VARESE, Carlo
VARESE, Carlo . – Nacque a Tortona il 30 gennaio 1792 da Vincenzo, commerciante di grani, e da Maria Antonia Schiavi, cultrice di letteratura nel modesto ambito culturale della città.
Nel 1803 si trasferì ad Alessandria per frequentarvi il liceo, da convittore gratuito, e poi a Casale, dove risiedette cinque anni, avendo come professore di retorica e filosofia l’abate Costanzo Gazzera, che rappresentò sempre per lui un costante polo di riferimento culturale. In questi anni lesse, in prevalenza, opere francesi (Pierre Corneille, Jean Racine, Molière), ma anche Carlo Goldoni, Vittorio Alfieri e Ossian. Questi autori, insieme con l’influsso materno, lo spinsero precocemente a esercitarsi nell’arte tragica con un’opera ossianesca, Oitona, che compose quindicenne e che fu anche rappresentata, ma senza che l’autore ne conservasse copia. Nel 1808 si iscrisse alla facoltà torinese di medicina, su pressione della madre, laureandosi nel 1813; il tirocinio lo effettuò invece a Pavia, dove si consolò della prassi ippocratica con la lettura di Laurence Sterne tradotto da Ugo Foscolo.
Da Pavia si trasferì per un breve periodo nella città natale, dove compose una Ode polimetra sulle glorie passate di Tortona, e poi, intorno al 1820, a Voghera, dove sposò la figlia del medico Francesco Frambaglia ed esercitò con dignità la professione, acquistando una discreta nomea anche per uno studio sull’epidemia colerica commissionatogli dal consiglio comunale. Ma nel frattempo erano apparsi in Italia «i romanzi di Walter Scott che levarono quel grido che ognun sa», destando in Varese «l’idea che a quel modo stesso si sarebbe potuto descrivere i casi d’Italia nostra, della quale appena si poteva proferir il nome senza pericolo»; e «in pochi mesi dettai il mio primo romanzo storico, Sibilla Odaleta, episodio delle guerre d’Italia, cioè l’invasione del regno di Napoli per Carlo VIII» (Carlo Varese al suo amico Angelo Brofferio, in Brofferio, 1860, p. 96). La sua datazione è controversa, ma è ragionevole ascriverla almeno al 1825, due anni prima dell’edizione in volume, nell’anno fatidico che segnò la nascita del romanzo storico in Italia, quando apparvero in rapida successione le opere di Alessandro Manzoni e di Francesco Domenico Guerrazzi, di Vincenzo Lancetti e di Giambattista Bazzoni, di Angelica Palli e di Stefano Ticozzi.
Il romanzo di Varese venne accolto con entusiasmo dal pubblico, anche perché pimentato dalle suggestioni di Ann Radcliffe e Matthew Gregory Lewis, oltre che dall’umorismo di Sterne e dalla narrativa d’appendice. E l’insofferenza per la vita a Voghera ebbe non poco peso nella conversione sempre più totalizzante di Varese al romanzo, sia storico sia di argomento contemporaneo: con ritmo febbrile, nell’arco di un lustro, diede vita a ben sei opere narrative. Nel marzo del 1828 aveva già sotto i torchi La fidanzata ligure; in esame, presso la censura milanese, erano I prigionieri di Pizzighettone (1829, come anche Gerolimì, ossia il nano di una Principessa); e già in via di elaborazione il Folchetto Malaspina e Il proscritto. Storia sarda, pubblicati ambedue nel 1830. Ancora di ambientazione sarda, ma nel tardo Quattrocento, e nata dalle pagine storiche di Giuseppe Manno come dal Voyage en Sardaigne di Alberto Ferrero della Marmora (1826), è Preziosa di Sanluri (1832), che doveva far parte di una tetralogia insulare, fermatasi alla seconda anta.
Sulle orme di Scott, l’interesse per il magico, le credenze popolari, gli aspetti della cultura materiale, era percepibile in tutte le prove narrative di Varese: nella prefazione a La fidanzata ligure dichiarò di essersi prefisso di «descrivere uno spazio di paese» e «gli usi di un popolo» (p. 3). Non si trattava, però, semplicemente di rinsanguare la vita del romanzo storico in Italia attraverso l’apporto di una precisa caratterizzazione localizzante: l’ambizione di Varese fu quella di aprire una strada nuova nel romanzo italiano, operando un mutamento profondo delle tecniche e delle strutture narrative mediante l’apporto decisivo della ricchezza antropologica. Preziosa di Sanluri è, pertanto, l’opera più scottiana di Varese: fondata sulla omologia tra gli highlanders scozzesi e i montanari sardi, e sull’urto storico di un popolo oppresso contro un altro egemone e sopraffattorio, narrava un episodio di lotta irredentistica che si chiudeva nel segno della crisi e della delusione, con trasparente allusione alle condizioni dell’Italia disunita nel primo Ottocento.
Come in Manzoni, la Storia ebbe poi la prevalenza sulla narrativa.
Nel prosieguo degli anni Trenta Varese pubblicò un solo romanzo, Torriani e Visconti, o scene casalinghe pubbliche e storiche della vita milanese del sec. XV (1839, ma scritto nel 1832), dedicandosi quasi esclusivamente agli studi di erudizione storica. Coadiuvato dai consigli e dal dialogo con Costanzo Gazzera, nel 1835 diede a stampa il primo degli otto volumi della Storia della Repubblica di Genova, conclusa nel 1838 e accolta con favore da Giuseppe Mazzini, ma non dai decurioni genovesi, che vi intravidero un appoggio alle politiche del governo piemontese. Quest’opera monumentale gli valse l’ingresso in prestigiose accademie, l’offerta di una cattedra all’Università di Corfù (rifiutata) e soprattutto l’appartenenza all’Ordine del merito civile di Savoia (con vitalizio annuo di 800 lire, poi elevato a 1000).
Dal 1840 Varese si trasferì da Voghera, della quale era sempre più insofferente, a Genova, dove contemperava la professione medica con la stesura della Storia della Repubblica di Venezia, rimasta inconclusa al primo volume e mai pubblicata. Nella città ligure una rottura scomposta del femore lo tenne per quasi due anni a letto, sicché, «guasto nella salute, mi disgustai di scrivere» (Carlo Varese..., in Brofferio, 1860, p. 119), sia di narrativa sia di storia. Si diede allo studio della lingua spagnola per poter leggere nell’originale il Don Chisciotte, ma anche per poter tradurre qualche opera di Leandro Fernández de Moratín, di Juan Ruiz de Alarcón e di José Zorrilla y Moral; e un’eco di questa assidua frequentazione dello spagnolo è in alcune delle novelle che compose e pubblicò sparsamente in questo periodo (El diablo se lieve el amor!; Ortobolan, Pistafrier, Ornagriuf, ossia Decano, Vescovo, Arcivescovo, Cardinale e Papa).
Nel 1847 fu nominato segretario della Commissione di revisione della stampa per la città e la provincia di Genova, con voto di revisore: incarico durato non molto tempo, fino al 1851, mentre la sua permanenza genovese si prolungò fino al 1858 quando, avendo deciso di intraprendere la vita politica, fu eletto deputato nel collegio di Serravalle, poi di Gavi e, infine, in quello di Novi Ligure. Diligente nella vita parlamentare (una sola domanda di congedo per malattia), votò quasi sempre in accordo con la Sinistra moderata, «pieno di fiducia nel trionfo della libertà e della democrazia» (Carlo Varese, in I 450 deputati del presente e i deputati dell’avvenire, III, Milano 1865, p. 18). Godette della stima di Camillo Benso di Cavour, che lo incaricò di stendere un’appendice storica sul Risorgimento italiano per il Calendario generale del Regno (mansione che gli venne sempre rinnovata per gli anni dal 1860 al 1865, con la sola eccezione del 1862). Nel 1863 condannò apertamente la campagna contro il brigantaggio, portata avanti dal governo con l’uso della forza, suggerendo invece interventi finalizzati al miglioramento delle condizioni economiche e sociali.
Nonostante la scarsa salute, nel 1865 seguì il nuovo Parlamento a Firenze, accompagnato dalla figlia Clementina e dai nipoti Carlo e Filomena.
Il 15 settembre 1866 morì settantaquattrenne a Rovezzano, dopo nove mesi di sofferenze. «Lo accompagnarono alla tomba alcuni pochi deputati al Parlamento [...], vari amici affezionati, un drappello di guardie nazionali», in un funerale modesto «come l’uomo che aveva cessato di vivere» (Fassò, 1909, p. 31).
Opere. Preziosa di Sanluri, I-II, a cura di A.M. Morace, Sassari 2002; Il proscritto. Storia sarda, a cura di A.M. Morace, Nuoro 2004.
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