CASA
. Disciplina giuridica della casa (App. II, 1, p. 525; III, 1, p. 316). - La disciplina giuridica della c. negli anni che si considerano, e nei quali sempre più si rafforza la concezione di essa come servizio sociale, appare caratterizzata, da un lato, dal ripetersi di provvedimenti legislativi volti a prorogare di volta in volta il regime vincolistico degli alloggi, sicché la disponibilità di questi è sottratta alla libera determinazione delle parti del rapporto e, dall'altro, a favorire la costruzione di nuove case. In tal modo, i testi legislativi di maggiore significato in questo periodo sono, per il primo aspetto, tutto quel complesso di leggi che è stato individuato, anche dalla giurisprudenza dei giudici ordinari e della Corte costituzionale, come il regime vincolistico delle locazioni degl'immobili urbani adibiti a uso di abitazione e, per il secondo aspetto, dalle leggi sull'edilizia pubblica e residenziale e, in particolare, dalla cosiddetta legge sulla "riforma della casa".
Il regime vincolistico è costituito da circa tredici testi legislativi dei quali i più significativi sono la l. 6 nov. 1963, n. 1444, la l. 26 nov. 1969, n. 833 e il d.l. 24 luglio 1973, n. 426 (convertito nella l. 4 ag. 1973, n. 495), che caratterizzano tre periodi dell'evolversi della disciplina legislativa in questa materia, prima che nella stessa non fosse intervenuta, con talune sentenze, la Corte costituzionale che ha fissato al legislatore taluni limiti e taluni principi. E ciò ovviamente anche prima che questo non fosse stato investito dal governo dell'esame di una del tutto nuova disciplina.
In verità, la disciplina giuridica della c., in tutti questi anni, con riguardo al regime delle locazioni, appare caratterizzata non solo dal protrarsi della proroga legale delle locazioni e del blocco dei canoni che, pur sorti per finalità economico-sociali, avevano tuttavia trovata la loro pregnante giustificazione soprattutto nel periodo bellico e nella penuria di c. che a seguito di questo si era verificata nel paese, ma anche da un sempre maggiore articolarsi di questi istituti, sicché si va delineando un nuovo modello del rapporto locativo delle c. di abitazione, modello che quasi esclusivamente nella legge e in ripetuti interventi di questa ha il suo stampo.
È innanzi tutto in questo periodo, e specificamente con la l. 6 nov. 1963, n. 1444, dopo che una proroga delle locazioni si era avuta con la l. 30 sett. 1963, n. 1307, che si attua per la prima volta quella separazione tra proroga delle locazioni e blocco dei canoni che per l'innanzi avevano sempre proceduto di pari passo, dando luogo pertanto al perpetrarsi di una disciplina autoritativa per taluni soltanto dei rapporti locatori e che erano poi quelli prorogati.
Con la legge n. 1444 del 1963, invece, vengono imposti limiti, modalità e divieti ai canoni di tutte le locazioni aventi determinati requisiti, anche se non rientranti tra quelle prorogate. In tal modo si viene vieppiù a incidere sul modo di configurarsi del rapporto locativo specie delle c. destinate a uso di abitazione, confermandosi definitivamente, e con notevole risalto, il rilievo sociale, politico ed economico che a tale rapporto obbligatorio il legislatore ha inteso e intende dare.
Con la legge n. 1444 del 1963, infatti, si dispone non solo il divieto dell'aumento dei canoni di locazione degl'immobili urbani non soggetti a regime vincolistico, ma si prevedono altresì i casi in cui i canoni devono essere diminuiti per farli rientrare nei limiti di un equo canone, e ciò moltiplicando per una percentuale l'importo iniziale del canone. Tale disciplina, peraltro, era prevista - in virtù di un rinvio alla legislazione precedente - solo per gli alloggi composti di non più di cinque vani oltre gli accessori, con un indice di affollamento pari o superiore a uno e purché il conduttore e i componenti della sua famiglia non fossero iscritti, ai fini dell'imposta complementare, per un reddito superiore a L. 2.500.000.
E un siffatto regime, a seguito dell'emanazione continua di leggi di rinnovo di anno in anno, fu sostanzialmente mantenuto in vigore, pur con qualche aggiornamento, fino alla l. 26 nov. 1969, n. 833, con la quale, prevedendosi, tra l'altro, una proroga per un periodo più lungo di quanto con le leggi precedenti era stato statuito, furono per la prima volta introdotte nella disciplina vincolistica ulteriori restrizioni volte sempre più a delimitare il potere di disposizione del proprietario locatore e a favorire, nel contesto di una politica economica antinflazionistica, il conduttore, palesemente considerato la parte più debole del rapporto. In questi sensi, per la prima volta, dalla legge è previsto che i canoni delle locazioni degl'immobili urbani adibiti a uso di abitazione non possono essere aumentati neppure quando il contratto è rinnovato con altro nuovo conduttore; che non possono essere aumentate neppure le spese relative alle forniture dei servizi (tranne per l'aumento dei costi del personale e dei servizi pubblici corrispondenti); che il deposito cauzionale richiesto dal locatore non può essere superiore a tre mensilità e dev'essere depositato in conto corrente bancario vincolato con interessi da accreditare a favore del locatario; e che le somme sotto qualsiasi forma corrisposte dal conduttore o subconduttore in violazione di tali limiti possano essere computate in conto pigione o ripetute con azioni proponibili fino a sei mesi dopo la riconsegna dell'immobile locato.
Trattasi, come si vede, di vincoli che, incidendo sul rapporto obbligatorio che lega il locatore al conduttore, incidono altresì sul contenuto dello stesso diritto di proprietà dell'alloggio destinato a uso di abitazione, vale a dire della c. (ma l'annotazione vale anche per la proprietà di immobili destinati ad altro uso).
Trattasi di vincoli destinati a essere confermati, e per così dire rafforzati, anche nella legislazione successiva (che, peraltro, esclude dalla proroga - ma non dal blocco - i contratti di locazione o sublocazione stipulati con conduttori che siano iscritti a ruolo ai fini dell'imposta complementare per un reddito complessivo netto superiore a 4 milioni di lire o che comunque abbiano percepito un reddito di pari importo, d.l. 24 luglio 1973, n. 426), legislazione che prevede che i canoni delle locazioni anche in caso di rinnovo non possono essere aumentati più del 5% e che anche il nuovo conduttore ha diritto di richiedere al locatore l'importo del canone prima percepito, nonché le generalità di tale conduttore; tutte notizie che il locatore deve comunicare entro trenta giorni dalla richiesta. Questa legislazione, inoltre, prevede che per la deliberazione di talune spese condominiali, se a carico del conduttore, questi partecipa all'assemblea in vece del locatore, sicché ci si è domandato se il diritto del conduttore si configuri, ormai, a seguito anche della più recente legislazione, come una posizione autonoma incidente sulla stessa struttura del condominio, sempre più considerato un "immobile collettivo" (secondo la terminologia d'oltralpe), vale a dire immobile di una collettività di inquilini, oltre che di proprietari.
Ma, in verità, è tutto il regime vincolistico degl'immobili destinati a uso di abitazione che, come si è detto, ha fatto sorgere da più parti perplessità sull'attuale, reale configurazione del rapporto obbligatorio che lega il proprietario e l'inquilino e sull'attuale, reale, contenuto del diritto di proprietà di questi immobili, tanto che da più di un giudice queste perplessità sono state portate, e molto frequentemente in questi ultimi anni, al giudizio della Corte costituzionale.
A questa, in particolare, è stato domandato se un regime vincolistico che, in sostanza, può ritenersi sostitutivo dell'autonomia contrattuale delle parti e privativo, con il blocco dei canoni, delle rendite di taluni soggetti senza prevedere per questi nessun indennizzo, non attui una forma di espropriazione a favore di soggetti non pubblici e senza una previa valutazione in concreto dell'interesse generale, in violazione, quindi, dell'art. 42 commi 2° e 3°, Cost. Inoltre, è stato osservato se per caso un blocco dei canoni mantenuto per così lungo periodo di tempo, senza che questi siano adeguatamente rivalutati mentre si verifica una notevole svalutazione monetaria, non leda forse il diritto di proprietà e la funzione sociale di questo (art. 42, 2° comma, Cost.), mentre, per altro verso, in quanto riduttivo di determinati canoni o non applicabile a taluni rapporti sorti in epoche diverse, non dia luogo a un'ingiustificata disparità di trattamento tra gli stessi locatori.
La Corte costituzionale ha ritenuto, dapprima, in alcune sue sentenze, che il regime vincolistico delle locazioni non può ritenersi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione allorché la disparità di trattamento tra il locatore e il conduttore possa essere determinata da situazioni particolari e contingenti, quali quella di un graduale passaggio da un regime vincolistico a uno libero (sent. n. 43 del 1963). Essa, altresì, ha negato un contrasto con l'art. 47 Cost., 2° comma (favorire cioè l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione), dal momento che questo segna un indirizzo politico rispetto al quale non può dirsi che la disciplina vincolistica costituisca puntuale ostacolo (sent. n. 29 del 1975) e, soprattutto, ha disatteso le opinioni che portavano a configurare nel protrarsi della disciplina una forma di espropriazione dei diritti del proprietario (sent. n. 132 del 1972). In questi ultimi tempi, invece, la stessa Corte sembra essere intervenuta incisivamente sulla disciplina in esame, sia dichiarando l'incostituzionalità di talune norme (come quelle che non consentivano a un locatore di provare che il conduttore godesse di un reddito superiore a quello risultante dall'iscrizione nei ruoli dell'imposta complementare e come quelle che non attribuivano rilevanza alle variazioni del reddito complessivo netto del conduttore o subconduttore eventualmente sopravvenute, sent. n. 132 del 1972), sia, soprattutto, collocando tutta la disciplina in una prospettiva temporale alla quale ha aggiunto, per così dire, una messa in mora per il legislatore (sent. n. 3 e n. 225 del 1976).
In queste due ultime sentenze, infatti, la Corte costituzionale ha ritenuto che la circostanza dell'uniforme ripetizione e sovrapposizione nel tempo delle normative di blocco, prospetta il pericolo che, di fatto, il blocco stesso venga a perdere quel carattere di straordinarietà e temporaneità che solo può giustificare un tale intervento per fini sociali, realizzato con una definitiva e irreversibile compressione delle facoltà di godimento del proprietario. Qualora un tale pericolo si realizzasse, la Corte ha affermato che essa avrebbe riformulato il suo giudizio di legittimità e con riguardo, tra l'altro, anche all'aspetto della valutazione comparativa delle condizioni economiche del locatore, sicché, in questi sensi, rivolgeva un avvertimento al legislatore affinché a un sì particolare regime delle locazioni degl'immobili si ponesse termine.
Ed è anche per un tale avvertimento che il governo ha approntato un disegno di legge il cui motivo ispiratore è quello di riportare la normalità nel settore, pervenendo alla determinazione legale di un canone equo, tale, cioè, da non mortificare, sin quasi ad annullare, la rendita dell'investimento immobiliare e da permettere, per altro verso, che esso sia sopportabile dagl'inquilini, costituiti in massima parte da classi meno abbienti e da lavoratori con il più basso reddito. Per la determinazione di un tale canone sembra che si preferisca far ricorso, più che a valutazioni soggettive, a meccanismi automatici e di calcolo fondati su parametri oggettivi e generali che abbiano a base il costo medio di una costruzione per metro quadrato moltiplicato quindi per una serie di indici relativi alla grandezza della città nella quale l'abitazione si trova, alla sua ubicazione, alla sua vetustà, ecc. In tal modo, dando normalità e certezza ai rapporti locativi, si pensa di ridare altresì vigore all'attività edilizia, specie privata, notevolmente ridottasi sin dall'inizio degli anni Sessanta e dar luogo a una risistemazione del mercato immobiliare. Vedi oltre.
Il problema dell'abitazione, infatti, per convincimento generale, solo da una riforma strutturale del settore edilizio e, quindi, dall'adeguato incremento di costruzioni di c., può trovare una sua valida soluzione, essendosi da più parti dimostrato come da una disciplina giuridica in senso vincolistico, tale problema nei suoi termini politici, economici e sociali, può essere soltanto aggravato.
E, in particolare, è dall'edilizia residenziale d'iniziativa e di attuazione dei pubblici poteri - sottratta, quindi, a meri interessi speculativi, specie di rendita parassitaria - che il problema sociale ed economico della disponibilità dell'alloggio da parte di tutti a condizioni non esose o di privilegio, e in un contesto in cui esso possa essere un bene di mercato e, quindi, d'investimento e di commercio, può trovare soluzione.
È per questo che, come si è detto all'inizio, la disciplina giuridica in questi ultimi anni (come, peraltro, fin dal dopoguerra), è caratterizzata non solo dalle leggi portanti il cosiddetto blocco, ma anche da quelle volte a favorire l'attività di costruzione di c., attraverso la cosiddetta edilizia sovvenzionata e convenzionata.
Negli anni decorsi, com'è noto, i più rilevanti interventi normativi volti all'incentivazione dell'edilizia furono rappresentati dalle tre leggi fondamentali note come il "piano Fanfani" (l. 28 febbr. 1949, n. 43), la "legge Tupini" (l. 2 luglio 1949, n. 408), la "legge Aldisio" (l. 10 ag. 1950, n. 715). Negli anni che ora si considerano i più importanti interventi legislativi - oltre quelli volti a regolamentare l'attività edilizia quale manifestazione dell'urbanistica (si pensi per es. alla l. n. 167 del 18 apr. 1962; alla l. n. 765 del 6 ag. 1967, cosiddetta "legge ponte") - sono la l. 14 febbr. 1963, n. 60, che può considerarsi una prosecuzione del "piano Fanfani" e che prevedeva la costituzione, al posto dell'Ina-Casa, della GESCAL (Gestione Case Lavoratori), e la l. 4 nov. 1969, n. 1460, che può invece considerarsi una prosecuzione della legge Tupini essendo volta anch'essa a mobilitare il risparmio privato verso l'edilizia con la previsione di uno stanziamento di nove miliardi in tre anni per la concessione di contributi sugl'interessi. Ma l'intervento legislativo di più ampio respiro, almeno nelle intenzioni, in questo periodo è la l. 22 ott. 1971, n. 865, nota come "riforma della casa". Essa fu emanata a seguito di una travagliata gestazione politica e parlamentare che ebbe inizio sin dai tempi dell'autunno caldo del 1969, e che fu caratterizzata da una trattativa governo-sindacati e dall'azione di tutte le altre forze e strutture (tra le quali in primo luogo le Regioni) che nella materia vedevano coinvolti i loro interessi e le loro competenze. Un sì travagliato iter diede luogo a una serie di faticose soluzioni compromissorie o cumulative che sono state tra le principali cause del sostanziale fallimento della legge sul piano applicativo.
Certo è che essa, nel complesso delle sue norme, contiene un disegno organico di disciplina per tutte le attività implicate nel problema della costruzione di case. Essa, infatti, prevede anzitutto l'unificazione di tutti i fondi stanziati, a qualunque titolo, per l'edilizia pubblica in un apposito conto presso la Cassa depositi e prestiti e la loro gestione unitaria da parte di un apposito Comitato per l'edilizia residenziale; la possibilità, quindi, di esproprio a prezzo agricolo delle aree edificabili interessate alla l. 167 e delle altre necessarie per altri interventi edilizi d'interesse pubblico; una diversa strutturazione dei rapporti tra comuni e gli enti privati che costruiscono nell'ambito dei piani di zona disponendosi che tra le due parti si stabiliscano vere e proprie "convenzioni" con particolari agevolazioni per i privati (quali, per es., la cessione dell'area a basso costo e la promessa di mutui agevolati) in corrispettivo dell'assunzione da parte di essi di obblighi come quello di costruire c. economico-popolari e fitti con prezzi concordati con l'ente locale.
Tuttavia, un sì complesso disegno, che prevedeva, tra l'altro, una pluralità di centri decisionali e un procedimento attuativo diluito in vari subprocedimenti non sempre tra loro coordinati, e risolventisi altresì in un sistema molto macchinoso, è restato per buona parte nell'empireo delle enunciazioni legislative senza per nulla avviare a soluzione il problema della c., come invece era nei voti. Ed è per questo che, pur dopo un sì rilevante impegno legislativo, altri provvedimenti a breve distanza di tempo si sono succeduti. Ci si riferisce al d.l. n. 115 del 1974, convertito nella l. 21 giugno 1974, n. 247, recante norme per accelerare i programmi di edilizia residenziale e che ha avuto il dichiarato intento - dopo che un'apposita commissione governativa aveva studiato il problema e formulato proposte - di snellire le procedure e di accelerare i programmi dell'edilizia pubblica anche a seguito di pressanti richieste da parte delle Regioni. Ci si riferisce altresì alla l. 15 marzo 1973, n. 166, che ha previsto norme per interventi straordinari di emergenza a favore dell'attività edilizia e in virtù della quale le Regioni formulano i programmi di interventi la cui realizzazione è rimessa agl'Istituti autonomi delle case popolari in base a convenzioni stipulate con i comuni interessati, mentre al ministero dei Lavori pubblici è rimesso di provvedere alla formale concessione dei contributi dopo che sono stati concessi i mutui necessari da parte degl'istituti di credito all'uopo autorizzati e dopo la dichiarazione del capo dell'Ufficio tecnico comunale che attesta l'inizio dei lavori.
Ci si riferisce, infine, al d.l. n. 376 convertito nella l. 16 ott. 1975, n. 492, che, contenente provvedimenti per il rilancio dell'economia, ha destinato altri fondi per l'edilizia sovvenzionata e per l'edilizia convenzionata e agevolata.
Ma pur dopo questi ultimi interventi del legislatore e mentre su uno dei punti nodali della legge, quello riguardante i criteri d'indennizzo per gli espropri, gravano notevoli perplessità di illegittimità costituzionale, prevedendo esso sostanzialmente l'esproprio dei suoli al prezzo dei terreni agricoli, il problema della c. si presenta ancora, in tutta la sua imponenza, nella realtà politica ed economica italiana. E, secondo alcuni, perché esso possa essere avviato a soluzione è necessario che si risolvano altresì prima, e in via propedeutica, altri problemi come quello del regime dei suoli e del connesso assetto urbanistico e quello, di cui innanzi si è parlato, di una liberalizzazione e razionalizzazione del regime delle locazioni.
In tal modo, però, il circolo sembra chiudersi in un contesto di esigenze e d'interessi difficili da conciliare dando luogo a una situazione pregiudizievole non solo per l'economia ma per lo stesso ordinato progresso della società italiana. Ed è per questo che interventi all'uopo incisivi si sono finalmente realizzati. Fra questi è da ricordare la l. 28 genn. 1977, n. 10, contenente norme per l'edificabilità dei suoli.
Equo canone. - C'è poi da ricordare il disegno di legge n. 465 sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani (cosiddetta legge sull'equo canone) il quale, peraltro, è già stato notevolmente modificato dal Senato. Si è innanzi tutto distinto tra locazioni destinate a uso di abitazione e locazioni destinate a un uso diverso; e si è quindi disposta una diversa disciplina per le locazioni i cui contratti siano stipulati in epoca successiva a quella dell'entrata in vigore della legge rispetto a quelli in corso e che siano bloccati o prorogati, per i quali sono state previste norme di natura transitoria.
Per le locazioni destinate a uso di abitazione si è ritenuto che per esse maggiormente assumesse particolare rilievo l'esigenza della c. come servizio sociale. Si è, pertanto, fissata legislativamente la durata del contratto, che non può essere pattuita per un periodo inferiore agli anni quattro, e che, per uno stesso tempo, in mancanza di disdetta, si rinnova, e si è previsto un meccanismo automatico di fissazione legale del corrispettivo della locazione, il cosiddetto "equo canone".
Con riguardo a questo, si è voluto perseguire lo scopo di garantire per un verso agl'inquilini un fitto tendenzialmente stabile e proporzionato ai redditi delle famiglie, e, per altro, una giusta remunerazione, per i proprietari, al capitale investito nell'immobile locato. Si è pertanto previsto che il canone sia pari a una percentuale del costo di riproduzione dell'unità immobiliare considerata, cioè del costo che si dovrebbe sopportare per costruire un fabbricato analogo ai prezzi correnti. Un tale costo di produzione, però, è corretto, in relazione alle varie situazioni in cui un immobile può trovarsi, da una serie di parametri oggettivi che tengono conto di questi diversi fattori di differenziazione, che sono la tipologia edilizia, la classe demografica dei comuni, l'ubicazione, il livello del piano, la vetustà e, infine, lo stato di conservazione e manutenzione dell'immobile. Moltiplicando, pertanto, il costo di costruzione dell'immobile e, più precisamente, la superficie di questo, per coefficienti convenzionalmente determinati per ogni parametro, si ha il valore dell'immobile del locale per il quale il canone è stato ritenuto dal governo equo, equiparandolo alla misura del 3% del detto valore. Tale misura, però, in sede parlamentare e precisamente dalle Commissioni riunite Giustizia e Lavori Pubblici del Senato non è stata ritenuta congrua ed elevata, quindi, al 5%. Ed è proprio su di un tale punto che tra le parti politiche è sorto notevole contrasto che ha ritardato l'iter parlamentare del provvedimento.
Questo, inoltre, contiene la disciplina delle locazioni (uffici, studi, attività commerciali) per le quali, attese le diverse esigenze da soddisfare e da individuare, soprattutto, nella necessità di garantire al conduttore la stabilità necessaria per permettergli lo svolgimento e la continuazione della sua attività, l'autonomia delle parti nella determinazione del contenuto del relativo rapporto è limitata solo con riguardo alla durata del contratto, al suo rinnovo e con riferimento al diritto di prelazione concesso al conduttore. È inoltre prevista una disciplina particolare per la perdita dell'avviamento da parte del conduttore che, nei casi in cui spetti, è liquidato in una misura fissa pari a quattordici mensilità (o diciotto, nelle modifiche apportate dal Parlamento).
Bibl.: Pediani e altri, La riforma della casa, Milano 1971; S. Rodotà, La disciplina delle locazioni urbane, in Il controllo sociale delle attività private, Genova 1972; M. Annunziata, La legge sulla riforma della casa, Napoli 1972; M. Achilli, Casa. Vertenza di massa. Storia di una riforma contestata, Padova 1972.