CARNOVALI, Giovanni, detto il Piccio
Nato a Montegrino, sopra Luino, il 29 settembre del 1804, e non del 1806 come hanno sostenuto molti biografi, era figlio di Giovan Battista, muratore. Il padre si trasferì col ragazzo primogenito ad Albino, in quel di Bergamo, nella villa dei conti Spini per alcuni importanti lavori e qui, per la sua piccola statura, il figlio venne soprannominato Piccio, un nomignolo che durerà per sempre e col quale firmerà molte sue opere. E in questo ambiente che comincia a disegnare, e il conte C. Spini, vedutane la capacità, lo raccomanda a Giuseppe Diotti, professore di pittura all'Accademia Carrara. Convintosi delle attitudini del ragazzo, questi lo accoglie nella scuola, benché non avesse compiuto i prescritti dodici anni, nel novembre del '15, e predice per lui un avvenire di "artista straordinario". Premiato per tre volte, è ammesso presto alla sezione di nudo. La sua prima opera pubblica è l'Educazione della Vergine per la parrocchiale di Almenno San Bartolomeo, consegnata nel 1826, opera di estrazione neoclassica, ma corretta da una tenerezza tolta all'Appiani più intimista e con riferimenti a Bernardino Luini, che per anni è il suo pittore preferito.
Ha in particolare uggia la pittura di storia, in cui si esercitarono per decenni i pittori italiani, dall'Hayez al Pollastrini, all'Ussi; in effetti la loro pittura resta gelida in correttezze formali; il C. invece aspira a far vibrare i risvolti del sentimento, a scoprire le passioni al di fuori di quei lucidi manichini, apparati per effetti teatrali. Dipingerà, è vero, anch'egli scene mitologiche o bibliche, come la Rebecca scacciata o la Morte di Lucrezia o la Morte di Virginia (tutte in raccolte private a Bergamo); ma di esse coglierà l'animo profondo, la partecipazione emotiva. La poetica romantica della sua pittura non è un atteggiamento letterario, ma piuttosto una sensibilità per le risonanze del sentimento. Essa, d'altra parte, corrisponde a un'inclinazione della sua stessa esistenza, giudicata un po' bizzarra, in quanto amava la solitudine, i viaggi improvvisi a piedi, la contemplazione schiva dei paesaggi.
A piedi, per quasi certo suggerimento di Pietro Ronzoni, un pittore bergamasco di lui più anziano di ventitré anni, il C. si reca a Roma nel 1831. Non ha certamente studiato i marmi romani, ma piuttosto le pitture di Raffaello, in accordo con la sua vena romantica. Sulla strada del ritorno si sofferma difatti, a Parma, sulle pitture del Correggio e del Parmigianino, e se ne vedono gli effetti nella più tarda Arianna abbandonata del Museo Malaspina di Pavia.
Amico di molti personaggi bergamaschi e cremonesi, che ne accettano le stramberie, ma capiscono il suo valore pittorico, esegue molti ritratti, a mezzo busto per lo più, in cui l'indagine psicologica si allea con una espressività pittorica di sottili impasti cromatici e di mezze luci, creanti una sorta di alone soffice.
Dal 1836 prende dimora anche a Milano, ma si tiene distante dall'ambiente artistico, rifiutandosi di rispondere a chi batteva al suo studio. Ha modo invece di seguire gli spettacoli musicali e di ritrarre la Malibran e altri cantanti. Si innamora di una sorella del cantante Marini, Margherita; ma non le si rivela. La morte precoce di Margherita gli provoca un dolore tanto più cocente quanto più silenzioso.
Per quanto i suoi ritratti siano ricercati, e in particolare i bozzetti di tanti episodi biblici o mitologici, la sua fama è ristretta in ambienti locali di Bergamo e Cremona; la sua pittura libera, a stesure immediate di pennello che creano l'immagine e l'atmosfera che la avvolge, non trova alcun ausilio dalla critica del tempo. Nel 1840 la Fabbriceria di Alzano Maggiore gli commette una pala con Agarnel deserto;la consegnerà dopo tanti studi e abbozzi solo nel 1863: verrà aspramente criticata da Pasino Locatelli (cfr. Storia d. pittura italiana dell'Ottocento, I, pp. 16 s. n. 1) e poi rifiutata. La consuetudine classicheggiante di allora non permise ai critici di avvertire la novità della pittura del C., intimamente romantica.
Un altro viaggio a piedi compie col collega Giacomo Trécourt a Parigi, nel 1845. èl'anno in cui Baudelaire ha preso le difese di Delacroix, e il C. vuol vedere con occhi propri. A Parigi ha certamente guardato la pittura italiana esposta al Louvre, ma anche Watteau, e, in fondo, deve aver pensato che Delacroix trasferiva nei propri quadri tanti motivi della pittura italiana, veneziana in particolare, cioè la stessa sulla quale il C. studiava di continuo nelle chiese e nelle collezioni bergamasche. Quando partì per Parigi non era più il giovane pittore in cerca di insegnamenti: l'artista era già sbocciato e maturo. Delacroix, certo, fu un pittore legato alle grandi vicende culturali e storiche della Francia; il C. resta legato a spunti e motivi più intimi e teneri; ma l'inclinazione romantica è uguale e l'espressione pittorica non differisce molto da quella del maestro francese. Non si può dire che il C. sia rimasto indifferente alla pittura di questo: ma nemmeno che ne discenda. La grande tradizione italiana, in particolare veneziana, con la influenza delle luci vaporose lombarde lo avevano nutrito in maniera indipendente, e quindi si deve parlare di affinità, anche se Delacroix è più eloquentemente impetuoso e complesso.
Si conoscono altri viaggi a piedi a Roma, forse nel '48 e di sicuro nel 1855 con F. Faruffini, con il quale si spinse fino a Napoli. Anche questo rapporto amichevole col Faruffini dice quali affinità li legasse e ha ragione E. Cecchi (Pittura ital. dell'Ottocento, Milano 1938, p. 23) quando scrive che la pittura del C. e del Faruffini sta alla base della scapigliatura di Tranquillo Cremona e di Daniele Ranzoni: quel colore sfumato nella luce e l'intensità emotiva che coinvolge le figure in spessori di atmosfera.
Il rifiuto della pala dell'Agarnel deserto provoca una polemica vivace da parte dell'amico Trécourt (cfr. Storia d. pittura ital. dell'Ottocento, I, pp. 16 s.), che però non riesce a fermare il rifiuto. Non sappiamo quali siano state le reazioni del C., del quale non restano testimonianze scritte. Intanto la sua pittura aveva accresciuto l'interno fuoco emotivo e si manifestava con un colorismo acceso, frantumato, vibrante di passionalità e di luci balenanti. Lo dimostrano i quadri dipinti dopo il '60, tra cui il Mosè salvatodalle acque (ora in collezione privata a Bergamo), la Susanna al bagno già del conte Camozzi, la Bagnante dellaGalleria civica di Milano, e l'Adorazione del vitello d'oro della collezione Finazzi di Bergamo (intorno al 1870). Altri quadri rivelano una particolare morbidezza sensuale, che resta costante nella sua pittura, e cioè le telette di Selene ed Endimione (coll.priv., Bergamo), di Diana e Atteone (coll.Finazzi, Bergamo), di Amore e Psiche (coll. priv., Milano).
Il 5 luglio 1873 si bagnò nel Po, a Cremona. Venne ritrovato cadavere tre giorni dopo e sepolto a Coltaro come sconosciuto. Le sue spoglie, successivamente identificate, furono traslate nella cappella della famiglia Bertarelli a Cremona.
Bibl.:U.Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, p. 21(sub voce Carnevali Giovanni), ma vedi la bibl. completa (pp. 177-186) nel catal. Il Piccio…, della mostra tenutasi a Bergamo, a cura di F. Rossi-B. Lorenzelli-M. Valsecchi, Milano 1974; cfr. anche Storia della pittura ital. dell'Ottocento, Milano 1975, I-III, ad Indicem;Musei e Gall. di Milano, L. Caramel-C. Pirovano, Gall. d'arte mod. Opere d. Ottocento, Milano 1975, III, pp. 659 s. etavv. 2053-67.