AZARIO, Carlo Secondo
Nacque a Vercelli il 3 febbr. 1803 da antica famiglia, originaria di Pettinengo nel Biellese. Suo padre Vincenzo, seguace entusiasta delle idee dei lumi, aveva partecipato durante la rivoluzione ai moti giacobini. Incarcerato, era stato liberato all'arrivo delle armate francesi; nel periodo napoleonico fu procuratore imperiale a Casale Monferrato e fu iscritto, come ogni alto funzionario, alla massoneria, come maestro nella loggia massonica "La Bienfaisance" di Alessandria. In questo ambiente illuministico e filofrancese ricevette la prima educazione l'A., che conobbe a Casale, dove frequentava il liceo imperiale, l'abate F. Bonardi, commissario imperiale nel Monferrato, vecchio giacobino, col quale rimase in stretti rapporti di amicizia e dal quale fu messo in contatto con gli ambienti rivoluzionari europei.
Caduto Napoleone, l'A. si iscrisse come molti giovani di sentimenti liberali ai Federati. Studente a Torino, partecipò ai moti del '21 e compromessosi nell'episodio di San Salvario, fu costretto ad esulare in Spagna, dove strinse amicizia con G. Girardenghi di Alessandria e con G. Allegra, che in seguito divisero con lui tormentose ore di carcere. Un'amnistia di Carlo Felice, nel 1826, gli permise il ritorno a Torino, dove poté riprendere gli studi e laurearsi in legge. Presto divenne, in concorrenza con A. Brofferio, uno dei penalisti più noti del Piemonte.
A Torino ricominciò a congiurare: nei suoi frequenti viaggi in Svizzera e a Parigi, l'A. (amico anche del conte Bianco di Saint Jorioz, il fedele collaboratore di F. Buonarroti) entrò in rapporto con il mondo della rivoluzione europea, in particolare con i gruppi buonarrotiani. Così egli divenne in Torino, verso il 1830, il maggiore esponente della setta, a ispirazione massonica e carbonara, che il Buonarroti proprio in quegli anni aveva fondato a Bruxelles, e che aveva chiamato "Mondo" per il suo ideale di insurrezione supernazionale a sfondo sociale.
La fiducia che Buonarroti, Bianco di Saint Jorioz e i capi delle sette insurrezionali europee avevano nelle sue capacità e nella purezza dei suoi ideali, mise presto l'A. a capo degli elementi direttivi delle sette buonarrotiane in Italia settentrionale, ed egli da parte sua collaborò efficacemente alla diffusione delle nuove idee in Piemonte e mantenne rapporti con i rivoluzionari delle altre regioni italiane.
Attraverso Iacopo Ruffini, che si era a lui rivolto per avere aiuto, l'A. entrò in contatto con la Giovine Italia, e lavorò attivamente per la diffusione di questa nuova società.
La sua opera nella Giovine Italia però presupponeva un accordo fra tutte le società segrete, atto a creare in Italia ed all'estero una solida unione liberale. A questo proposito cercò, secondo le direttive del Buonarroti stesso, di trovare un accordo ed una linea di azione comune. Ma in un convegno a Locarno del settembre 1832, il tentativo di accordo fra i buonarrotiani e i mazziniani fallì per i dissensi ideologici e personali fra i membri delle due associazioni.
L'A., deluso per il fallimento di questa intesa, si ritirò dalla lotta attiva, e nonostante le insistenze del Mazzini non volle più partecipare ad alcun tentativo di rivoluzione. In realtà l'A. era legato al mondo buonarrotiano, credeva in una rivoluzione europea a base egualitaria, che avrebbe creato una nuova Italia democratica e repubblicana, ed aveva poca fiducia nelle utopie mazziniane.
Mazzini, d'altra parte, non lo conosceva personalmente, e lo giudicava "uomo avventato, democratico ultra"; gli era però necessario l'appoggio dell'avvocato piemontese, che raccoglieva intorno a sé i consensi e la stima di molti liberali, perciò lo sollecitò per mezzo di Bianco di Saint Jorioz, affinché riprendesse la lotta. Ma l'A. non si lasciò persuadere, anche perché dopo il convegno di Locarno, il Buonarroti gli aveva consigliato di evitare di partecipare ad attentati o a moti che avrebbero finito per compromettere la causa della libertà. Quando l'A. si ritirò, il tentativo di operare un accordo fra la setta dei "Veri Italiani", fondata da Bianco di Saint Jorioz, e la Giovine Italia fu fatto ancora da un vecchio compagno di esilio dell'A. in Spagna, l'avvocato G. Allegra, ma senza successo.
Nonostante avesse abbandonato, fin dall'autunno del 1832, la lotta attiva, l'A. era controllato dalla polizia europea e attentamente sorvegliato da quella piemontese quando si cominciarono a scoprire, nell'aprile del 1833, le trame dell'insurrezione mazziniana. Il 3 maggio 1833 l'A. veniva arrestato: subito dopo il cardinal Bernetti da Roma scriveva a Carlo Alberto, senza indicarne il nome, che nelle carceri piemontesi era stato rinchiuso il capo delle sette rivoluzionarie, e Carlo Alberto era persuaso che questo capo fosse l'Azario. Nella perquisizione fra le carte dell'A. fu rinvenuto e sequestrato un fascicolo in cui erano contenute tutte le regole della nuova setta buonarrotiana, il "Mondo". Questo fascicolo, di particolare importanza storica perché permette di esaminare uno dei più originali documenti degli organismi rivoluzionari europei, dimostra come l'A. abbia aderito fino all'ultimo agli ideali della rivoluzione europea, anche se si era ritirato ormai da tempo dalla Giovine Italia.
Tradotto alla fortezza di Alessandria per le delazioni di P. Pianavia Vivaldi e del vecchio amico G. Girardenghi, corse il rischio di essere incriminato e condannato, tanto più che le sue relazioni col Ruffini, col Vochieri e con gli altri cospiratori lo avevano messo in una posizione molto pericolosa.
Contro di lui si sfogò la reazione del giudice Galateri, che, pur non riuscendo a incriminarlo, lo trattenne per tre anni nel carcere di Alessandria, da cui poté uscire solo nel 1836 per grazia sovrana, che gli permetteva l'esilio in Francia in cambio della promessa di non occuparsi più di cose politiche.
I tormenti fisici e morali sofferti nella fortezza di Alessandria avevano rovinato la sua salute: uscì di carcere precocemente invecchiato, minato dalla tubercolosi e con la mente sconvolta per le sofferenze subite. Si recò prima in Francia, e successivamente a Londra, dove visse facendo il giornalista.
A Parigi collaborò alla Biographie universelle del Michaud ed ai giornali L'Europe e il Constitutionnel.
Nel 1841 Carlo Alberto gli permise di ritornare in Piemonte, dove uno zio gli aveva lasciato la cospicua rendita di L. 20.000 annue. La grazia sovrana gli consentiva però di soggiornare solo a Biella e, nella sua professione, gli era proibito il patrocinio, mentre gli era permessa la consulenza.
Nel 1842 il sovrano gli concesse di ritornare a Torino e di esercitare la libera professione. Ma i dolori del carcere, le pene dell'esilio, i tormenti di lunghi anni infelici avevano distrutto la forte fibra dell'A., che spirò in una casa di salute il 25 aprile 1845.
Fonti e Bibl.: A. Segre, L'episodio di S. Salvario, in La Rivoluz. piemontese del 1821, in Biblioteca di storia italiana recente, vol. X, Torino 1923, p. 257; Torino, Archivio di Stato, Processi Politici,1833, voll. VII, VIII, IX; Atti riservati del Ministero degli Esteri, 1833, inserto 108 (lettera del Cimella al La Tour del 28 maggio 1833); Gabinetto di Polizia, 1831 (cartelle 11, 12, 13), 1838 e 1842; A. Brofferio, Storia del Piemonte dal 1214 ai giorni nostri, I,Torino 1849, p. 53; G. L. Colli, L'avvocato Giovanni Allegra di Costigliole-Saluzzo, Torino 1886, p. 130 e passim; G. Faldella, I fratelli Ruffini, Storia della Giovane Italia, Torino 1900, p. 196 e passim; Ediz. naz. degli scritti... di G. Mazzini, Epistolario, I, p. 340 e passim; X ,p. 232 e passim; C. Rinaudo, Il Risorgimento italiano, Conferenze del prof. C. R. con appendice bibl, Torino 1910, p. 259 e passim; A. Colombo, I processi del '33 nel Diario di G. B. De Gubernatis, Segretario particolare di Carlo Alberto, in Il Risorgimento Italiano, n. s., XVII, 3 (1924), pp. 373-398; E. Passamonti, Nuova luce sui processi del 1833 in Piemonte,Firenze 1930, p. 69 e passim; A. Bersano, L'Abate Francesco Bonardi e i suoi tempi. Contributo alla storia delle società segrete, Torino 1957, p. 187 e passim; Il Biellese nell'epopea del Risorgimento, Biella 1960, p. 33; Diz. del Risorgimento naz., II, p. 135.