CASACCIA
Famiglia di cantanti i cui membri, da ricordare tra i più esimi interpreti dell'opera buffa napoletana, si succedettero per quasi un secolo e mezzo sulle scene partenopee. Fiorita tra la metà del sec. XVIII e la fine del secolo successivo, la dinastia, che vide il maggior fulgore e la decadenza di questo genere teatrale, fa capo a Giuseppe (nato a Napoli nel 1714), che compare per la prima volta nel 1749 sostenendo al teatro dei Fiorentini il ruolo di don Bastiano ne La celia di G. Latilla accanto al più anziano A. Catalano. I due buffi "furono insieme la delizia dei Fiorentini per otto anni fino al 1756" (Croce, p. 371) e, con la famosa Marianna Monti, "fecero la fortuna dei drammi di quel pessimo poeta che fu A. Palomba" (ibid., p. 372). Nel 1754 Giuseppe si distinse particolarmente per una eccezionale interpretazione del ruolo di Donna Apollonia nell'intermezzo La canterina, che fu inserito nella commedia del Palomba dal titolo La commediante. Tra le interpretazioni di Giuseppe in questo periodo si ricordano: Le donne dispettose di N. Piccinni (1754), L'incredulo di T. Traetta (1755), Le finte magie di N. Logroscino (1756). Durante la stagione 1756-57 quando il Catalano passò al teatro Nuovo, Giuseppe si allontanò da Napoli per recarsi a Roma; li ritroviamo assieme ai Fiorentini negli anni 1758-59, ma per l'ultima volta. L'anno dopo Giuseppe riscuoteva uno strepitoso successo: interpretando il ruolo di don Flaminio ne La furba burlata del Piccinni, che fu replicata ai Fiorentini per ottanta sere di seguito, e poi al Nuovo da Pasqua fino all'autunno della stagione successiva. Del 1760 si ricorda anche un secondo e ultimo soggiorno romano di Giuseppe che interpretò il ruolo di Mengotto nella Buona figliola del Piccinni, del quale in quella stessa stagione interpretò ai Fiorentini altre cinque opere: L'Origille, La furba burlata, Il curioso imprudente, Lo stravagante, L'astuto balordo.
Mentre la carriera del Catalano volgeva alla fine, andava delineandosi, accanto a Giuseppe, la figura del figlio (secondo altri fratello) Antonio, nato anch'egli a Napoli nella prima metà del secolo, già comparso una prima volta accanto ai due interpreti maggiori nel 1758 al teatro dei Fiorentini nell'Olimpia tradita di A. Sacchini. In seguito lo ritroviamo in questo teatro solo nel 1761 e nel 1764. mentre, al teatro Nuovo, Giuseppe e Antonio, dopo il 1762, lavorano quasi sempre in coppia fissa. Li troviamo infatti insieme ne Il finto medico di P. Anfossi (1764), ne La vedova capricciosa di G. Insaguine (1765), ne La Cecchina maritata del Piccinni (1765), ne L'arabo cortese di G. Paisiello (1769), nel Socrate immaginario dello stesso autore (1780) e in molte altre opere. Nel 1767, oltre a interpretare il ruolo di don Fazio ne Le Mbroglie de le Bajasse del Paisiello, Giuseppe sostenne quello di Tuberone ne L'Idolo cinese dello stesso autore, rappresentato dapprima al teatro Nuovo, e poi, nel 1768, al teatro Reale di Caserta, dove fino a quella data erano state rappresentate solo opere serie. Nel 1770 C. Burney assiste ai Fiorentini a una rappresentazione di Gelosia per gelosia del Piccinni e, nonostante le riserve sul modo di cantare, ne scrive: "Una parte sola mi parve assai comica recitata da Casaccia uomo di una gaiezza inimitabile ed inesauribile. Tutta la sala si agitò quando egli apparve, la comicità di questo attore non consisteva in buffonate paesane come spesso avviene in Italia ed altrove, ma in quella bonaria allegria che ecciterebbe il riso dovunque ed in tutti i tempi". Né il Bumey, né il Florimo specificano tuttavia il nome del comico impegnato in quella opera. Secondo il Croce sembrerebbe che il Burney si riferisca a Giuseppe, mentre, secondo lo Schlitzer si tratterebbe di Antonio. È vero che dal 1770 con la Pastorella incognita di G. de Franchis, Antonio compare stabilmente anche ai Fiorentini, ma sostenendo per lo più ruoli di secondo buffo in tutte le opere date in quel periodo: da Le stravaganze del conte di D. Cimarosa (1772) a L'amante confuso dello Anfossi (1772), a Le trame zingaresche, a La donna vana, a I furbi burlati, a Ilvagabondo fortunato tutte del Piccinni. Solo dopo il 1775 troviamo Antonio come interprete principale ai Fiorentini. Da questa data sembrerebbe iniziare il declino di Giuseppe che lavorò ancora ai Fiorentini fino al 1779, interpretando ancora tra l'altro Ilfanatico per gli antichi Romani e Le stravaganze d'amore di Cimarosa. Nei tre anni successivi egli compare ancora al Nuovo per poi concludere la sua carriera al teatro del Fondo con La donna amante di tutti e fedele a nessuno di P. A. Guglielmi (1783). Giuseppe morì a Napoli nel 1783.
Erede della popolarità paterna, Antonio venne soprannominato Casacciello e di lui ci è stato tramandato un quadro assai pittoresco: "gran mangiatore, sciupone e bugiardo" lo definisce S. Di Giacomo che afferma di aver rinvenuto nell'Archivio di Stato una sua supplica al ministro Bernardo Tanucci, in cui l'interessato, dichiarando che "si muore dalla santissima famma seu paccarazione", insisteva perché gli venissero devolute alcune gratifiche reali. Accanto a questa supplica, il Di Giacomo riferisce di aver trovato un "informo" (dossier)sul caso Casaccia con, in fondo, una postilla autografa del ministro: "A Casacciello che ha detto tante bugie si faccia una severa riprensione". "Ne ebbe un'altra - aggiunge il Di Giacomo - con qualche settimana di carcere quando egli, abitando vicino al teatro del Fondo e annariando - come dice il documento - uno cometone (aquilone) sopra un astrico", lo lasciò cadere sul capo di un ragazzetto e, certo senza volerlo, ammazzò il disgraziato con "un pizzo du cometone". Del valore di Antonio all'inizio della sua carriera (1767) una autorevole testimonianza ci viene fornita da Vittorio Alfieri che assisté al teatro Nuovo ai Matrimoni per dispetto di P. Anfossi: "Il mio più vivo piacere - egli afferma - era la musica burletta del teatro Nuovo" (Croce, p. 436). Un altro documento che ci conferma la popolarità di Antonio è la lettera del 1780 scritta dall'abate F. Galiani a Paisiello che si trovava alla corte russa: "Il Socrate immaginario - egli riferiva (in Scherillo, p. 406 n.) - ha avuto un incontro grandissimo anche perché la parte di Socrate è stata recitata non già da G. Luzio, ma dal gran Casacciello che ha saputo perfettamente investirsi del carattere". Quest'opera era stata rappresentata nella primavera di quell'anno al teatro Nuovo. Tre anni dopo al teatro del Fondo si rappresentarono Le astuzie teatrali o femminili del Cimarosa e, a questo proposito, il Croce (p. 506) riferisce un aneddoto del Ferrari secondo cui le due interpreti femminili Giacinta Galli e Vittoria Moreschi "giunte a cantare in due perdon la testa e dimentican che sono in presenza del pubblico e vengono alle mani... Casacciello sempre intento per far ridere, esce dalle scene con una gran scopa in ispalla e si mette in positura militare tra le due Amazzoni per separarle...". La carriera di Antonio durò 25 anni e fu sempre accompagnata dal favore del pubblico napoletano. Egli comparve sulla scena per l'ultima volta durante il carnevale 1793. Morì a Napoli nel novembre dello stesso anno. Si ricordano, tra le sue interpretazioni, le opere dei maggiori compositori dell'epoca, tra cui Paisiello, di cui cantò I filosofj immaginari (1784), La grotta di Trofonio (1785), Il re Teodoro in Venezia (1785), La Frascatana (1786), Le gare generose (1786), Nina ossia la pazza per amore (1790), Le vane gelosie (1790); Cimarosa, di cui interpretò tra l'altro Il marito disperato (1785); N. Piccinni, di cui eseguì La serva onorata (1792) e L. Piccinni (Le trame in maschera, 1793); Guglielmi e molti altri ancora.
Tra il 1766 ed il 1781, cioè contemporaneamente a Giuseppe e Antonio, fece una breve apparizione Filippo, non si sa se figlio di Giuseppe e fratello di Antonio, oppure se figlio di Antonio come sostiene il Di Giacomo. Nato a Napoli nel 1751, egli comparve ai Fiorentini una prima volta con Giuseppe ne I tre amanti burlati di G. Masi nel 1766 e poi vi recitò quasi ininterrottamente dalla primavera del 1770 al carnevale del 1772 accanto a Giuseppe ed Antonio; lo ritroviamo al Fondo tra la primavera del 1780 ed il carnevale del 1781.
Il vero erede del talento comico della famiglia si mostrò però Carlo, figlio di Antonio, di cui assunse anche il soprannome di Casacciello. Nato a Napoli nel 1768, egli debuttò nel carnevale 1782 ai Fiorentini sostenendo la parte di Lucio Trebotte ne La finta zingara del Guglielmi accanto ad Antonio e vi ritornò l'anno successivo. Ricomparve nello stesso teatro dopo otto anni e vi dominò incontrastato fino alla fine del secondo decennio dell'Ottocento, periodo questo in cui l'opera buffa fu sostituita in quel teatro dal dramma in prosa. Egli interpretò allora tra l'altro Il matrimonio segreto (1802), Il falegname (1803), L'amante disperato (1805), La sposa a sorte (1811) del Cimarosa; Il fanatico in berlina (1803) e Amor contrastato (1803) del Paisiello. Al teatro Nuovo Carlo debuttò nel 1798 con La sposa tra le imposture di L. Mosca e vi rimase fino al 1801. In questo periodo il suo nome compare anche in due opere di Spontini: La finta filosofa (1799) e La fuga in maschera (1800); ritornò al Nuovo verso la fine del secondo decennio dell'Ottocento e vi cantò anche in opere di Donizetti come La zingara (1822), Il fortunato inganno (1823), Emilia di Liverpool (1824) e nell'Elisa e Claudio di S. Mercadante. Al Fondo lavorò ininterrottamente dal 1793 al 1797 interpretando tra l'altro L'impegno superato del Cimarosa (1795) e La modista raggiratrice del Paisiello (1796); vi ritornò nel 1816 per cantarvi ancora La Cenerentola (1818) e Bellezza e cuor di ferro (1821) del Rossini, Le due duchesse ossia La caccia de' lupi di S. Mayr, Il signore del villaggio di S. Mercadante e molte altre opere minori. La sua carriera si concluse con la Chiara di Rosemberg di P. Generali nella primavera del 1826. Egli fece, come afferma il Napoli Signorelli (VIII, p. 111), la fortuna degli impresari di questi teatri che ovviamente puntavano sul favore accordatogli dal pubblico. Somigliantissimo al re Ferdinando I, fu anche da questo assai benvoluto e considerato quasi come un buffone di corte. Quando il re nel 1818, anno del concordato, si recò a Roma in visita al pontefice, lo volle nel suo ristretto seguito, ma, secondo le notizie forniteci da P. Colletta (IV, 8, pp. 77 s.), la comicità del buffo napoletano "sulle scene di Roma"non venne compresa. Forse Carlo, adorato dal pubblico napoletano, parlava, come conferma Stendhal, il dialetto della sua terra di difficile comprensione al di fuori del Regno; per quanto riguarda la sua comicità, ne abbiamo un'inconfutabile testimonianza dello stesso scrittore francese che lo vide nel 1817 in Paolo e Virginia di P.C. Lorenzi: "Il est énorme, ce qui lui donne l'occasion de faire plusieurs lazzis assez plaisans. Quand il est assis, il entreprend, pour se donner un air d'aisance, de croiser les jambes: impossible, l'effort qu'il fait l'entraîne sur son voisin: chute générale...". Stendhal aggiunge che aveva una voce nasale, da cappuccino. Si ignora la data di morte.
Un Antonino nel carnevale 1814 eseguì la parte del fanciullo Adolfo nell'Elena di Mayr ai Fiorentini, ma questa pare sia stata la sua unica comparsa in pubblico. Fu invece il figlio di Carlo, Raffaele, colui che dominò ancora per oltre un trentennio le scene napoletane. Egli ebbe anche una notevole preparazione musicale: dalle memorie del figlio Ferdinando apprendiamo infatti che fu maestro di contrappunto. Nel 1810 risulta essere scritturato come maestro di cembalo ai Fiorentini, tuttavia la sua voce baritonale e l'irresistibile comicità della sua figura (era alto poco più di un metro e grasso almeno come il padre) gli permisero di essere un degno erede dell'arte familiare. Esordì nel Torvaldo e Dorliska di Rossini nel 1818 al Nuovo, dove lavorò in coppia con il padre fino al 1825 e poi come primo buffo assoluto fino alla fine della sua carriera. Al Fondo lo troviamo nel 1826 come Pistacchio nella Chiara di Rosemberg del Generali. Egli vi ritornò dal 1845 al 1847. Nel 1850 si rappresentò al Nuovo l'opera buffa Don Checco di A. Spadetta e N. de Giosa, che ebbe tale successo da essere rappresentata anche al S. Carlo. Lo spettacolo fu replicato al Nuovo per 96 sere. Due anni dopo, nel 1852, Raffaele moriva e con lui si chiudeva il luminoso periodo che aveva visto, con i trionfi del C., l'opera buffa napoletana nel maggior splendore. Il nuovo gusto, infatti, non appprezzava più il "riso bonaccione", ma "un sorriso fine e sarcastico" (Scherillo, p. 293) per cui le interpretazioni del C., le quali non avevano affatto "certe squisitezze, certe finezze d'arte che rendono estremamente care le rievocazioni" (Di Giacomo), furono destinate irrimediabilmente all'oblio. La gloriosa dinastia si chiuse quindi con un malinconico personaggio, la cui figura grottesca, che era stata per oltre un secolo il maggior attributo della comicità dei C., destava invece la più profonda commiserazione.
S. Di Giacomo che conobbe di persona Ferdinando, figlio di Raffaele, in un articolo quasi commosso ci descrive il tramonto e la scomparsa dell'"ultimo Casacciello". Dalla prefazione alle memorie inedite di Ferdinando (cfr. Di Giacomo) si apprende che egli cominciò la sua carriera nel 1852-53 in un'Accademia tenuta al monastero di Monte Oliveto in Napoli, poi, al teatro Nuovo "andai in scena - ebbe a scrivere egli stesso - col "Muratore di Napoli" che il maestro Aspa scrisse la cavatina del secondo atto a positamente per me e feci un fanatismo completo, dopo molti mesi andai scritturato a Trani col "Don Checco" poi a Capua, Santa Maria, Caserta". Tornò al Nuovo forse nel 1857 ma "dopo contrastato con Musella mi scritturai a Monopoli di Puglia, che il socio di Musella sig. Luigi Cargiulo, per non farmi andare dal teatro Nuovo voleva pacare lui la multa e fare la causa con l'impresario di Monopoli... ma io non volli per due ragioni la prima che avrei discreditato la mia firma, per la seconda che ci era un forte disturbo con Musella. Ritornai e feci la pace con Musella e restai scritturato fino all'epoca che fu bruciato il teatro Nuovo" (1861). A questa, che è la prefazione del libro manoscritto, segue una lista di tutte le recite cui Ferdinando prese parte fino al 1888. Egli fu presente anche sulle scene di altri teatri napoletani tra cui il Giardino d'inverno (1862), il Bellini vecchio (1866), la Fenice (1867) e il Rossini (1873).
Morì a Napoli nel 1894 poverissimo e dimenticato dal suo pubblico: "l'operetta" aveva dato "il gambetto all'opera buffa" (Di Giacomo).
Fonti e Bibl.: P. Napoli Signorelli, Vicende della cultura nelle Due Sicilie, Napoli 1910, VI, p. 325; VIII, p. 111; Stendhal, Rome, Naples et Florence en 1817..., Paris 1826, II, p. 167; P. Colletta, Storia del reame di Napoli..., Capolago 1834, IV, 8, pp. 77 s.; F. Florimo, La scuola musicale di Napoli..., III-IV, Napoli 1881-82, ad Indices;B. Croce, Iteatri di Napoli. Secoli XV-XVIII, Napoli 1891, pp. 371 ss., 435 s., 506; C. Burney, Viaggio musicale in Italia 1770, Palermo 1921, pp. 182, 192; M. Scherillo, L'opera buffa napol., Napoli s.d., pp. 292, 406; S. Di Giacomo, L'ultimo Casacciello, in Celebrità napol., Trani 1896, pp. 129-144; F. Piovano, Notizie storico-bibl. sulle opere di P. C. Guglielmi, in Riv. mus. ital., XVI (1916), pp. 785 ss.; F. Schlitzer in Enc. d. Spett., III, Roma 1956, coll. 146-49; U. Prota-Giurleo, in Encicl. della Musica Ricordi, I, Milano 1963, p. 421; La Musica, Diz., I, pp. 359 s.