SBISA, Carlo
SBISÀ, Carlo. – Nacque a Trieste il 25 maggio 1899 da Annalia Pillon, operaia nello stabilimento chimico-industriale Francesco Mell, e da Carlo, macchinista navale impegnato sulle rotte transoceaniche. La predisposizione al disegno convinse i genitori a iscrivere il figlio nella sezione artistica della Civica scuola reale superiore di Trieste, presso la quale si diplomò nel 1916. Nel corso degli anni di studio, Sbisà lavorò saltuariamente come cesellatore nel laboratorio dell’orefice Giuseppe Janesich, padre del suo compagno di classe e amico Pietro.
Dopo il diploma trovò impiego come disegnatore tecnico nei cantieri navali triestini di Monfalcone. Nel 1917, in seguito allo spostamento temporaneo della direzione dei cantieri, fu trasferito a Budapest, al riparo dai complicati sviluppi della prima guerra mondiale. Durante la lunga permanenza nella capitale ungherese, ebbe modo di conoscere la città, di visitarne i musei, e di recarsi qualche volta a Vienna, dove fu attratto soprattutto dalla grafica espressionista di Egon Schiele e di Gustav Klimt (Rumiz, 1996, p. 197).
Rientrò a Trieste nel 1918, senza rimanervi a lungo. Dopo essersi ripreso dalla malaria, che lo costrinse a letto anche nei giorni in cui finiva la guerra, si trasferì a Firenze nel gennaio del 1919, deciso a proseguire e portare a termine gli studi artistici. Sebbene la conclusione favorevole del conflitto avesse affievolito le tensioni 'irredentiste', il capoluogo toscano continuava a essere percepito da molti intellettuali triestini come il simbolo politico e culturale della nazione italiana, a cui sentivano di appartenere. Sbisà entrò subito in contatto con il conterraneo Giannino Marchig, pittore giunto a Firenze nel 1915 subito dopo l’inizio delle ostilità italo-asburgiche, che ebbe un ruolo decisivo nel suo inserimento nel nuovo contesto. Infatti, Marchig lo presentò all’accademico Arturo Calosci e lo convinse a provare l’esame d’ammissione all’Accademia di belle arti. Sbisà superò brillantemente la prova e ottenne la possibilità di frequentare il primo anno del corso speciale di figura tenuto dallo stesso Calosci, pur con l’obbligo di sostenere gli esami finali del triennio comune nel giugno del 1919. Dopo tali esami interruppe gli studi per imbarcarsi, come lubrificatore di macchine, sul piroscafo Absirtea, guidato dal padre, che lo condusse a New York. Rientrato in Italia verso la fine dell’anno, anche a causa di una frattura al braccio destro che lo costrinse a un ricovero nell’University Hospital di Baltimora, riprese a frequentare i corsi accademici e anche la Scuola dell’incisione all’acquaforte, presso la quale insegnava Celestino Celestini. Nonostante le difficoltà economiche, superate grazie a un esiguo sussidio ministeriale e a saltuari lavori in botteghe orafe fiorentine o presso la fabbrica di ceramiche Cantagalli, riuscì a diplomarsi nel luglio del 1920.
L’amicizia e la collaborazione con Marchig si rafforzarono negli anni successivi: i due artisti condivisero la stessa residenza nel biennio 1920-21, in via Toselli, presso la casa di Augusto Vermehren, restauratore di origine olandese attivo anche agli Uffizi; alla fine del 1922 parteciparono al concorso Stibbert e cercarono di entrare in contatto con la colonia anglofona fiorentina; inoltre, assieme al giovane trentino Carlo Cainelli, trovarono ispirazione per le loro opere negli stessi luoghi (piazza S. Gallo, Porta Romana e i caffè cittadini) almeno fino al 1923, privilegiando l’incisione alla pittura.
L’esordio pubblico di Sbisà avvenne alla Biennale di Venezia del 1922, dove espose un ritratto a puntasecca nella sala internazionale del bianco e nero, accanto ai lavori dell’affermato incisore fiorentino Emilio Mazzoni-Zarini, che aveva conosciuto sempre grazie a Marchig.
Nel corso degli anni fiorentini, Sbisà frequentò gli amici di Trieste, tra cui i fratelli Silvio e Paolo Mix (fondatori della Rivista di Firenze nel 1924), e conobbe Bruno Bramanti, Giovanni Colacicchi, Franco Dani, Ennio Pozzi, Silvio Pucci, tutti legati alla rivista Solaria e poi membri del gruppo di Novecento toscano; ma soprattutto fu in confidenza con il torinese Felice Carena, che, giunto a Firenze alla fine del 1924 per assumere la titolarità del corso di pittura all’Accademia, ebbe un duraturo impatto sulla sua pittura.
Nel 1925 realizzò una pala d’altare per la chiesa di S. Maria Assunta di Adria (Rovigo) e partecipò al concorso per il VII centenario della morte di S. Francesco con Cena mistica di s. Francesco e s. Chiara e Morte di s. Francesco, di neoquattrocentesca nitidezza. I due dipinti sono ambientati negli spazi spogli del Conventino, edificio dedicato a s. Teresa in via Giano della Bella, presso il quale Sbisà tenne una stanza in affitto dal 1923. Tali spazi si riconoscono anche in Elisabetta e Maria (Gorizia, Musei provinciali) e Ritratto femminile (collezione privata), le due prime tele presentate alla Biennale di Venezia, nel 1926, esposizione nella quale fu costantemente presente come pittore fino al 1936.
Il 1927, caratterizzato dalla partecipazione a diverse mostre collettive, si concluse con il rientro a Trieste, che fu celebrato, all’inizio del nuovo anno, dalla prima personale presso la galleria Michelazzi, presentata da Italo Svevo. A Trieste Sbisà condivise uno studio in via S. Michele, nell’edificio noto come Rotonda Pancera, con Leonor Fini e Arturo Nathan, che aveva conosciuto grazie all’amica Franca Jäger Isotti, modella in molti suoi quadri. Con i due nuovi compagni espose a Milano all’inizio del 1929 presso la galleria Milano di Vittorio Emanuele Barbaroux, che, alla fine degli anni Venti, sosteneva gli artisti del movimento Novecento. L’accostamento del classicismo di Sbisà all’ormai eterogenea compagine promossa da Margherita Sarfatti fu confermato dalla partecipazione, con Due voci – La signora Franca Isotti (1928), alla Seconda mostra del Novecento italiano che si svolse sempre a Milano tra marzo e aprile dello stesso anno.
La riuscita di queste iniziative convinse Sbisà a restare a Milano, potendo contare anche sul sostegno del cugino Marcello Comel, noto dermatologo, che lo ospitò, gli acquistò alcuni lavori e lo introdusse tra le sue conoscenze. I lunghi soggiorni milanesi gli permisero di frequentare Giuseppe Lanza, Giovanni Scheiwiller e Sergio Solmi, ma le sue aspettative artistiche furono deluse. Solo nel novembre del 1931 riuscì ad allestire una mostra personale, presso la galleria del Milione, in una congiuntura ormai sfavorevole al classicismo novecentesco, che non diede gli esiti di vendita sperati. Alla fine del 1932 lasciò definitivamente Milano e proseguì la sua attività a Trieste, dove aveva continuato a presentare i suoi quadri in tutte le mostre collettive sindacali e in una personale, con Edgardo Sambo, nel 1930.
Accanto all’attività espositiva, gli anni Trenta furono caratterizzati dalle prime acquisizioni museali (la più significativa delle quali fu La donna del mare per il Museo di stato per la nuova arte occidentale di Mosca nel 1933; oggi l’opera si trova al Museo nazionale georgiano di Tbilisi) e dai numerosi incarichi di pittura murale in edifici pubblici e privati triestini. Dopo il restauro e il parziale rifacimento degli affreschi di Eugenio Scomparini sulla facciata della chiesa dell’Ospedale psichiatrico (1932), la prima importante prova pubblica furono gli affreschi per il salone d’onore della Casa del combattente (1934-35) ideata dall’architetto Umberto Nordio, al quale Sbisà era legato da una sincera amicizia testimoniata anche da due ritratti (L’architetto, 1930; Il palombaro, 1931). Seguirono varie commissioni dello stesso Nordio e del collega Vittorio Frandoli per condomini privati e, soprattutto, i due interventi per il nuovo palazzo delle Assicurazione Generali, progettato da Marcello Piacentini: nel 1937 Sbisà realizzò due affreschi di soggetti cari al regime fascista (Il lavoro costruttivo e Dopolavoro e ricreazione) e le allegorie del Risparmio e dell’Assicurazione; nel 1939 dipinse due vaste allegorie caratterizzate da dettagliate vedute ottocentesche di Trieste (La legge e l’industria e La navigazione e il commercio). L’ultima opera monumentale di Sbisà fu il perduto D’Annunzio detta la carta del Quarnaro per il grattacielo Albori di Fiume (Rjieka), completato nel 1942.
Negli anni della guerra, durante la quale riprese a dipingere maggiormente su tela, ci furono alcune novità nella vita privata dell’artista. Il 10 giugno 1942 sposò Mirella Schott, figlia del commerciante Edoardo Schott Desico e della pittrice Marina Gratzer, che dal 1939 aveva cominciato a studiare con lui disegno e figura. Dopo il matrimonio, celebrato solo in chiesa con un permesso speciale, a causa delle leggi razziali che avevano colpito la famiglia della sposa, la coppia abitò in una casa di proprietà Schott, in via Manna, che diventò anche il loro laboratorio quando lo studio in via Picciola fu bombardato. La morte del fraterno amico Arturo Nathan, avvenuta il 25 novembre 1944 nel campo di concentramento di Biberach, segnò profondamente la vita di Sbisà e accelerò una crisi creativa che, manifestatasi dopo la mostra personale presso la milanese galleria d’Arte italiana del dicembre 1945, lo condusse ad abbandonare definitivamente la pittura all’inizio degli anni Cinquanta (Comar, 2008-09, p. 18).
Nell’immediato dopoguerra Sbisà fu nominato nella Commissione di epurazione delle libere professioni di Trieste, mentre nel 1947 entrò a far parte del curatorio del Civico Museo Revoltella e del consiglio direttivo dell’Associazione belle arti. Nello stesso anno espose in diverse occasioni (Roma, Trieste, New York) le prime ceramiche, alle quali aveva cominciato a dedicarsi dall’estate del 1946. Dal 1951 i lavori in ceramica li firmò anche la moglie, che si occupava della smaltatura e della decorazione pittorica, mentre Sbisà limitava il suo intervento alla formatura e al modellato.
Nel 1948 presentò la prima scultura alla Biennale di Venezia (Modella in riposo), ottenne la prima commissione per un lavoro in ceramica (il rivestimento della veranda della nave Conte Biancamano) e realizzò la scenografia per l’opera lirica Trittico, scritta in triestino da Morello Torrespini (Mario Todeschini) nel 1930 e musicata da Antonio Illersberg. Sempre nel 1948 nacque la prima figlia Marina, mentre nel 1952 arrivò la secondogenita Paola.
Gli anni Cinquanta e Sessanta furono caratterizzati da numerose commissioni sacre: Sbisà vinse il concorso per la decorazione della nuova campana della cattedrale di S. Giusto (1953), realizzò sei serie della Via Crucis soprattutto per chiese del comprensorio triestino (1954-62), un mosaico per l’abside della parrocchiale del borgo triestino di Grignano (1963) e l’arredo sacro per la cappella della turbonave Raffaello (1963-64). Nel 1959 promosse l’istituzione della Scuola libera di acquaforte, sostenuta dall’Università popolare di Trieste, che diresse fino alla morte.
Si spense a Trieste l’11 dicembre 1964.
Fonti e Bibl.: Trieste, Biblioteca civica Attililio Hortis, Fondo Carlo Sbisà e Mirella Schott; S. Benco, C. S., Rovereto 1944; L. Budigna, C. S., Milano 1965; Mostra di C. S. (catal.), Trieste 1965; C. Milic, Gli affreschi di C. S., in Gli affreschi di C. S. (catal.), Trieste 1980, p. 13-48; G. Rumiz, C. S.: nota biografica, in C. S. (catal. Trieste), a cura di R. Barilli - M. Masau Dan, Milano 1996, pp. 196-201; M. Schott Sbisà, Il racconto di una vita, in C. S.: ceramiche e sculture 1946-1964, a cura di N. Stringa, catalogazione delle opere di V. Micelli, Venezia 2006; N. Comar, Gli affreschi di C. S.: gli esordi e le fonti, in Arte in Friuli. Arte a Trieste, 2007, n. 26, pp. 177-192; Ead., C. S. Catalogo generale dell’opera pittorica, tesi di dottorato di ricerca, Università degli studi di Trieste, a.a. 2008-09; M. De Grassi, C. S. e la grande decorazione nella Venezia Giulia, in Afro Basaldella e C. S.: elegia del quotidiano. La decorazione murale negli anni ‘30 (catal.), a cura di M. De Grassi - V. Gransinigh, Udine 2013, pp. 33-53, 97-154; V. Gransinigh, C. S., Trieste 2014; C. S.: “ai quadri miei non dan libero passo”, Convegno di studi, a cura di L. Caburlotto - M. De Grassi, Trieste 2014.