CARRUBO (dall'arabo kharrūb; lat. scient. Ceratonia siliqua I′.; volg. in italiano anche fava marina; fr. caroubier; sp. algarrobo; ted. Karubenbaum; ingl. carobtree)
Pianta della famiglia Leguminose, sottofamiglia Cesalpiniee; è un albero elevato, sempreverde, con chioma ampia e densa, molto ombroso, a foglie paripennate, aventi da tre a sei coppie di foglioline subsessili, coriacee, lucenti, largamente ovate, intere; i fiori, poligami o dioici, sono piccoli, di colore rossastro, gradevolmente profumati, in racemi brevi, semplici, laterali, sul legno vecchio nella parte inferiore dei rami; calice a 5 sepali dentiformi, prontamente caduchi, petali mancanti, stami 5 con largo disco interstaminale, orizzontale, e ovario brevemente stipitato. Frutto un grosso legume, indeiscente, color bruno-ferrugineo, coriaceo, appiattito, internamente polposo, con semi durissimi, ovoidei, verdastri. Genere monotipico, proprio della regione mediterranea orientale, specialmente insulare: Cipro, Rodi, Creta, Arcipelago greco, Sicilia, Ustica, Pantelleria, Lampedusa, ecc. Classificato dagli autori nella tribù delle Cassiee, si deve invece includere nelle Eucesalpiniee genuine e più propriamente a lato di Gleditschia: il carattere di foglie semplicemente pennate e non bipennate non ha valore, trattandosi di una riduzione dovuta alla stazione, e ancora incompleta: infatti in questa specie sono frequentissimi i casi di foglie parzialmente bipennate. Non si conosce alcun fossile propriamente ascrivibile al genere Ceratonia, e anche la Ceratonia emarginata dell'oligocene di Öningen rimane molto dubbia. Tornabcne dice averne trovata l'impronta di una foglia nei tufi quaternarî dell'Etna; è tuttavia probabile che la Ceratonia siliqua sia anticamente indigena delle isole sopramenzionate e che vi persista ancora allo stato spontaneo, senza che in antico se ne ricavasse alcuna utilizzazione; ma che dappoi, con l'invasione degli Arabi, se ne sia introdotta qualche varietà a frutto migliore, la quale abbia in gran parte sostituita quella indigena. Ciò resta confermato dall'esistenza di un nome greco κεράτιον di un nome latino Siliqua, mentre tutti i nomi moderni europei derivano dal nome arabo al-Kharrūb. In realtà esistono in Sicilia due varietà bene distinte di C. siliqua (oltre altre di minore importanza), una, detta saccarata, a frutti piccoli ma ricchissimi di zucchero, che si va distruggendo, perché si asserisce che i suoi frutti sono di difficile conservazione; l'altra, detta latissima, a frutti assai grandi e molto appiattiti, ma coriacei e pochissimo zuccherini, la cui coltura si va estendendo: questa ultima varietà è detta anche cipriana, perché i suoi frutti corrispondono a quelli che si vanno esportando da Cipro. La Ceratonia è albero proprio dei luoghi montuosi, ma poco lontani dal mare, ove preferisce i terreni calcari, sassosi o rocciosi, riuscendo con le sue potenti radici a spaccarne la roccia e insinuarsi nelle fenditure: perciò resistere a prolungata siccità e a caldo eccessivo: però attualmente può non riesce più a disseminarsi da sola, né è possibile incontrarne piante nate naturalmente. Si coltiva in alcuni luoghi dell'Italia meridionale e della Sicilia, associata per solito al fico d'India e al sommacco. Se ne usano i frutti come alimento degli equini: furono pure impiegati per la fabbricazione dell'alcool dal professor G. Oddo di Palermo; vengono altresì proposti per l'estrazione dello zucchero, con metodo facile e redditizio: nelle varietà più zuccherine, lo zucchero vi si trova nella proporzione del 50 al 60%. I fiori poi sono frequentatissimi dalle api e ciò è importante perché la Ceratonia fiorisce quando si hanno poche piante apiarie in fioritura: il miele che se ne ottiene ha un odore particolare, da alcuni gradito. Anche il legno, rossastro con venature, duro e pesante, è ricercato per lavori di ebanisteria. I semi, torrefatti, sono usati come surrogato del caffè. Da un albero adulto si possono ottenere circa 200 kg. di frutti: si esportano da Cipro ogni anno per parecchie decine di tonnellate: attualmente se ne sono iniziate estese piantagioni in California. Si è preteso che le Locuste di cui si cibava S. Giovanni nel deserto, corrispondessero a questi frutti donde il nome dato ad essi di Pane di S. Giovanni; attualmente, a Cufra, questi frutti sono noti con il nome di Locuste. A torto poi si è creduto che essi fossero quelli dell'albero di loto dei Lotofagi, menzionati da Erodoto e da Plinio: tale loto, come sostenne lo Schweinfurth, non poteva essere che il dattero.
Bibl.: S. Floridia, Il Carrubo, Catania 1930.