CASO (dal lat. casus; fr. hasard; sp. acaso, casualidad; ted. Zufall; ingl. chance)
Dal punto di vista strettamente speculativo, caso, o evento casuale, è quello che si produce al di fuori e indipendentemente dalla serie determinata delle cause e degli effetti. È quindi evidente che il suo concetto può sussistere solo in sistemi in cui la determinazione causale dell'accadere non sia ancora ccnsiderata rigorosamente come universale: come, per citare il più antico e grande esempio, in quello di Aristotele, in cui esso si manifesta nelle distinte determinazioni del συμβεβηκός (l'attributo non essenziale ma accidentale), della τύχη (il caso dal punto di vista dell'azione umanȧ) e dell'αὐτόματον (il caso nel suo più specifico senso d'avvenimento oggettivo indipendente da una causa). Viceversa, quando sia resa veramente universale l'idea della determinazione del tutto, il concetto del caso perde di necessità ogni valore oggettivo, e si riduce a un'apparenza derivante da una mera ignoranza della causa: come accade nella concezione fatalistica dello stoicismo, che doveva quindi sollevare le polemiche scettiche in difesa della libertà umana (v. carneade); e meglio ancora il tentativo di Epicuro, mirante a salvarsi dal suo stesso determinismo democriteo appunto con l'idea della casuale "declinazione degli atomi". Si può dire che, in tutti i sistemi posteriori che hanno fatto uso del concetto del caso, la posizione ideale in cui questo si è presentato non ha mai subito sostanziali mutazioni: il caso è apparso sempre, cioè, come la pura antitesi della causa, e quindi come il motivo della rivendicazione dell'astratta libertà di fronte al sistema dell'astratta necessità.
Bibl.: C. Ranzoli, Il caso nel pensiero e nella vita, Milano 1913; R. Eisler, Lexikon der philos. Begriffe, III, 4ª ed., Berlino 1930, pp. 667-70.
Caso fortuito.
Si chiama così in diritto un avvenimento non imputabile neanche indirettamente a colui che del medesimo venga chiamato a rispondere, e che, qualora sopraggiunga alla nascita d'un rapporto obbligatorio, ne impedisce l'esecuzione. La mancanza d'imputabilità, e la sopravvenuta impossibilità di adempiere, liberano il debitore poiché nessuno è tenuto all'impossibile. Inoltre il fortuito, assurgendo a causa giustificatrice della mancata prestazione, esonera l'obbligato anche dai danni, che sono conseguenza invece d'inadempimento colposo; esso elide infatti la colpa e quindi le prestazioni che dalla medesima derivano (articoli 1225, 1226, 1298 cod. civ.).
Accanto alla dizione caso fortuito e per esprimere avvenimenti parimenti non imputabili e con effetto liberatorio, si trova in diritto, specialmente nel diritto estero, adoperata l'altra denominazione di forza maggiore (fr. force majeure; sp. fuerza mayor; ted. höhere Gewalt; ingl. force majeure, main force); cui corrispondono nelle fonti romane quelle di vis maior, vis divina, casus cui resisti non potest e simili, espressioni tutte che in sé compendiano gli elementi sostanziali compresi nella nozione del caso fortuito.
Il fortuito, per liberare, deve sopravvenire all'obbligazione; se l'impedimento preesisteva, l'obbligazione infatti per mancanza di oggetto non avrebbe potuto nascere. L'impedimento per aver virtù di esonerare da responsabilità non è necessario che sia imprevedibile; basta che sia inevitabile e deve per liberare il debitore rendergli impossibile l'adempimento della sua obbligazione.
L'impossibilità si distingue: in fisica, esempio tipico la perdita della cosa dovuta; in giuridica, nascente cioè da ostacolo legale, come ad esempio la messa per legge fuori commercio della cosa stessa. Deve però trattarsi d'impossibilità vera e obiettiva, assoluta e universale, e deve in ogni caso essere reale, cioè deve incardinarsi sempre alla cosa dedotta in obbligazione, in modo che non sia possibile prestare la cosa stessa così come la vollero le parti pattuire.
Bibl.: N. Coviello, Del caso fortuito, Lanciano 1896; A. Dernburg, Begriff der höheren Gewalt, in Grünhuts Zeitschrift, XI; C. Formiggini, Del caso fortuito nelle obbligazioni, Torino 1893; C. Manenti, Il caso giuridico e la sua prestazione nelle obbligazioni, in Studi senesi, IV e V, 1890-91.
I casi grammaticali.
Il caso (fr. cas; sp. caso; ted. Kasus; ingl. case; derivato dal latino casus, che traduce il gr. πτῶσις "caduta" è la forma che il nome assume, per mezzo d'una flessione più o meno complicata, per esprimere un rapporto sintattico col verbo o anche con un altro nome: p. es. in latino un nome al caso genitivo esprime il rapporto di specificazione rispetto a un altro nome; il caso accusativo il rapporto di oggetto rispetto al verbo.
La parola πτῶσις vorrebbe significare le deviazioni e le conseguenti "cadute" della parola dalla posizione normale verticale; sicché, stando all'etimologia, essa dovrebbe applicarsi tanto al nome quanto al verbo ed essere esclusa dalle forme normali o verticali dell'uno come dell'altro; nel caso del nome, dal nominativo. Tuttavia, già presso gli Stoici, la πτῶσις è limitata al nome ed estesa anche al nominativo che è anzi chiamato πτῶσις ὀρϑή: ciò che dev'esser tradotto non con "caduta retta", ma con "posizione retta", perché il significato etimologico è già completamente scomparso: così nasce la denominazione di casi obliqui per quelli diversi dal nominativo.
Il numero dei casi non può essere limitato in teoria; essi potrebbero essere infiniti come le sfumature dei rapporti sintattici. Fra le lingue caucasiche si arriva a registrarne 24, in finnico 12, in cinese, in italiano, in francese, in inglese o in bulgaro nessuno. Le lingue indoeuropee mostrano avanzi sufficientemente chiari di otto casi: da un punto di vista astratto, si possono classificare in casi che enunciano in modo puro e semplice un concetto (nominativo e vocativo); casi che indicano un rapporto di spazio: ablativo (provenienza), locativo (stato), accusativo (direzione); casi che indicano un rapporto di tempo: strumentale (anteriorità), genitivo (contemporaneità), dativo (successione). Ma poiché i casi sono unità di forma e non di sostanza, la loro individualità e la loro vitalità non dipendono dal loro contenuto logico, ma dalla possibilità di distinguersi per mezzo di suffissi sufficientemente chiari. Nelle lingue indoeuropee la vitalità dei casi è di conseguenza minacciata da due ordini di fatti: la distinzione formale spesso soltanto parziale, come nell'ablativo che si distingue al singolare dal genitivo solo nella declinazione in -o e al plurale non si distingue mai dal dativo; l'indebolimento delle consonanti e l'abbreviamento delle vocali in fine di parola, che restringe ancora la possibilità di distinzione: sicché il greco ha 4 casi oltre il vocativo, il latino 5. Avanzi di vecchi casi irrigiditi sono nelle lingue antiche spesse volte gli avverbî: in latino bene antico ablativo, hic antico locativo, partim antico accusativo. Fattori di arricchimento non mancano. La contiguità con aree linguistiche ricche di "casi" ha fatto sì che le lingue slave, per merito di quelle ugro-finniche, l'armeno per merito delle lingue caucasiche abbiano conservato molto bene l'antico sistema: e che l'ossetico, dialetto iranico, l'abbia addirittura aumentato. L'impiego di vecchi avverbî produce dei casi pronominali se non proprio nominali in francese: dont da de unde, en da inde (genitivi-ablativi) y da ibi (locativo). Finalmente è lecito pensare che l'attuale sistema d'indicare rapporti sintattici per mezzo di preposizioni, possa, irrigidendosi, dare origine a una rinascita di casi veri e proprî che invece di essere distinti da suffissi, sarebbero distinti da prefissi: l-acqua, dell-acqua, all-acqua, ecc., con un procedimento non diverso da quello che nelle lingue bantu distingue i rapporti di genere, di numero, ecc., per mezzo di antichi pronomi prefissi.
I nomi dei casi sono di origine greca, ma la traduzione latina ne oscura spesso il significato. I termini di nominativo, dativo, vocativo traducono esattamente le forme corrispondenti di ὀνομαστική δοτική, κλητική (πτῶσις). Ma genitivo traduce erroneamente γενική perché collega la forma greca con il verbo γίγνομαι invece che col sostantivo γένος: sarebbe il caso che indica il genere - noi diremmo la specie - e quindi specifica; l'accusativo collega pure erroneamente αἰτιατική col verbo αἰτιῶμαι "accuso" anziché con αἰτιατόν "ciô che è causato, l'effetto". Il nome dell'ablativo, specificamente latino, sottolinea la funzione originaria della provenienza, benché in latino molte altre relazioni sintattiche siano confluite nell'ablativo. L'ordinamento dei casi è pure di origine greca: agli estremi stavano le due forme normali nominativo e vocativo; al centro, secondo un criterio localistico, il genitivo (provenienza), il dativo (stato), l'accusativo (direzione). Il latino, aggiungendo l'ablativo, l'ha posposto servilmente al vocativo greco.
Bibl.: K. Brugmann e B. Delbrück, Grundr. der vergl. Gramm. der indogerm. Sprachen, II, ii, 2ª ed., Strasburgo 1911, p. 109 segg.; W. Wundt, Völkerpsych., II, 2ª ed., Lipsia 1910, p. 60 segg.; J. Vendryes, Le langage, Parigi 1921, p. 106 segg.; O. Jespersen, The philosophy of grammar, Londra 1924, pp. 173-187.
Casi di coscienza e casi riservati.
Caso di coscienza è ogni fatto proposto alla coscienza individuale perché su di esso formuli il suo giudizio morale. In senso stretto è caso di coscienza il fatto, reale o fittizio, individuale o sociale, sul quale la coscienza individuale formula un giudizio che pone come sua premessa maggiore le conclusioni della scienza teologica, l'esistenza o meno di determinate obbligazioni morali. Il caso di coscienza può proporsi all'individuo come norma alla sua azione futura: è lecito o meno ciò che io (o altri) ho fatto; può proporsi anche come base di un giudizio che l'individuo è chiamato a dare di un'azione già compiuta: era lecito o meno ciò che io (o altri) ho fatto. Con riguardo alla prima di queste due evenienze, casisti furono detti appunto quei teologi morali che, nel periodo della Controriforma, si diedero a formulare casi pratici prescrivendo per ciascuno la linea di condotta del fedele (v. casistica).
Casi riservati. - Con questo nome vengono designate le censure e i peccati da cui il confessore non può assolvere senza una speciale facoltà. Coloro che hanno diritto ordinario a concedere la facoltà di confessare o infliggere delle censure hanno altresì l'autorità di stabilire dei casi riservati, eccettuato il vicario capitolare e il vicario generale senza mandato speciale (can. 893, § 1). La riserva può riguardare il peccato e la censura. Se riguarda la censura, allora soltanto il peccato rimane indirettamente riservato, quando trattasi di censura (scomunica e interdetto personale) che vieta di ricevere i sacramenti; se invece la censura non proibisce di ricevere i sacramenti (sospensione), il peccato non è riservato (can. 2246, § 3). Il caso può essere riservato alla S. Sede e all'Ordinario. Il peccato riservato alla S. Sede, senza censura, è uno solo: la calunniosa denunzia di un sacerdote accusato di sollecitazione ad turpia presso il giudice ecclesiastico (can. 894). I casi riservati dai vescovi o dai superiori religiosi possono essere tre o al massimo quattro, e devono riguardare colpe molto gravi, esterne e determinate (can. 897). La riserva cessa fuori del territorio di colui che l'ha stabilita; parimenti quando si confessa un infermo, quando si confessano gli sposi in vista del matrimonio da celebrare, quando la facoltà di assolvere non si può chiedere senza grave danno del penitente, ecc. (can. 900). In pericolo di morte cessa qualunque riserva; e nei casi urgenti ogni confessore può assolvere da qualsiasi caso riservato, salvo l'obbligo del ricorso alla S. Penitenzieria o al superiore competente (canoni 882 e 2254).