TRASSELLI, Carlo
– Nacque a Palermo il 17 novembre 1833, da Vito e da Felicia Gemelli.
Ebbe quattro fratelli: Carmelo, Salvatore, Francesco Paolo e Giulia. Il padre, membro del Consiglio provinciale di Palermo, era un agiato commerciante, in affari con i Florio e con diverse famiglie aristocratiche dell’isola.
Carlo crebbe dunque in un clima di benessere economico. Nel 1849 si sposò con Giuseppa Quartararo e l’anno successivo ebbe un figlio, Francesco. Nello stesso periodo entrò a far parte degli ambienti antiborbonici della capitale siciliana, stringendo una solida amicizia con Francesco Riso e Salvatore Calvino. Proprio in ragione di questi contatti fu protagonista, insieme al fratello Carmelo, degli eventi del 1860, partecipando attivamente alla rivolta della Gancia e subito dopo alla spedizione garibaldina. Nel mese di aprile, in seguito alla sollevazione guidata da Riso, trasformò la sua residenza – palazzo Galletti di S. Cataldo, in vicolo Palagonia all’Alloro, a pochi passi dalla zona delle operazioni – nel luogo di raccolta di uomini e armi a sostegno della rivolta; il mese successivo, subito dopo lo sbarco di Marsala, si arruolò come volontario con le camicie rosse e venne nominato milite della guardia di palazzo dittatoriale. Successivamente prese parte alle campagne di Capua e del Volturno con il grado di tenente colonnello.
La conclusione della dittatura garibaldina coincise con un periodo di relativa tranquillità, dedicato alla ricerca di un’occupazione stabile: nel 1861 rilevò l’attività commerciale del padre ed ebbe un incarico amministrativo alle Dogane dell’isola, oltre a essere eletto consigliere provinciale di Palermo (carica che ricoprì dal 1861 al 1864).
Il ritorno alla politica attiva avvenne già nel 1862, in occasione della nuova spedizione di Giuseppe Garibaldi, giunto in Sicilia da Caprera, il 28 giugno, e intenzionato a muoversi in direzione di Roma. In quella circostanza Trasselli – che ormai da alcuni mesi si era avvicinato alla fazione democratica antigovernativa riunita intorno al giornale Il Precursore – non volle rinunciare a un ruolo da protagonista: fu infatti a capo di una colonna composta da circa ottocento uomini, incaricata di muoversi da Termini in direzione di Messina, e da qui prendere la via del continente. Gli si affiancarono altri due reparti: il primo, al comando di Giovanni Corrao, assegnato alle zone interne dell’isola, tra Enna e Caltanissetta; il secondo, guidato da Giuseppe Bentivegna (fratello del più noto Francesco) destinato a percorrere la strada da Corleone a Girgenti, per poi spostarsi a Catania. Ben presto, tuttavia, il piano di insurrezione naufragò: tra il 15 e il 20 agosto il Mezzogiorno fu posto in stato d’assedio, nove giorni più tardi le truppe garibaldine furono fermate sull’Aspromonte, in Calabria, dove il generale fu ferito e subito dopo tratto in arresto. La notizia del fallimento della spedizione colse di sorpresa la colonna di Trasselli, che si era attardata in provincia di Messina: egli decise di ripiegare in direzione di Novara di Sicilia, per consegnare spontaneamente le armi alle autorità comunali, evitando l’onta di una capitolazione dinanzi alle truppe regolari. Nella notte fra il 2 e il 3 settembre il battaglione si mosse così verso la cittadina, ma a causa della stanchezza dei suoi uomini il comandante decise di imporre una sosta a Tripi, a pochi chilometri dalla meta, scegliendo di mandare avanti solo una pattuglia d’avanscoperta, incaricata di accertare la consistenza dei regi e di acquistare vivande per il resto dei commilitoni. Giunti nei pressi di Fantina, i militari furono però raggiunti dal XLVII battaglione di fanteria, guidato da Giuseppe di Villata, che percorreva la Sicilia orientale in cerca di membri della tentata sollevazione: alla vista della colonna di volontari, i soldati corsero verso di loro, li circondarono e – dopo aver individuato alcuni disertori dell’esercito italiano – decisero di fucilarli sul posto. Trasselli, appresa la notizia, non perse la calma: l’indomani condusse il resto dei suoi uomini a Novara per la pacifica consegna delle armi; subito dopo si mosse verso Catania, e qui scrisse una lettera piena di sdegno nei confronti di Villata, raccontando l’accaduto e scatenando contro il militare l’indignata protesta dei principali leader della democrazia, fra i quali Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi e naturalmente lo stesso Garibaldi: «Se io non era italiano e non avessi avuto ad orrore lo spargere sangue italiano – scrisse Carlo – credetelo, signore, [...] voi non esistereste più insieme all’ultimo soldato che comandavate [...]. Voi abusaste contro gli inermi [...], con tutta la lealtà dell’animo mio io vi dichiaro vile e non italiano» (Ghirelli, 1986, pp. 70 s.).
Le vicissitudini di Trasselli non erano finite: la militanza garibaldina gli valse la perdita dell’incarico presso la Dogana e una costante sorveglianza da parte delle autorità unitarie, che lo dipinsero come un «repubblicano ardito», che «ha influenza nella Città e ne’ paesi vicini, e specialmente nelle masse» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Divisione I, Biografie dei sovversivi, b. 3, f. 514). All’inizio del 1863 Carlo fu addirittura accusato di essere un membro della setta dei pugnalatori, un’associazione clandestina composta da delinquenti comuni e da delusi del nuovo Stato (democratici e borbonici) che a ottobre dell’anno precedente aveva accoltellato a Palermo dodici persone, provocandone la morte. In realtà, dietro la sortita si celava probabilmente un’accorta ‘strategia della tensione’ ante litteram portata avanti dalle stesse autorità al fine di liquidare i leader delle opposizioni: nella retata del 12 marzo Trasselli venne arrestato insieme ad altri quarantatré ex garibaldini e seguaci di Francesco II, e fu rilasciato solo trenta giorni più tardi per insufficienza di prove. In seguito a questa esperienza decise comunque di abbandonare la cospirazione e le pratiche eversive, rafforzando ulteriormente la sua determinazione pochi mesi più tardi, all’indomani dell’uccisione di Corrao, freddato da due sicari il 3 agosto 1863.
In un primo momento, Carlo intraprese delle indagini personali sulla morte dell’amico, comunicandone i risultati alla magistratura: le sue indicazioni si basavano sulle dichiarazioni di una vicina di casa della vittima, che aveva notato due carabinieri aggirarsi spesso nel quartiere nei giorni precedenti all’omicidio, e li aveva visti poi lasciare furtivamente il luogo del delitto travestiti da cacciatori. Trasselli riuscì persino a far istruire un processo a carico dei due indiziati, ma appena prima dell’inizio delle udienze la testimone cambiò residenza e negò le sue stesse parole davanti al giudice. Convinto dalle autorità che Corrao fosse stato eliminato, in realtà, dagli ambienti criminali e legittimisti con cui era entrato in contatto, Trasselli a quel punto decise di sospendere le sue indagini e di staccarsi dall’ala più estrema della Sinistra: accettò anzi di essere nominato comandante della guardia nazionale con l’incarico di garantire l’ordine pubblico sull’isola. La sua decisione contribuì a sancire la definitiva scissione del partito d’azione siciliano, spaccato a quel punto in una fazione maggioritaria, guidata da lui e da Francesco Perroni Palladino, disposta a rientrare nell’alveo della legalità e a collaborare con le istituzioni; e in un gruppo più piccolo, sotto la guida di Giuseppe Badia, in combutta con i delusi dell’unità e disposto a interagire invece con i cospiratori borbonici e persino con alcuni esponenti del clero.
Addetto alla sorveglianza dei suoi stessi ex compagni, nel 1865 fu proprio Trasselli a prendere parte alla repressione dei moti antiunitari del 13 maggio e, il 21 luglio dello stesso anno, ad arrestare Badia. I contatti con il democratismo, tuttavia, non si interruppero del tutto, se nell’estate dell’anno successivo fu arruolato nel corpo di volontari della terza guerra d’indipendenza, al comando di Garibaldi, riportando gravi ferite nella battaglia di Monte Suello del 3 luglio 1866. Il suo rifiuto di collaborare con l’ala radicale era comunque sgradito agli ambienti cospirativi del democratismo, e fu questo a costargli la vita: già a settembre del 1865 Carlo era stato vittima di un tentato omicidio da parte del ‘picciotto’ Salvatore Anelli, che lo aveva mancato. Proprio in seguito a questo episodio si era trasferito a Genova, ma quattro anni più tardi – in occasione di un breve soggiorno a Palermo – fu raggiunto durante una passeggiata in carrozza da Vincenzo Grimaldi, uno dei leader della rivolta del Sette e mezzo, che lo afferrò per il bavero e lo sgozzò il 17 novembre 1869, nel giorno del suo compleanno.
Gli sopravvisse il fratello Carmelo, nato a Palermo l’8 novembre 1832, che successivamente si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza per poi intraprendere la carriera di magistrato. Anche lui fu protagonista dei moti siciliani del 1860: prese parte all’organizzazione della rivolta della Gancia, il 9 giugno fu nominato da Garibaldi membro della commissione giuridica speciale del Distretto di Palermo e subito dopo, il 31 ottobre, giudice del tribunale civile di Girgenti. Qui rimase fino al 1863, quando si spostò a Macerata e, tre anni più tardi, a Perugia. Il rapporto con la terra di origine rimase comunque molto forte: si sposò a Palermo nel 1871 con Rosa Paradisi, con la quale ebbe tre figli, Felicia (1872), Vito (1873) ed Elena (1874).
Proseguiva senza sosta, intanto, la sua carriera: nel 1877 venne designato presidente del tribunale civile e correzionale di Urbino, l’anno successivo si spostò a Campobasso e nel 1893 poté finalmente fare ritorno a Palermo, come consigliere di corte d’appello. Qui si ritrovò alle prese con le indagini sull’assassinio di Emanuele Notarbartolo, banchiere e politico freddato dalla mafia a febbraio di quello stesso anno, dopo aver sollevato un’inchiesta sulla gestione del Banco di Sicilia ed essere entrato in collisione con il parlamentare Raffaele Palizzolo, vicino alle cosche del Palermitano. Carmelo si adoperò da subito per fare chiarezza sul delitto: chiese al questore Eugenio Ballabio un rapporto dettagliato su Palizzolo, senza tuttavia ricevere risposta; interpellò allora due giornalisti, Girolamo Luca Aprile (ex direttore del Democratico e del Quotidiano) e Saverio Fazio (già redattore capo del Giornale dell’Isola), per sapere qualcosa di più sul deputato e sulle sue attività illecite. Nel frattempo, grazie all’aiuto dei suoi collaboratori, si attivò con l’ambasciata italiana a Tunisi per verificare l’alibi del probabile esecutore materiale dell’omicidio, Giuseppe Fontana, che aveva schivato l’arresto dichiarando di trovarsi nella città nordafricana proprio durante il periodo del delitto. Le indagini di Trasselli si interruppero tuttavia nel giugno del 1894, quando fu promosso presidente della corte d’appello e improvvisamente trasferito al tribunale dell’Aquila, probabilmente proprio a causa delle sue ‘scomode’ inchieste. Dopo un nuovo spostamento presso il tribunale di Macerata, fece ritorno a Palermo nel 1898, in qualità di consigliere della Corte di cassazione. Qui morì il 23 settembre 1907.
Fonti e Bibl.: Poche sono le fonti documentarie su Carlo Trasselli, se si eccettua il fascicolo personale custodito a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Divisione I, Archivio generale, Biografie dei sovversivi, b. 3, f. 514. Nello stesso Archivio si conservano notizie sul suo arresto del 1863 (Ministero di Grazia e Giustizia, Miscellanea Affari penali, b. 2) e sui piani per la sua uccisione nel 1865 (Ministero dell’Interno, Gabinetto, Atti diversi (1849-1895), b. 8). L’Archivio di Stato di Palermo conserva documentazione relativa alla sua partecipazione ai moti siciliani del 1860 e all’impresa garibaldina del 1862: Ministero per gli Affari di Sicilia, Polizia, b. 1238; Pubblica Sicurezza, filza I; Prefettura, Gabinetto, b. 4. Si segnalano infine due rapporti dei carabinieri di Misilmeri sui suoi presunti legami antiunitari, in Archivio storico dell’Arma dei Carabinieri di Roma, cart. 49 (gennaio-giugno 1863), e alcune lettere autografe custodite a Roma presso l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Fondo Bruzzesi, b. 96, Spedizione in Aspromonte (1862).
P. Alatri, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino 1954, ad ind.; L. Riall, La Sicilia e l’unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866), Torino 2004, ad ind. Sull’eccidio di Fantina: A. Maurici, Il regime dispotico del governo d’Italia dopo Aspromonte, Palermo 1915, ad ind.; Dopo il delitto di Aspromonte. Il rapporto del colonnello C. T. sui fatti avvenuti nel villaggio di Fantina il 2 settembre 1862, in Cimento, 30 giugno 1957; A. Ghirelli, L’eccidio di Fantina, Palermo 1986, ad ind.; F. Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878, Torino 2015, ad ind. Per una ricognizione del clima di scontro fra democratici e liberali dopo l’Unità si vedano anche A. Carrà, La Sicilia orientale dall’Unità all’impresa libica, Catania 1968, ad ind.; L. Sciascia, I pugnalatori, Torino 1976, passim; A. Recupero, La Sicilia all’opposizione (1848-1874), in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, V, La Sicilia, a cura di M. Aymard - G. Giarrizzo, Torino 1987, pp. 40-88; P. Pezzino, La congiura dei pugnalatori. Un caso politico-giudiziario alle origini della mafia, Venezia 1992, ad ind.; E. Cecchinato, Camicie rosse. I garibaldini dall’Unità alla Grande Guerra, Roma-Bari 2007, ad indicem. Su Carmelo Trasselli: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero di Grazia e Giustizia, Miscellanea Affari penali, ad nomen; Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Archivio Riboli, b. 495. Inoltre: E. Magrì, L’onorevole padrino. Il delitto Notarbartolo: politici e mafiosi di cent’anni fa, Milano 1992, ad indicem.