SARACENI, Carlo
– Nacque tra il 1578 e il 1583 a Venezia da una famiglia di mercanti bolognesi, come attestava la lapide (perduta) della chiesa veneziana dei Crociferi, dove Saraceni volle essere sepolto.
L’anno di nascita correntemente indicato è il 1579 (Carlo Saraceni 1579-1620, 2013). Si basa sul documento reperito a Roma da Valentino Martinelli (1959, p. 684), in cui si precisa che nell’anno 1616 Carlo Saraceni veneziano risulta «avere 37 anni» (Parrocchia di S. Maria del Popolo, Status Animarum, 64, anno 1616, c. 13r). In realtà le ricerche di Olivier Michel, condotte negli Stati d’Anime dell’Archivio del Vicariato di Roma (cfr. Ottani Cavina, 1992), provano quanto approssimative siano le dichiarazioni raccolte nel censimento annuale dei registri parrocchiali. Saraceni, domiciliato in via di Ripetta, dichiarava nel 1610 di «avere 27 anni» (Parrocchia di S. Maria del Popolo, Status Animarum, 1610, c. 5v); nel 1612 di averne 30 (c. 60v); nel 1613 di averne 35 (c. 44v); nel 1614 di averne 35 (c. 6v). Si deve quindi ipotizzare un anno di nascita fra il 1578 e il 1583.
Carlo Saraceni, detto Carlo Veneziano dal luogo di origine, si stabilì precocemente a Roma (1598 circa), sotto la guida – scrive Giovanni Baglione (1642, p. 138) – di Camillo Mariani (1565-1611), scultore e pittore vicentino, giunto a Roma nel 1597.
Saltando le tappe iniziali, la biografia di Giulio Mancini aveva invece dato risalto all’adesione caravaggesca, se pure vissuta con qualche riserva: «Carlo Veneziano [...] ha studiato per queste accademie dal vivo seguitando in parte la maniera di Caravaggio» (Mancini, 1620 circa, I, 1956, p. 254).
In realtà, il primo tempo di Saraceni (accolto nel 1607 all’Accademia di S. Luca; Henrich, 1935, p. 459) prova che, educatosi alla cultura cinquecentesca di Jacopo Bassano, Palma il Giovane, Romanino, Savoldo, il Cavalier d’Arpino (la cui influenza è evidente nell’Andromeda del Musée des beaux-arts di Digione, restituita a Saraceni da Longhi, 1943, p. 47), seppe orientarsi a Roma verso esperienze significative e moderne: da un lato il classicismo nascente dei bolognesi nelle esemplificazioni di Annibale Carracci e Domenichino (Cristo fra i dottori, Firenze, coll. privata; Predica di s. Giovanni Battista, coll. privata; Il bagno di Venere e Marte ripreso da una composizione di Giulio Romano, già Minneapolis, collezione A.M. Clark; Ottani Cavina, 1976, I), dall’altro la sperimentazione sul dato naturale promossa da Caravaggio e, per il paesaggio, dal pittore tedesco Adam Elsheimer.
La conoscenza di questo primo tempo dell’attività del pittore (che «voleva andar sempre vestito alla francese, benché egli non fusse mai stato in Francia, né sapesse dire una parola di quel linguaggio»: Baglione, 1642, p. 138) è acquisizione scaturita dalle indicazioni fondamentali di Roberto Longhi (1913, 1943). È poi cresciuta sulle ricerche di alcuni studiosi: la tesi di dottorato di Eve Borsook (1953), mai pubblicata ma consultabile al Kunsthistorisches Institut di Firenze, e, dopo un primo contributo del 1967, la monografia di Anna Ottani Cavina (1968) con il catalogo ragionato delle opere, per lungo tempo la sola monografia edita in ambito caravaggesco, in aggiunta al Giovanni Serodine di Roberto Longhi (1950).
In stretta sequenza, altri studi sul primo Seicento romano hanno dato risalto al ruolo giocato da Saraceni nei confronti dei paesaggisti nordici che operavano a Roma fra il primo e il secondo decennio del secolo (Nicolson, 1970; Waddingham, 1972; Ottani Cavina, 1976, I-II; Cuzin - Rosenberg, 1978; Kultzen, 1978). Perché è nel primo decennio che Saraceni visse la sua stagione cruciale, e innovativa, in tema di paesaggio (si veda la serie di sei paesaggi su rame della Galleria di Capodimonte a Napoli, ispirati alle Metamorfosi di Ovidio, citati in un inventario Farnese del 1680 e restituiti a Saraceni da Longhi nel 1913).
In parallelo a Elsheimer – pittore di Francoforte approdato a Venezia nel 1598 e poi giunto a Roma nel 1600 all’età di ventidue anni – Saraceni predilesse dipinti in formato ridotto, raccontando i temi della Bibbia e del mito sullo sfondo di paesi spazialmente dominanti e connotati in senso fortemente naturalista.
Sono dipinti luminosi, spesso eseguiti su lastre lucenti di rame. La tavolozza, colorata e brillante, denuncia l’origine veneziana del pittore (Mosè difende le figlie di Jetro, Londra, National Gallery; Il buon samaritano, Boughton House, Kettering (Northampton), collezione Duca di Buccleuch; Il buon samaritano, Lipsia, Museum der bildenden Künste; Un angelo appare alla moglie di Manue, Basilea, Kunstmuseum) e la sua inclinazione elegiaca nella dolce scansione delle dune alberate. Diversa dal timbro misterioso di Elsheimer, l’immagine di Saraceni apre verso la poesia virgiliana di Claude Lorrain.
Arianna abbandonata sul lido, mentre la nave di Teseo prende il largo sulle acque increspate del golfo (Napoli, Capodimonte), è infatti invenzione di grande ‘patetico’. L’elegia dell’abbandono prevale sulla passionalità lacerante del tradimento e, sublimata nell’immagine di una natura ordinata e amica, Arianna si erge a paradigma della sentimentalità saraceniana, permeata di un tale lirismo da evocare, sul versante letterario, più che il laconico passo delle Metamorfosi di Ovidio, il lamento-fiume di Catullo nel suo carme 64.
Proprio in virtù dei risultati autonomi di questa fase di petit maître estranea alla tradizione italiana, Saraceni divenne uno dei tramiti più significativi nella circolazione dei motivi fra l’Italia e il Nord (dalla Germania alle Fiandre), punto di riferimento obbligato per la cerchia dei pittori che gravitavano intorno a Elsheimer: Pieter Lastman, Jan e Jacob Pynas, Johann König (per quest’ultimo si veda il piccolo rame firmato con S. Giovanni Battista in un paesaggio fluviale apparso da Sotheby’s a Londra, 8 luglio 1981), nella sfera d’influenza dell’empirismo galileiano (Ottani Cavina, 1976, II).
È proprio la vicenda di Jacob Pynas a confermare, alla luce delle acquisizioni cronologiche (Schatborn, 1996, 1997), la persistenza del modello saraceniano, nell’ambito della pittura di paesaggio, ancora nel terzo decennio del Seicento. Da Saraceni, infatti, Pynas assimilò il repertorio vegetale e geologico, utilizzando ad esempio il pioppo italiano, dalla chioma compatta e picchiettata di luce, quale leitmotiv di molti paesaggi eseguiti in Olanda.
Le ultime ricerche su Pynas, posticipando la sua data di nascita dal 1575 al 1593, rendono di fatto improbabile un suo viaggio italiano nel primo decennio del Seicento. E ritardano di conseguenza la datazione delle sue opere, annullando l’ipotesi di George S. Keyes (1974-1980) e Keith Andrews (1977) che l’intero catalogo di Saraceni paesaggista, a cominciare dalle scene mitologiche di Capodimonte, possa essere riversato su Pynas.
A riaffermare il ruolo di apripista giocato in questo ambito da Saraceni sta anche l’indagine sugli inventari (Aldobrandini, Spinelli, Barberini, Farnese, Cassiano dal Pozzo) e sulle fonti secentesche, che ripetutamente segnalano in Roma «paesi di Carlo Veneziano» (De Vito, 1993).
Il tema nodale resta comunque la contiguità di alcuni pittori (Caravaggio, Elsheimer) con il mondo della nuova scienza galileiana e la precoce adesione di Saraceni a questi orientamenti che, nell’ambito del paesaggio, ebbero in Elsheimer il vero protagonista. Questo snodo cruciale del rapporto fra Elsheimer e Galileo Galilei – proposto da Ottani Cavina sul Burlington Magazine (1976, II, trad. it. 2015) in dialogo con Benedict Nicolson, Ernst Gombrich e Andrews – è ormai un dato acquisito, avendo trovato conferma anche nelle simulazioni astronomiche che hanno accompagnato la mostra di Elsheimer a Monaco (Von neuen Sternen. Adam Elsheimer’s “Flucht nach Ägypten”, 2005).
Quanto al rapporto con Caravaggio, fin dal processo intentato nel 1606 da Giovanni Baglione contro Carlo, detto il Bodello (Spezzaferro, 1975), Saraceni venne pubblicamente indicato fra gli ‘aderenti’ di Caravaggio, come conferma più tardi la biografia, prevedibilmente denigratoria, del classicista Baglione: «Diedesi a voler imitare la maniera del Caravaggio [...]. E perché egli professava d’imitare Michelagnolo da Caravaggio, il quale menava sempre con sé un cane barbone negro, detto Cornacchia, che facea bellissimi giuochi, Carlo menava seco ancor esso un cane negro, e Cornacchia lo chiamava [...], cosa da ridere di questo humore, che nelle apparenze riponesse gli abiti della virtù» (1642, p. 139).
È importante cogliere il senso delle deposizioni processuali del 1606. Insieme al pittore Orazio Borgianni, Saraceni risulta precocemente indicato come guida del movimento caravaggesco, dopo che Caravaggio era precipitosamente fuggito da Roma. Coinvolto in una rissa durante una partita di pallacorda in Campo Marzio, Michelangelo Merisi aveva ucciso Ranuccio Tomassoni. L’omicidio era accaduto il 28 maggio 1606. Il 2 novembre 1606 Baglione accusò Saraceni e Borgianni «aderenti al Caravaggio» di averlo aggredito tramite un sicario. L’assalto sarebbe avvenuto «circa 20 giorni sono» per contrastare, da parte dei caravaggeschi già indicati come tali, l’elezione del nuovo principe dell’Accademia di S. Luca, pilotata da Baglione in qualità di principe uscente (Spezzaferro, 1975).
Questo episodio evidenzia, nella Roma del primo decennio, una sorta d’investitura di Saraceni quale paladino del lascito caravaggesco. Interpretazione confermata dal fatto che proprio a Saraceni venne poi chiesto di sostituire, con una prima versione (Transito della Vergine, 1609 circa, New York, collezione R. Feigen, in deposito al Metropolitan Museum of art) e poi con una seconda (Transito della Vergine, 1610 circa, Roma, S. Maria della Scala), la Morte della Vergine di Caravaggio nella cappella Cherubini di S. Maria della Scala, ‘levata’ dall’altare dai carmelitani scalzi nel 1606 (per l’intera vicenda si veda Nicolaci, in Carlo Saraceni 1579-1620..., 2013).
Nel secondo decennio del secolo, in coincidenza con la scomparsa di Elsheimer (1610), Saraceni raccolse apertamente l’eredità di Caravaggio, rinnovando su scala monumentale la tradizione del tema sacro, accanto all’amico Borgianni e a Tanzio da Varallo, Marcantonio Bassetti, Giovanni Serodine. Dalle pareti delle chiese di Roma, le grandi pale caravaggesche narravano al presente, in abiti contemporanei, anche i miracoli più stravaganti senza una sola forzatura retorica, come accade nel capolavoro di Saraceni del 1618 S. Benno ritrova le chiavi della città di Meissen nel ventre di un pesce (Roma, S. Maria dell’Anima).
Questo passaggio alle pale di grandi dimensioni è molto più chiaro da quando è stato individuato il saldo per il Riposo nella fuga in Egitto, conservato nell’eremo camaldolese di Frascati. La pala, commissionata da Olimpia Aldobrandini nipote di papa Clemente VIII, fu scoperta e attribuita a Saraceni da Longhi (1916, nota 18) e datata al 1606 sulla base di una scritta che i restauri recenti hanno rivelato apocrifa. Il pagamento del 5 maggio 1612, ritrovato da Laura Testa (1998, p. 132), permette di scartare quella datazione troppo precoce in favore di una collocazione della pala intorno al 1610-12, in linea con il nuovo corso del pittore veneziano, che tendeva ora a misurarsi sul grande formato nell’ambito del tema sacro. Il punto di svolta, come si è detto, era stato segnato dal Transito della Vergine, eseguito per la chiesa di S. Maria della Scala a Trastevere in sostituzione della pala di Caravaggio.
Si scalano in questo secondo decennio del Seicento quelle pale d’altare destinate alle chiese della provincia e della città di Roma. Nuove ricerche condotte negli archivi parrocchiali e sulla committenza romana e spagnola (Terzaghi, 2002; Gallo, 2002, 2007; Nicolai, 2008; Marias, in Carlo Saraceni 1579-1620..., 2013) permettono di datarle con una certa precisione: Martirio di s. Erasmo (1610-12, Gaeta, Museo diocesano); Martirio di s. Agapito (1612 circa, Palestrina, cattedrale); S. Carlo Borromeo comunica un appestato (Cesena, chiesa dei Servi). A queste si aggiungono tre tele nella cattedrale di Toledo (Martirio di s. Eugenio, Imposizione della casula a s. Ildefonso, S. Leocadia in carcere), riscoperte da Pérez Sánchez (1970), databili al 1614 e realizzate, a parere di chi scrive, con la partecipazione della bottega.
Per le chiese di Roma Saraceni dipinse la Madonna con il Bambino e s. Anna (già nella chiesa di S. Simeone Profeta, oggi sempre a Roma nella Galleria nazionale d’arte antica - palazzo Barberini); S. Carlo Borromeo e l’ostensione del sacro chiodo (1613, S. Lorenzo in Lucina); Predica di s. Raimondo (1614, già in S. Adriano in Campo Vaccino e ora nella casa generalizia dei padri mercedari); il ciclo a olio su muro con Storie della Vergine (ante 1617, S. Maria in Aquiro, cappella Ferrari); fino a quell’apice di adesione caravaggesca rappresentato dal Martirio di s. Lamberto e dal citato S. Benno, capolavori di stile e di religiosità eseguiti (1617-18) per la chiesa tedesca di S. Maria dell’Anima.
Agli anni 1616-17 risale anche la decorazione ad affresco della sala Regia nel palazzo del Quirinale a Roma, voluta da Paolo V Borghese su progetto di Agostino Tassi e Giovanni Lanfranco, citata dalle fonti (Mancini, 1620 circa, I, 1956; Baglione, 1642; Bellori, 1672). Gli studi di Longhi (1959, pp. 30-32) e poi di Giuliano Briganti (1962, pp. 34-40, 66 s.) hanno chiarito, su base stilistica e documentaria, l’impegno di Tassi e dei suoi aiuti sulla parete nord, quello di Lanfranco, Saraceni e collaboratori sulla parete sud e sui lati brevi della sala (l’intera questione è ripresa da Vodret, in Carlo Saraceni 1579-1620..., 2013). Nel luglio 1618 Saraceni s’impegnò a dipingere a olio su muro tre spicchi della volta nella cappella della Visitazione in S. Maria in Vallicella, oggi in cattivo stato di conservazione (Barbieri - Barchiesi, 1995, pp. 128 s.).
All’attività romana di questi anni appartengono alcuni dipinti sui quali la critica ha molto discusso: la bellissima S. Cecilia e l’angelo (Roma, Galleria nazionale d’arte antica - palazzo Barberini), attribuita a Saraceni da Longhi (1927) e a Guy François da Rosenberg (1971), nonostante la mancanza di opere documentate nel periodo romano (1608-13) del pittore francese e la discontinuità con la sua produzione successiva, decisamente modesta. Il ritrovamento, in collezione privata, di una tela con S. Carlo Borromeo a figura intera, molto simile nella composizione a quello raffigurato in S. Maria in Aquiro, conferma nei dettagli stilistici – il panneggio, le mani – l’attribuzione a Saraceni della S. Cecilia (Gregori, 2013).
La solitaria grandezza di Saraceni, che stempera la drammaticità di Caravaggio in una colorazione romantica e crepuscolare di origine veneziana, non impedisce di porre alcuni interrogativi non del tutto risolti. Riguardano il suo misterioso rapporto con il Maestro di Hartford (Ottani Cavina, 2009), la sua produzione grafica (Scholz, 1967; Ottani Cavina, 1995; Jacoby, in Carlo Saraceni 1579-1620..., 2013) e soprattutto il funzionamento della bottega, tenuto conto del gran numero di varianti e di repliche, su tela e su rame, derivate dai suoi prototipi (Ottani Cavina, 1992; Aurigemma, in Carlo Saraceni 1579-1620..., 2013). Per fare un esempio, sono decine quelle riconducibili a Giuditta con la testa di Oloferne, la cui versione più nobile si conserva al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il tema è dunque l’entourage di Saraceni. A lui fecero riferimento i francesi François e Philippe Quantin, e il misterioso anonimo Pensionante del Saraceni, mentre nella casa dell’artista veneziano – parrocchia di S. Maria del Popolo – già nel 1612 venne segnalata la presenza dei pittori Pietro Paolo Condivi e Giovan Battista Parentucci da Camerino, ai quali si aggiunsero nel 1617 il lorenese Jean Le Clerc e Antonio Giarola da Verona (Martinelli, 1959).
Altri documenti importanti scandiscono gli anni romani dell’artista. Nel 1612 depose al processo contro Tassi accusato di stupro ai danni di Artemisia Gentileschi (Bertolotti, 1877); fra il 1613 e il 1615 ebbe uno scambio epistolare con il duca Ferdinando Gonzaga per una serie di commissioni destinate alla corte di Mantova (Id., 1884, p. 58); il 26 febbraio 1618 sposò nella parrocchia di S. Maria del Popolo «Grazia di Luna siciliana» (Henrich, 1935, p. 459).
Nel 1620 (non nel 1619, come a lungo si è scritto; Breisig, 2008, pp. 36, 246 nota 27) il pittore fece ritorno a Venezia, avendo ottenuto la prestigiosa commessa per il grande telero della sala del Maggior Consiglio in palazzo ducale (Il doge Enrico Dandolo, nella basilica di S. Marco, incita a partire per la quarta crociata).
Colpito da tifo petecchiale, il 13 giugno 1620, «stando nel leto, in casa Contarini de contrà de San Trovaso», Saraceni dettò il proprio testamento, elesse il nobile Giorgio Contarini esecutore testamentario, chiese di destinare al convento del Redentore l’Estasi di s. Francesco (in loco) e di inviare in Baviera al conte palatino Sebastian Füll von Windach alcune opere terminate, tra cui una tela con vari santi (I S. Gerolamo, Maddalena, Antonio e Francesco, Schleissheim, Staatsgalerie); pregò di essere sepolto «vestito del’habito da capucino» nella chiesa veneziana dei Crociferi. Il 16 giugno 1620 morì nella casa dei suoi mecenati veneziani, lasciando a Le Clerc (collaboratore e amico, e canale di diffusione dei motivi saraceniani in area francese) il compito di condurre a termine la grande tela per palazzo ducale (firmata da Le Clerc, in gran parte da lui stesso eseguita), mentre l’Annunciazione di Santa Giustina, nei pressi di Feltre, firmata «Carlo Saraceni Veneciano», è da ritenersi autografa, se pure datata 1621.
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