LONGINO, Cassio (Λογγῖνος)
Fu tra i dotti più rappresentativi del sec. III d. C., letterato e filosofo neoplatonico, partecipe d'un largo movimento d' idee che si svolgeva specialmente nelle provincie orientali dell'impero romano. Era oriundo - a quanto pare - della regione di Palmira. Suo zio materno era Frontone (da non confondere col maestro di Marco Aurelio), che insegnava retorica in Atene. Anche L. peregrinò per le varie scuole d'Oriente: in particolare fu ad Alessandria d'Egitto, discepolo di Ammonio Sacca e del pagano Origene, che introducevano allora una nuova interpretazione della filosofia di Platone, a cui s'andava formando Plotino. Poi fu ad Atene, dove, succeduto allo zio Frontone, tenne scuola egli stesso di retorica e di filologia, rivolgendosi in special modo all'esegesi dei classici. Da Atene, quando già era salito in grande riputazione, dovette allontanarsi, forse nel 268 d. C., in seguito a un'invasione di Goti; e passò in Siria, chiamato da Zenobia regina di Palmira, che lo scelse come suo maestro di greco, e anche come consigliere o ministro, nel disegno di fondare in Asia un vasto impero unificante pagani, cristiani e giudei. Quando, nel 273, Zenobia fu sconfitta da Aureliano, questi condannò a morte L., considerandolo autore d'una fiera epistola (conservataci da Vopisco nella Historia Augusta) con la quale la regina aveva rifiutato di arrendersi.
L. non era filosofo nel pieno senso della parola; la sua inclinazione principale era per la filologia, che d'altra parte egli cercava di avvivare col nutrimento della fede e del pensiero. La filologia consisteva nella lettura e nell'interpretazione degli autori, e faceva capo alla critica letteraria. L. s'acquistò fama specie come critico letterario; tanto che nell'età bizantina era considerato sommo rappresentante di questi studî insieme col solo Dionisio d'Alicarnasso.
Delle sue opere conosciamo molti titoli; ma scarsi sono i frammenti pervenutici. Alcune erano di contenuto specificamente filosofico; altre di argomento grammaticale, o lessicografico (p. es. le Locuzioni di Antimaco, il poeta caro a Platone) o retorico; la maggior parte erano di critica letteraria: Questioni omeriche, Problemi omerici e loro soluzioni, Se Omero fosse filosofo, Quel che i grammatici interpretano come storico, alterando la storia, ecc. È anche citata una sua raccolta di Conversazioni filologiche (Φιλόλογοι ὁμιλίαι) in 21 libri. Poco si può dire del suo indirizzo e dei suoi gusti. Forse egli si distaccava dalla comune tendenza dei neoplatonici contemporanei, p. es. di Porfirio, che nell'interpretazione della poesia, specialmente di Omero, cercavano mediante l'allegoria riposti significati filosofici e storici.
Lo pseudo-Longino.
Un puro e semplice errore ha legato per secoli il nome di L., al celebre trattato anonimo Del sublime (Περὶ ὕψους), che è uno dei più importanti e felici documenti della critica letteraria nell'antichità. Da un esame intrinseco dell'opera risulta che l'autore appartiene ai primi decennî del sec. I d. C. Infatti era stato discepolo del celebre maestro di retorica Teodoro di Gadara, i cui insegnamenti si riflettono abbastanza nelle dottrine Del Sublime. Venuto, a quanto pare, dall'Oriente, egli viveva in Roma, dove ammaestrava giovani di nobili famiglie (come un certo Postumio Terenziano, a cui il libretto è indirizzato). E vivendo a Roma, egli ci dà un quadro molto vivo dell'impero volgente verso l'assolutismo: poiché sulla fine dell'opera, parte in persona propria, parte nella persona di un innominato filosofo, fa dipendere il decadimento dell'eloquenza e delle lettere dal decadimento politico e morale dell'epoca, ossia dalle condizioni di schiavitù e di viltà in cui, nonostante i vantaggi della "pace universale", i popoli erano costretti.
Il trattato Del sublime è diretto contro un'omonima opera, che non ci è pervenuta, di Cecilio da Calatte. Nella controversia dell'uno contro l'altro trattatista si riflettono i principî di due opposte scuole di retorica, che erano quella degli Apollodorei (da Apollodoro di Pergamo, maestro d'Ottaviano Augusto) e quella dei Teodorei (dal già menzionato Teodoro di Gadara, maestro di Tiberio, a Rodi). Gli Apollodorei ritenevano che l'eloquenza dovesse essere soggetta a regole di valore scientifico e assoluto. I Teodorei invece tendevano a scalzare tutte le regole, le classificazioni, gli schemi, ossia dimostravano che la natura dell'eloquenza non è scienza ma arte. Questa antitesi di principî trovava la sua espressione, o la sua applicazione, in molti altri campi (oltre a quello della retorica vera e propria e della poetica): p. es. nel campo della grammatica; nel diritto; e similmente in una determinata questione letteraria, quale è questa che concerne il sublime (ὕψος).
Veramente il concetto del sublime, come lo intende il nostro autore, investe tutta quanta la letteratura o l'arte; poiché s'identifica, in sostanza, con tutto ciò che all'arte dà valore di grandezza. L'anonimo autore non si cura di definire con un'infinità di esempî, ossia di schemi e di classificazioni, che cosa sia il sublime (come aveva fatto Cecilio), bensì vuole insegnare "in qual modo e per quali vie si possano sollevare le anime nostre a quella certa altezza", in qual modo e per quali vie si possano costituire o restituire dentro di noi le condizioni necessarie a una grande arte. Perciò il suo insegnamento non è semplicemente o strettamente letterario: è morale, e culmina nell'accennata questione in cui fa dipendere il decadimento della letteratura dal decadimento civile dell'impero. La maggior parte della trattazione consta d'indagini sulle "fonti" del sublime. Attraverso a queste indagini, l'autore penetra, per lo più, nelle vere radici dell'arte, dimostrando non solo un'eccezionale finezza di gusto, ma anche una larghezza d'idee tutt'altro che comune. Sotto la superficie qua e là convenzionale e scolastica, corre un pensiero robusto, avvivato di passione; l'apparenza precettistica della materia ai dissolve nell'ardore del sentimento; la letteratura non è concepita come qualcosa che possa insegnarsi più o meno artificialmente dall'esterno, con l'uso dei modelli bensì come una realtà interiore che cresce nella mente, nel cuore e anche nel carattere dell'uomo, qualcosa di congenito col carattere degl'individui e con le condizioni storiche dell'ambiente. Il comune concetto della poesia come "mimesi", come rappresentazione naturalistica della realtà, è superato abbastanza decisamente; in luogo della "mimesi" si delinea la "fantasia", la quale è in rapporto, non già con una presunta realtà esterna, bensì con l'"anima" del poeta. Quindi, il libro Del sublime occupa nella storia dell'estetica antica un posto cospicuo.
Ediz.: Jahn-Vahlen, 4ª ed., Lipsia 1910; W. R. Roberts, 2ª ed., Cambridge 1907; P. S. Fotiades, Atene 1927. Traduzioni italiane: di G. Canna, Firenze 1871; di A. Solari, Bologna s. d.
Bibl.: Su Cassio Longino: D. Rhunken, Disputatio de vita et scriptis Longini, in Opuscula, Leida 1807; E. Gibbon, The decline and fall of the Roman Empire, ch. XI; E. Zeller, Die Philos. der Griechen, III, ii.
Sull'Anonimo Del sublime: H. Mutschmann, Tendenz, Aufbau und Quellen der Schrift vom Erhabenen, Berlin0 1913; A. Rostagni, Il "Sublime" nella storia dell'estetica antica, in Annali della R. Scuola Normale superiore di Pisa, s. 2ª, II (1933), fasc. 1 e 2.