matteo Visconti e di suo figlio Galeazzo, e fu canonico della cattedrale mentre era arcivescovo Francesco Fontana da Parma, nominato al soglio episcopale milanese da papa Bonifacio VIII nel 1296. Dopo la morte di Francesco Fontana, avvenuta ad Angera il 6 febbr. 1308, i canonici della cattedrale di Milano, data la debolezza del potere pontificio seguita al trasferimento della sede papale ad Avignone, procedettero in tutta fretta alla nomina del nuovo arcivescovo, esercitando per l'ultima volta un diritto che spettava loro e per impedire in tal modo che il pontefice, usufruendo di una recente consuetudine, scavalcasse il capitolo imponendo, tramite una nomina diretta, un arcivescovo di suo gradimento. I canonici giunsero, con voto unanime, all'elezione del D. alla cattedra arcivescovile il 12 febbr. 1308.
Poiché dal dicembre 1307 era capitano del Popolo Guido Della Torre, figlio di Francesco e perciò cugino germano del padre del D., sembrò che, tramite la famiglia torriana, si potesse costituire a Milano un'effettiva unità tra potere politico e potere religioso. Alla realizzazione di tale disegno Guido contribuì non solo facendo pressione sugli ordinari del capitolo metropolitano perché fosse eletto il suo congiunto, ma si preoccupò di fornire al D. un seguito di adeguato decoro quando quest'ultimo si mise in viaggio per ottenere la conferma papale. Alle spese da sostenere parteciparono anche molte altre famiglie nobili favorevoli ai Torriani. Il D., messosi subito in cammino, si recò a Cortona dove risiedeva il legato papale, il cardinale Napoleone Orsini e dove pare giungesse alla fine del mese di marzo (secondo il Corio ricevette conferma della dignità arcivescovile il giorno 26); poi, nel ritorno verso Milano, giunse a Lodi il 23 aprile, e, a Chiaravalle, fu accolto dal popolo che, festante, lo accompagnò fino in città. Infine il 12 ottobre il vescovo di Novara Uguccione Borromeo, ricevuta delega papale da Clemente V, si recò a Milano e confermò il D. arcivescovo della città lombarda, mentre un messo pontificio consegnava al presule la croce e il pallio secondo l'antico privilegio della sede milanese.
Ma la presenza di due esponenti dei Della Torre alle massime cariche cittadine, invece di rafforzare il potere della famiglia, fu all'origine della sua disfatta.
Nel 1309 era scoppiata la guerra tra il papa e Venezia per la nomina del successore di Azzo VIII d'Este signore di Ferrara, morto senza eredi maschi, contrasto che traeva origine, tra l'altro, da precisi motivi economici che richiedevano da parte della città lagunare il controllo dell'Adriatico settentrionale. Dopo avere scomunicato Venezia, che aveva occupato Ferrara, il papa nominò suo ambasciatore il cardinale Arnaud de Pelagrue il quale, recatosi a Milano nel 1309, dove fu accolto con grandi onori, e data pubblica lettura della scomunica, invitò il D. a raccogliere un esercito e a seguirlo a Bologna, dove si sarebbe dovuto congiungere all'armata pontificia e a quella fornita dai vescovi delle altre città, che avevano aderito all'invito del papa a procedere in armi contro Venezia.
Il D., con alcuni dei suoi fratelli e consorti, seguì il de Pelagrue nella città emiliana ed unì il suo esercito a quello che già vi si trovava raccolto e che inflisse una dura sconfitta alla Serenissima. Forte del successo riportato, l'arcivescovo rientrò trionfalmente a Milano il 21 sett. 1309. Ma durante il suo soggiorno bolognese aveva suscitato i sospetti di Guido. Questi, infatti, era convinto che il D. avesse tramato contro di lui d'accordo con Galeazzo Visconti e i suoi alleati, quali il Correggio, Matteo Maggi signore di Brescia e Manfredo Beccaria, tutti militanti nelle file pontificie contro Venezia.
Secondo le accuse del capitano milanese essi avrebbero progettato di attaccare Borgo San Donnino per costringere Guido a lasciare Milano e, procedendo dal Bresciano, sarebbero entrati nel Milanese dalla parte di Cassano, il cui castello apparteneva all'arcivescovo, per impadronirsi di Milano ed affidarne la signoria allo stesso D. (Giulini). La congiura sarebbe stata resa nota da alcuni complici pavesi che, nello stesso tempo, avrebbero dovuto appoggiare il disegno di Manfredo Beccaria di attaccare Pavia e di uccidere il conte Filippo di Langosco, sostenitore di Guido. È difficile stabilire quanto vi fosse di attendibile in queste gravissime accuse. Comunque, a suffragare i propri sospetti verso la lealtà del D., Guido sottolineava che due fratelli dell'arcivescovo erano ammogliati con due nipoti della moglie di Matteo Visconti: Florimonte, detto Moschino, con una figlia di Ottone conte di Cortenuova e Napino con una figlia di Ottorino Borri; inoltre, proprio durante la permanenza a Bologna, il D. aveva trattato il matrimonio di un altro suo fratello, Pagano, con una figlia di Matteo Maggi di Brescia, la cui altra figlia era nuora di Gilberto da Correggio, signore di Parma.
Veri o falsi, questi furono comunque i motivi con i quali Guido giustificò dinanzi al Consiglio generale cittadino, convocato per l'occasione, l'attacco proditorio compiuto il 1º ottobre contro il palazzo arcivescovile. Egli, infatti, aveva fatto occupare da uomini in armi l'arcivescovato e, dopo averne fatto sprangare le porte, aveva arrestato il D. e i suoi fratelli Pagano, Adoardo e Moschino. Gli altri due fratelli del D. erano sfuggiti all'arresto perché si trovavano fuori Milano: Rinaldo era nel castello di Trezzo di cui era custode e nel medesimo castello aveva trovato rifugio, dopo una fuga fortunosa, anche Napino avvertito di quanto stava avvenendo in città mentre si trovava a caccia col falcone. La notte successiva, mentre il D. veniva trattenuto nel palazzo arcivescovile, i suoi fratelli furono condotti prigionieri nel castello di Angera. A questo punto, con l'intento di riportare la calma in città e di riconciliare i due ramidella famiglia, intervennero Pagano Della Torre, figlio di un altro prozio del D., Caverna, vescovo di Padova dal 1302, gli ambasciatori delle città di Como e di Bergamo, Filippo Langosco di Pavia, Antonio Fissiraga di Lodi, Guglielmo Brusati di Novara, Simone da Comobiano di Vercelli e Venturino Benzone di Crema; tentativo difficile e in parte vano che diede luogo ad un accordo sottoscritto dal D. e da Guido il 29 ottobre. Il D. fu liberato e costretto all'esilio dietro assicurazione che non avrebbe usato armi spirituali contro Guido e la sua famiglia né contro Milano, mentre Rinaldo e Napino avrebbero dovuto lasciare il castello di Trezzo e prendere anch'essi la via dell'esilio. Il castello fu infatti consegnato al vescovo Pagano e i due fratelli si rifugiarono a Padova.
Il giorno stesso dell'accordo il D. partì da Milano per Lodi diretto a Bologna presso il legato pontificio de Pelagrue al quale chiese protezione. Questi, non sentendosi affatto vincolato dal giuramento fatto dal D., pronunciò l'interdetto contro Milano, contro Guido e i figli di lui Francesco e Simone e i loro sostenitori, mentre il D. brigava per sollecitare la discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo. Enrico giunse nella penisola nel 1310 e il D. si recò ad Asti - dove il 24 novembre fu presente all'atto di investitura del conte di Savoia - per incontrarlo e per chiedere il suo intervento affinché venissero liberati i suoi fratelli ancora prigionieri ad Angera. Ad Asti giunse, poco dopo, anche Matteo Visconti. Enrico indusse i due fuorusciti milanesi a giungere ad un accordo tra le due famiglie: i preliminari ebbero luogo nella casa dove aveva preso dimora il vescovo di Basilea, consigliere regio; la convenzione fu stesa il 2 dicembre nella casa di Simone Rovero, dove risiedeva Matteo, e il 4 dicembre fu sottoscritta dal D. e da Napino, che si impegnavano a nome degli altri fratelli e dei loro sostenitori, e da Matteo Visconti per conto di Galeazzo, Giovanni, Luchino, Marco, detto Balatrone, e Stefano Visconti e dei fuorusciti ghibellini che lo avevano indicato come loro procuratore.
Nell'accordo, il cui contenuto è interamente riportato dal Corio (pp. 598-602), per prima cosa venivano perdonati i danni e le ingiurie ricevute; poi Matteo prometteva, tra l'altro, che non sarebbe intervenuto contro le città di Bergamo, Como, Cremona, Novara, Vercelli, Lodi, Tortona, Pavia, e Crema senza il benestare del D. e che anzi assicurava loro ogni aiuto, purché si mantenessero fedeli all'arcivescovo; che egli e suo figlio Galeazzo rinunciavano in favore del D. ad ogni vicariato, capitanato o altra carica che avessero in Milano, purché i Torriani non appoggiassero il dominio di altri sulla città; che il podestà e i giudici di Milano sarebbero stati eletti a sorte, mentre le altre cariche e le magistrature milanesi sarebbero state assegnate secondo il parere del D. e che egli, Matteo, avrebbe usufruito solo della metà degli stipendiati milanesi, mentre l'altra metà sarebbe stata adibita alla protezione dell'arcivescovo, a patto che quest'ultimo si impegnasse a metterli a disposizione della Comunità in caso di bisogno. Inoltre il Visconti assicurava che non si sarebbe intromesso nel governo delle terre appartenenti alla sede arcivescovile e che avrebbe aiutato il D. a rientrare in possesso del castello di Angera, a conservare il castello di Trezzo e a sfruttare, secondo il suo diritto, le acque dell'Adda e del Ticino, che sarebbero stati salvaguardati i diritti dei fratelli del D. sui loro possessi a Vaprio, Bregnano, Trezzo, e Castelletto e che si sarebbe dichiarato vassallo dell'arcivescovo di Milano al quale avrebbe giurato fedeltà.
Per evitare qualunque possibilità di lite, i Visconti e i Della Torre si impegnavano ad acquistare beni che fossero lontani reciprocamente di almeno due miglia ed inoltre fu stabilito che i beni di un Torriano o di un Visconti che venisse bandito dalla città sarebbero andati rispettivamente al D. e a Matteo. Furono anche fissate le norme riguardanti l'assegnazione della dote, nel caso venissero contratti matrimoni tra le due famiglie, e si stabilì che il D. sarebbe stato giudice delle offese o dei danni ricevuti in passato o che avrebbero potuto aver luogo successivamente e che tale convenzione sarebbe stata rinnovata o prolungata a suo piacimento. Infine, per ogni eventuale contravvenzione a tale accordo, era prevista una multa di 30.000 fiorini d'oro.
Il D. intanto aveva ottenuto la liberazione dei fratelli concessa da Guido preoccupato dalla vicinanza di Enrico VII che, diretto a Milano da Asti, si era spostato a Casale, poi a Vercelli e a Novara. In questa città l'arcivescovo di Milano, controvoglia, ma cedendo alle insistenze della coppia imperiale, consacrò vescovo di Vercelli Uberto Avogadro. Giunti a Milano con un folto seguito, in cui erano il D. e Matteo che guidavano le genti d'arme milanesi, Enrico VII e la moglie Margherita di Brabante risiedettero, dapprima nel palazzo arcivescovile, messo loro a disposizione dal Della Torre. Subito Enrico si adoperò per conciliare i partiti avversi emanando regi diplomi e il D. figura come capo dei Torriani tra coloro che erano presenti alla promulgazione di tali decreti; quindi, dopo avere discusso e stabilito il cerimoniale, il D. incoronò Enrico VII re d'Italia nella chiesa di S. Ambrogio il 6 genn. 1311.
Ben presto, però, nonostante gli accordi di Asti, i rapporti tra il D. e Matteo Visconti si guastarono. Uno dei fratelli di quest'ultimo, Marco, assalì la casa di Filippo da Vaprio a porta Orientale dove risiedeva il D. che fu costretto a fuggire e a rifugiarsi nel suo castello di Cassano. Poco dopo anche il castello di Cassano fu attaccato da Mulo di Groppello e il D. si spostò a Cremona, mentre i Visconti si spartivano i possessi dell'arcivescovo, possessi di cui il D. si era potuto da poco riappropriare in seguito a delibera imperiale. Il 5 luglio 1311, comunque, il D. si trovava in esilio a Bergamo dove convocò il sinodo provinciale, le cui sessioni si svolsero tra il 5 e il 9 luglio nella chiesa di S. Vincenzo Martire.
Si tratta dell'ultimo concilio provinciale pretridentino, che, sebbene convocato principalmente per motivi politici, fu buona occasione per ribadire e chiarire norme disciplinari. Tra gli altri problemi affrontati, fu definito l'abito dei sacerdoti, fu stabilita la dipendenza del clero regolare dal papa anziché dall'autorità diocesana, furono decise severe pene contro gli usurpatori delle terre e dei diritti ecclesiastici, fu condannato e bollato con infamia l'esercizio dell'usura, ribadita la proibizione di citare gli ecclesiastici davanti ai tribunali secolari e imposto al clero e al popolo fedele l'onere di sovvenire ai bisogni del vescovo qualora questi venisse cacciato ingiustamente dalla sua città; furono condannati i poteri secolari che ostacolassero o impedissero l'esecuzione degli ordini ed infine furono precisati alcuni peccati, in numero di più di trenta, che per la loro gravità avrebbero potuto essere assolti soltanto dai vescovi. Tali deliberazioni vennero ordinate in trentaquattro capitoli, preceduti da un'introduzione e seguiti da una chiusa, e diffuse nelle diocesi.
Poco dopo la conclusione del concilio il D. si recò a Brescia, dove era il campo di Enrico VII, e si riconciliò con Matteo Visconti: a suggello di questo nuovo accordo si stabilirono le nozze tra un figlio di Pagano, fratello dell'arcivescovo, e Riccardina figlia di Galeazzo Visconti. Fu però accordo di breve durata, che Matteo, ormai vicario imperiale di Milano, ben presto disconobbe, continuando a costringere il D. all'esilio. Pare sia stato proprio in seguito a ciò che questi si recò una prima volta a Marsiglia per ottenere l'appoggio di papa Clemente V; nel 1312 comunque si trovava a Pavia dove i guelfi conclusero alleanza con Roberto d'Angiò re di Napoli, Successivamente, il D. sarebbe nuovamente partito per la Francia dove sarebbe rimasto fino alla morte del pontefice avvenuta il 20 apr. 1314, otto mesi dopo la morte dell'altro suo protettore, Enrico VII.
In quello stesso anno il D., tornato a Pavia, comminò la scomunica a Matteo Visconti relativa ai fatti accaduti tre anni prima, quando, oltre ad averlo cacciato da Milano, i Visconti e i loro sostenitori avevano saccheggiato i monasteri, compiuto ogni sorta di violenze contro monaci e suore. Dopo la conquista di Pavia nel 1315, da parte di Matteo Visconti, il D. fu costretto ancora una volta alla fuga. Di nuovo si recò presso la corte papale sperando nella protezione del nuovo papa Giovanni XXII, eletto nell'agosto del 1316. Questi, però, intenzionato ad instaurare buoni rapporti con i Visconti, deluse le aspettative del D. che, persa ogni speranza di rientrare a Milano, rinunciò alla cattedra arcivescovile ambrosiana. In cambio il papa, anche dietro pressione del re Roberto di Napoli, il 10 genn. 1317 lo nominò patriarca di Aquileia, sede che era rimasta vacante dalla morte di Ottobono Razzi (avvenuta il 13 genn. 1315) e nominò arcivescovo di Milano Aicardo dei frati minori, già procuratore del D. presso la corte pontificia.
La scelta del papa di nominare il D. alla sede aquileiese, avvenuta il 31 dic. 1316, contrastava però con la delibera del capitolo locale, che aveva eletto e proposto alla conferma papale l'arcidiacono Gillo o Gillone di Villalta, rifiutato già da Clemente V con il pretesto dei suoi natali illegittimi. Il 1º genn. 1317, a Gemona, era stata ordita una congiura contro il nuovo patriarca, alla quale aderirono Federico di Pers, Artuico e Guglielmo di Prampero e Rantolfo di Villalta che ricercarono anche l'aiuto di Padova in guerra contro Cane Della Scala, alleato di Enrico conte di Gorizia. La trama tuttavia non ebbe seguito e già l'11 gennaio il D. si fece premura di inviare notizia della propria nomina alle città e ai signori del Friuli e alla città di Treviso, in continuo contrasto con il patriarcato di Aquileia per il possesso di alcune terre di confine, alla quale assicurò la sua leale intenzione di giungere ad un accordo e di mantenere cordiali relazioni di buon vicinato.
Analogo problema esisteva anche con Enrico conte di Gorizia per il controllo di alcuni castelli; il conte, quindi, si affrettò ad inviare a Carpentras presso il D. un proprio messo che lo rassicurasse circa la sua volontà di tener fede agli accordi già da tempo intercorsi con la sede patriarcale. La questione non si risolse in modo né rapido, né semplice se il 10 sett. 1317 il D., forte dell'appoggio papale che intendeva favorire gli interessi guelfi in Italia, scriveva da Avignone al feudatario friulano lamentando la mancata restituzione del castello di Torre che Enrico non solo continuava ad occupare, ma dove aveva anche rafforzato le proprie posizioni. Il 20 novembre dello stesso anno il D. richiedeva poi, con un'altra lettera, che venissero rese al patriarcato le città di Sacile e Caneva che il conte di Gorizia aveva arbitrariamente ceduto a Guecello da Camino.
Non potendo il D. raggiungere immediatamente Aquileia, vi inviò forse come proprio luogotenente il fratello Moschino; aveva nominato tesoriere e suo vicario generale con amplissimi poteri un altro fratello, Rinaldo, che si trovava in Friuli e che già ai tempi di Raimondo Della Torre aveva ricoperto la prima delle due cariche e con il quale mantenne fitta corrispondenza a proposito soprattutto delle ingenti somme di denaro necessarie per il pagamento del servizio comune e dei servizi minuti. Il problema economico, infatti, assillò non poco il D., come si desume dall'incarico dato a Lombardino Della Torre, già arciprete di Monza, poi rifugiatosi in Friuli, canonico di Aquileia, di trovare prestiti e di impegnare calici ed altri oggetti preziosi per sovvenire alle necessità del patriarca.
Il D., comunque, non raggiunse mai la nuova sede: infatti il 28 maggio 1318 noleggiò una galea per 350 fiorini d'oro e da Marsiglia si recò a Napoli per rendere omaggio a re Roberto presso il quale si trattenne per circa un mese. Poi, risalendo la penisola, si diresse verso Aquileia, ma vicino a Firenze, in seguito ad una caduta da cavallo, si fratturò una gamba e morì il 20 ag. 1318. Secondo un'altra versione, sarebbe morto soffocato dal suo stesso cavallo che gli sarebbe caduto addosso dopo essersi impennato. Ebbe funerali solenni e fu sepolto nel chiostro di S. Croce dove gli fu eretto un monumento funerario, secondo alcuni opera di Agostino da Siena e da altri attribuito invece a Tino da Camaino.
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