DECIO, Carolina
Non sono noti né la data né il luogo di nascita, benché sia l'Albertazzi sia il Mazzoni la definiscano napoletana. Molto scarse le notizie sulla sua vita; certo è che andò sposa al barone Giovanni Carlo Cosenza, commediografo napoletano in auge nella Napoli borbonica grazie ad una abbondante produzione di tipo romantico. Dal matrimonio nacquero almeno quattro figli: Errico, Achille, Carmela e Costantino. Quest'ultimo - avverte l'editore pubblicando i Pensieri morali della D. - morì nel 1821 lasciando la madre in un grave e comprensibile stato di prostrazione. In un breve profilo del Cosenza, G. Casati indica nel 1844 la data di morte della Decio.
La D. ebbe una produzione decisamente più ridotta rispetto a quella del marito, limitata a trattati di carattere moralistico (Discorso analitico sulla commedia "Le Romane",1817; La donna in solitudine, 1818; I pensieri morali, 1823) e a un romanzo in forma epistolare (Le lettere di una italiana, 1825), opere tutte pubblicate a Napoli. Per la scena - stando alle informazioni fornite da O. Greco - scrisse Gli amori di una letterata (Napoli 1827), una commedia in cinque atti, e Odoardo Stenor, dramma in cinque atti di cui non si conoscono né il luogo né la data di edizione.
Il Discorso analitico con cui la D. - per quel che risulta - fa il suo ingresso nel mondo della letteratura, è un'opera di carattere trattatistico e di scarso valore che denuncia e condanna l'immoralità della commedia contemporanea. Al giudizio segue un discorso articolato in quattro momenti nel quale l'autrice espone analiticamente le motivazioni che la inducono ad affermare che unico e ineliminabile fine della commedia (e dunque dell'arte) deve essere quello morale. Una buona commedia deve perciò rappresentare l'uomo non nel suo stato naturale - privo di leggi e dominio della più feroce bestialità - ma esclusivamente in quello sociale - temprato dalla sua propria virtù e dalla vigilanza dei suoi governanti -; il vizio deve sempre apparire sconfitto e sopraffatto, allo scopo di educare più efficacemente lo spettatore. In chiusura l'autrice annuncia due altre opere (Elementi della vera comica e Analisi sulle produzioni teatrali de' migliori autori) della cui pubblicazione non c'è traccia. Dedicato alla figlia Carmelina è La donna in solitudine. Premesso che nascere donna è di per sé una sventura, la D. si lancia nella celebrazione della sua solitudine, unica condizione in grado di allontanarla dalle tentazioni che la frequentazione degli ambienti mondani finirebbe inevitabilmente per presentarle. Stando sola, la donna potrà dedicarsi allo studio e alla meditazione, e, divenuta saggia, potrà finalmente smentire quel luogo comune ingiustificato ma corrente che la definisce ignorante e vacua. Il motivo della solitudine è un chiaro indizio della sensibilità romantica che la D. incarnò pienamente, e in questa luce l'opera va interpretata. Qualche originalità d'ispirazione potrebbe ravvisarsi nel fatto che si auspica la solitudine della donna affinché questa possa elevare spiritualmente il suo animo e ritrovare se stessa. Ma se l'auspicio di un affinamento culturale della donna e, con ciò, di una sua elevazione spirituale, può far ravvisare qualche originalità d'ispirazione, il complesso del discorso non presenta altre grosse novità e rispecchia piattamente la cultura del tempo (la donna vi resta pur sempre il "riposo dello stanco guerriero").
L'opera più importante della D. resta senz'altro il romanzo Le lettere di una italiana. Scritto in forma epistolare sfruttando il vecchio espediente della pubblicazione di scritti rinvenuti per caso, il libro narra una storia d'amore e si costruisce sull'epistolario di una "illustre donna", concittadina dell'autrice, Cielia Derlemayr. Le lettere hanno più di un destinatario (ora sono dirette all'amato, Lisandro, ora ad un'amica, Criseide) e anche l'autore non è sempre lo stesso (appare anche un conte W.). L'amore tra Clelia e Lisandro, appassionato e pieno di tormenti, si conclude tragicamente: Lisandro, che incarna pienamente i tratti del fosco eroe romantico diviso tra l'amore e la fede patriottica, troverà la morte proprio nella sua attività di combattente. Nel romanzo i toni più esasperati della comédie larmoyante si trovano più che condensati, ammassati in un discorso che straripa di iperboli e slanci enfatici, teso a comprendere i motivi più cupi del romanticismo (l'orrido e il raccapriccio dell'agonia e della morte). Vi sono dunque presentì gli elementi fondamentali per fare della D. un'emula di Foscolo, del Goethe dei Dolori del giovane Werther e dello Chateaubriand (Raya). Anche qui, tuttavia, si riaffaccia quel moralismo sentenzioso e austero già sottolineato nelle opere precedenti, come sempre fondato su prevedibili luoghi comuni non troppo rimeditati, e ciò nonostante che, dovendo salvare dei libri, la D. salverebbe solo quelli che "dissero cose nuove in ogni scienza". Se con la dichiarazione introduttiva la D. riconfermava una teoria della letteratura vicina a quella romantica in quanto "memoria" e "sentimento" (pubblica l'epistolario perché "tutti" ricordino la "illustre donna"), con quest'ultima affermazione sembra porsi al di fuori della sensibilità romantica, per rientrare a più pieno titolo nell'ambito illuministico. Ritorna, nelle Lettere di una italiana, anche un altro motivo caro all'autrice, quello della meditazione, anche se, più che un'attività razionale libera e liberatrice, qui sembra essere limitata ad un meccanico ritornare su principi (morali) già accettati e non più in discussione. "Gentildonna oziosetta" la definisce il Raya, appaiando la D. ad un'altra nobildonna, scrittrice anch'essa (Orinthia Romagnoli Sacati) e anch'essa fedele riproduttrice di un modello già fiorente e di cui tanto la D. che la Sacati segnano l'ultima deformazione (Mazzoni).
Bibl.: O. Greco, Bibliogr. femminile ital. dei XIX sec., Venezia 1875, p. 179; G. Casati, Diz. degli Scrittori d'Italia…, II, Milano [1929], pp. 204, 247; A. Albertazzi, Il romanzo, Milano s. d., p. 151; G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1934, I, p. 232; II, pp. 847, 1030; G. Raya, Il romanzo, Milano 1950, p. 163; M. Bandini Buti, Poetesse e scrittrici, Roma 1941, p. 204.