TROYA, Carlo
– Nacque a Napoli il 7 giugno 1784, primogenito di Michele Troja e di Anna Maria Marpacher.
Ebbe un fratello, Ferdinando (v. la voce in questo Dizionario). Nel corso del suo esilio mutò la j in y nel cognome del padre, chirurgo di corte di origine pugliese di Andria, che costituì sempre per lui il modello dello scienziato e del ricercatore. La madre era di famiglia tedesca e dama di compagnia della regina Maria Carolina, alla quale dovette il nome.
Carlo trascorse nella corte borbonica l’infanzia e la prima gioventù: allievo del matematico Nicola Fergola, fu poi educato nel collegio dei Cinesi fino a quando alla vigilia del 1799 seguì la famiglia e la corte a Palermo. Il periodo dal 1798 al 1802, trascorso in Sicilia, fu assai importante per la sua formazione, lasciando nel suo animo «orme profonde e carissime» (G. Trevisani, Brevi notizie della vita e delle opere di Carlo Troya, Napoli 1858, p. 4): conobbe da vicino i più importanti studiosi e politici siciliani ed ebbe come educatori il famoso astronomo Giuseppe Piazzi, che gli trasmise la passione per la geografia, e Rosario Gregorio, sua guida spirituale, profondo conoscitore della letteratura storica illuminista, ammiratore di David Hume e fautore di un’idea patrimoniale della trasformazione dei feudi. Legato alla politica di Francesco Maria Venanzio d’Aquino, principe di Caramanico, Gregorio considerava complementari le due realtà del Regno sotto una monarchia indipendente dagli stranieri. Influenzato da queste idee il giovane Troya considerò ben presto con distacco l’interminabile dibattito sul feudo che ancora alla vigilia del 1799 contrapponeva le pretese dell’aristocrazia siciliana all’assolutismo illuminato della monarchia borbonica. La sua condizione di esule poi, differente certo da quella dei patrioti liberali, era comunque portata a registrare istintivamente una crisi epocale del legittimismo, compreso quello riformistico, insieme a una ripulsa verso ogni forma di dominazione straniera.
Tornato a Napoli vi rimase, a differenza della famiglia, anche dopo l’avvento dei napoleonidi.
Di questi anni si conosce molto poco: secondo le aspettative familiari si laureò in giurisprudenza e restano alcune allegazioni riguardanti il tradizionale contenzioso tra comuni e feudatari. Pur stimato per cultura e conoscenza perfetta della lingua, non volle accettare incarichi dal governo francese. Si sa che curava gli affari familiari, era a conoscenza di una sterminata letteratura di storia e geografia (il Compendio di Charles Jean François Henault, i viaggi di Alexander von Humboldt, i libri di Luigi Maria Galanti, di cui fu molto amico, e i lavori di John Pinkerton), frequentava la casa del marchese Gomez Paloma e della figlia Lucia che sposò quel Giuseppe De Thomasis che lo favorì e per il quale Troya ebbe sempre rispetto e ammirazione.
Con la fine del murattismo ottenne la nomina, più congeniale alle sue attitudini, di avvocato della Casa reale. Scoppiata la rivoluzione del 1820, abbracciò subito la causa costituzionale, scrisse sulla Voce del secolo e fondò con gli amici Giuseppe Ferrigni e Raffaele Liberatore La Minerva napolitana, una rivista che ebbe grande notorietà anche fuori del Regno, dove intervenne su molti temi, sposando una sorta di religione costituzionale, ma distinguendosi da murattiani e carbonari. Nel marzo del 1821 fu inviato da De Thomasis come intendente in Basilicata, carica esercitata onorevolmente e con soddisfazione della popolazione locale fino al 3 aprile. Anni dopo prese le distanze da «quella rivoluzione che io biasimava» (Della civile condizione dei romani vinti dai Longobardi e di altre quistioni storiche. Lettere inedite di Carlo Troya e Cesare Balbo, a cura di E. Mandarini, Napoli 1869, p. 35), forse giudicata troppo municipalista, ma allora le conseguenze furono pesanti: prima la perdita delle cariche e della residenza a Corte, e due anni e mezzo dopo l’allontanamento dal Regno.
L’ingiusto ‘ostracismo’ segnò tuttavia una svolta fortunata perché finalmente Troya abbandonò la pratica forense e poté dedicarsi a quegli studi che lo appassionavano: una ricerca sui luoghi danteschi della Commedia in modo da far emergere un tessuto non di allegorie morali, ma di vicende reali di Dante nel suo secolo, quando la nazionalità italiana riemergeva dopo il lungo sonno medievale. Fu un ininterrotto e faticoso pellegrinaggio per città, archivi, monasteri e biblioteche del centro d’Italia, fino alla scoperta di Uguccione della Faggiola, il Veltro che rappresentava il condottiero che dava alla nuova lingua una dimensione politica e al quale il poeta aveva consegnato le sue speranze. Il fallimento di queste ultime chiamava in causa quell’antica frammentazione politica che era stata insieme causa delle drammatiche vicende personali di Dante e origine di una mancata coscienza nazionale.
L’esilio ebbe anche altri risvolti. Non solo Troya rafforzò i legami di amicizia con gli altri napoletani compagni d’esilio (la famiglia Poerio, Matteo Imbriani, Pietro Colletta, Gabriele Pepe, Raffaele Liberatore, Saverio Baldacchini, Carlo Mele, Antonio Ranieri), ma conobbe e frequentò a Firenze, Roma e Bologna gli ambienti dell’aristocrazia patriottica, che condividevano idee e studi, come Giovanni Marchetti e il suo circolo bolognese, Gino Capponi, Giovan Pietro Vieusseux, Vincenzo Salvagnoli, Emanuele Repetti e nobildonne note nei circoli liberali, da Margherita Fabbri d’Altemps a Maria Teresa Gozzadini a Cornelia Martinetti. Il Veltro allegorico di Dante uscì all’inizio del 1826 e suscitò un esteso dibattito che, tuttavia, con gran fastidio dell’autore, si concentrò solo sull’identità storica della figura del Veltro. Troya ne fu così scontento da ripubblicare il lavoro su Uguccione prima sulla rivista Il Progresso del 1832 e poi in un volume del 1855 dal titolo nuovo e significativo – Del Veltro allegorico dei ghibellini – e dalla più ampia documentazione. Intanto andava maturando la continuazione del Veltro in un lavoro più vasto sull’Italia medievale per cercare le origini di una storia nazionale che aveva visto interrotta la sua evoluzione. Realizzò così una visione più chiara del rapporto tra italianità, indipendenza e ricerca storica. L’interrogativo che sottostava ai suoi studi non era diverso da quello che aveva tormentato il segretario fiorentino e tanti dei suoi contemporanei: perché l’Italia non si era avviata sulla strada di una grande nazione? La domanda richiamava uno spettro di questioni che richiedevano a quel punto ricerche più ampie e approfondite.
Nel marzo del 1826 Troya ebbe il permesso di tornare a Napoli per assistere il padre infermo ma, nonostante le lunghe e fruttifere ricerche a Montecassino, il clima culturale della città – «dai vecchi amici», scriveva a Margherita d’Altemps, «sono divelto» (N. Belletti, Di un carteggio inedito di Carlo Toya a Margherita Fabbri d’Altemps, in Rassegna storica del Risorgimento, V (1918), 1, p. 69) –, il continuo controllo poliziesco e la febbre per una ricerca che richiedeva il ritorno nell’Italia centrale gli rendevano triste e difficile la permanenza. Ripartì così, dopo la morte del padre, nel giugno del 1828 per Roma.
In questo periodo avvenne una svolta nella ricerca grazie alla scoperta del frammento fantuzziano (noto come Promissio Carisiaca – l’atto, ancora oggi d’incerta esistenza, con cui Pipino s’impegnava con Stefano II a una guerra contro Astolfo in cambio del riconoscimento della corona di re dei Franchi e del titolo di patrizio di Roma) e dell’interpretazione dell’età dei Longobardi come cesura della storia italiana che la differenziava da quella degli altri Paesi. Su queste basi contestò il famoso giudizio di Niccolò Machiavelli e dei suoi seguaci sul ruolo del Papato, sulla chiamata di Carlo Magno e sul tasso di fusione tra i Longobardi e la vinta popolazione romana, finendo però per inimicarsi vecchi compagni, in particolare Gabriele Pepe ligio agli stereotipi del giurisdizionalismo meridionale, e a creargli quella nomea di papalino e neoguelfo che non l’abbandonò più, anche dopo la morte. Per lui il potere temporale era nato dallo scioglimento del Papato dalla subordinazione a un Impero bizantino che non aveva saputo difendere l’eredità della civiltà romana e la Chiesa come sua custode più intransigente: «l’intelletto latino», custodito dall’autorità ecclesiastica, sarebbe rifiorito con la rinascita dei commerci e degli scambi e la fine del retaggio delle invasioni. Certamente erano risposte ben più complesse di quella ideologia neoguelfa che poi gli si è voluto comunemente attribuire sulla scorta delle polemiche del tempo e di un giudizio che ha voluto trasformare polemiche politiche in categorie storiografiche.
Con il tema manzoniano dei Romani vinti e ridotti a servitù Troya si accostava al dibattito sulla ‘conquista’ e alla forma che la ‘feodalità’, come supremazia di un’etnia, aveva assunto in Italia. Una conferma della sua impostazione gli fu fornita dal lungo scambio epistolare con Cesare Balbo, interessato allo stesso tema, anche se meno certo sulla radicale separazione tra vinti e vincitori. Quest’amicizia si estese a tutto l’ambiente torinese (Federico Sclopis, Carlo Baudi di Vesme, Carlo Promis) anche se rimase sempre una distanza nel giudizio sui Longobardi. Le tesi di Troya si possono così riassumere: netta separazione tra vincitori e vinti, privati della loro cittadinanza ed esclusi anche dal guidrigildo; nascita, con l’editto di Rotari, di un diritto ‘territoriale’ che escludeva pratiche consuetudinarie per i vinti che non fossero esercitate in un ambito strettamente privato; distruzione della classe proprietaria e senatoriale e riduzione dei Romani ad aldi e tributari di un terzo dei frutti; miglioramento della condizione degli schiavi che, divenuti servi, erano trattati con umanità maggiore. Era anche un’interpretazione che, diversamente dall’opinione patriottica del tempo, lo portava a escludere che la civiltà comunale fosse diretta derivazione del municipio romano. La ricostruzione storica, che dal melting pot barbarico degli anni della caduta dell’Impero romano giungeva all’invasione longobarda, era fondata su una secolare dialettica conflittuale tra latinità e germanesimo: per questo Troya contestava Friedrich Karl von Savigny e la sua tesi sulla continuità del diritto e del municipio romano, e in generale la storiografia erudita tedesca, colpevole, a suo dire, di privilegiare l’influenza della nazionalità tedesca nelle origini del mondo moderno e l’elemento germanico come lievito di una fusione che dissolveva quello romano. Gli venne il dubbio – lo testimoniarono i tredici anni trascorsi dal Veltro alla pubblicazione del primo tomo della Storia – di una certa debolezza delle sue tesi, confezionate già dal 1830. Emerse così il secondo gran tema – l’origine non germanica dei Daci o Goti – che dalla metà degli anni Trenta divenne il suo chiodo fisso per combattere l’idea che le «sole razze germaniche avessero signoreggiato il mondo romano» (Della civile condizione dei romani..., cit., p. XXXIII). Era una tesi piuttosto fantasiosa che, come ammetteva lo stesso autore, trovava assai scarsi seguaci, ma che lo storico sostenne con caparbietà per tutto il resto della vita, ricercando un’identità storica e culturale di quella popolazione e scontrandosi con i risultati della linguistica comparata più moderna.
Pur immerso nei suoi studi, Troya fu sempre attento all’evoluzione di un movimento nazionale che concepiva, fin dagli anni della Minerva napolitana, secondo un’ispirazione di nazionalismo liberale, seppur composta in un quadro di regimi autonomi e costituzionali. Per questo, quando Ferdinando II concesse la costituzione, si affrettò a fondare con Saverio Baldacchini un giornale, Il Tempo, che auspicava una «nazione federale», dove lo storico intervenne con cinque lunghi articoli sulla questione siciliana con un taglio molto più attento, suggeritogli anche dalla lettura «dell’egregio Amari», alle ragioni autonomistiche. Anche questi articoli indussero il sovrano a designarlo il 3 aprile 1848 alla guida di un nuovo governo. La situazione, tuttavia, si era troppo radicalizzata e Troya si convinse che la soluzione della questione siciliana aveva natura nazionale (si sarebbe risolta nelle ‘pianure lombarde’) e non dinastica. Il suo governo perciò favorì l’invio di truppe sul fronte lombardo veneto, ma dopo un lungo contenzioso con il sovrano sul tasso di parlamentarismo del nuovo sistema politico cadde con le barricate del 15 maggio. Anche dopo, tuttavia, in un contesto ancora aperto a promettenti esiti nazionali, non si rassegnò al silenzio e, combattivo in Parlamento, fondò nel febbraio del 1849 con Giovanni Manna e Antonio Scialoja, un nuovo giornale, Il Secolo, dove intervenne con significativi e dotti articoli di storia nei quali la critica al papato contemporaneo, addirittura in nome di una forma di gallicanesimo, era tutt’altro che reticente. Il giornale fu chiuso nell’aprile insieme alla breve esperienza costituzionale.
L’approccio politico e storiografico di Troya, legato all’arco tra il costituzionalismo del 1820 e l’idea nazionale del 1848, non era tale da poter essere facilmente inserito nella ricostruzione del percorso scandito retrospettivamente dopo l’unificazione. A questa ragione va probabilmente ascritta l’assenza di ampi studi sulla sua figura. Rimase, inoltre, non casualmente oscurata una sua radicata convinzione: nel Regno di Napoli, oppresso da tante dominazioni straniere e con un accresciuto peso della feudalità, era assai debole «quel grande ideale d’Italianità» (G. Del Giudice, Carlo Troya, vita pubblica e privata, studi, opere, con appendice di lettere inedite e altri documenti, Napoli 1899, p. 47) che Troya ravvisava nelle altre regioni. Anche per questo, pur non sottraendosi alla necessità di approfondirne la storia (fondò nel 1844 una Società storica che però non ebbe vita lunga) né agli impegni politici allorché fu chiamato a sostenerli, non si fece mai soverchie illusioni sulla partecipazione del Regno all’impresa nazionale. Tale convinzione non avrebbe certo potuto alimentare la retorica del martirologio meridionale postunitario.
Dopo il 1848 per l’età, la notorietà, lo stato di salute (Troya soffriva di un’infiammazione al midollo che gli tolse progressivamente l’uso delle gambe) e la parentela con ministri del nuovo governo (il fratello Ferdinando e il cognato Pietro d’Urso, fratello della moglie Giovanna, sposata senza figli nel 1834) evitò l’arresto e poté reimmergersi nei suoi studi, conclusi nel 1855 con l’ultimo tomo del Codice.
Morì a Napoli il 28 luglio 1858, circondato dagli amici più cari.
Il governo volle esequie modestissime e senza segni di onoranze o di seguito numeroso.
Opere. Oltre ai testi citati, si segnala una Memoria sulla divisione fisica e politica delle Calabrie, Napoli 1816. Le Nuove leggi Longobarde, pubblicate su Il Progresso nel 1832, anticipano la Storia d’Italia nel Medio-Evo che fu pubblicata a Napoli dal 1839 al 1855 in quattro volumi e sedici tomi. I primi tre tomi presso la tipografia del Tasso, gli altri tredici dalla Stamperia Reale. I primi tre volumi (11 tomi) narrano la storia dalla caduta dell’Impero alla morte di Alboino; il IV volume comprende 5 tomi del Codice diplomatico longobardo (una raccolta di documenti riguardanti quel periodo e un’appendice di dissertazioni). Scritti, poi rifluiti nella Storia, sono presenti in varie riviste: Il Saggiatore, Scienza e Fede, Il Giambattista Vico, Museo di letteratura e filosofia, La Cronaca, Il Progresso, Rivista napolitana. Postumi, a cura di Enrico Mandarini, apparvero gli Studii intorno agli Annali d’Italia del Muratori, Napoli 1869, ossia una prima parte delle postille di Troya agli Annali.
Fonti e Bibl.: L’intero lascito epistolare e altri documenti, tra cui il grosso libro di appunti dalle letture, è custodito presso la Biblioteca nazionale di Napoli. Altre lettere di Troya a Marchetti, Vieusseux e Giuseppe Canestrini si trovano nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze, e presso la Deputazione di storia patria toscana (copialettere di Vieusseux). Le lettere a Sclopis si trovano presso il fondo Sclopis dell’Accademia delle scienze di Torino. Le lettere al dantista Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta, sono state pubblicate in Carteggio dantesco del Duca di Sermoneta..., Milano 1883, pp. 141-157; Lettere al conte C. T., in Giornale dantesco, VII (1899), pp. 1-30. La biblioteca fu donata dalla moglie alla Biblioteca dei Girolamini. Sono solo due i lavori biografici (già citati): del discepolo affezionatissimo Gaetano Trevisani che morì l’anno successivo a quello del maestro e di Giuseppe Del Giudice, funzionario del Grande Archivio, che scrisse in tarda età una biografia documentata, ma disordinata. Notizie sulla famiglia sono contenute nella biografia del padre scritta dal medico danese Albrecht von Schönberg, Biographie des Dr. und Professors Michel Troja, Erlangen 1828. L’unica vera recensione alla Storia, ma solo ai primi 4 tomi del I volume, fu quella di Luigi Blanch su Il Progresso (1839, 1840, 1841) e sul Museo di scienze e letteratura, 1843. Hanno a lungo influenzato il giudizio storiografico le pagine di Benedetto Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, I, Bari 1921, pp. 125 s. Notizie nuove e originali sullo storico dettero Giovanni Beltrani, Raffaele de Cesare, Riccardo Zagaria, Michelangelo Schipa, Domenico Majocchi, Antonio Noya e, sulla questione del Veltro, Ezio Savino e Aldo Vallone. Nel dibattito storiografico più recente è assente uno studio, anche se osservazioni assai importanti sono dovute a Giovanni Tabacco, in particolare Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica italiana, in Rivista storica italiana, CII (1990), 3, pp. 707-711. Recentemente, I. Wood, The modern origins of the Early Middle Ages, Oxford 2013, pp. 125-129.