DATI, Carlo Roberto
Di nobile e illustre famiglia fiorentina, nacque a Firenze il 12 ott. 1619, da Camillo e Fiammetta Arrighetti.
L'iniziazione culturale del giovane D. avvenne sotto la guida di R. Bertini, discreto cultore di poesia italiana e latina. Egli rivelò subito una particolare inclinazione per gli studi eruditi e le lingue classiche che apprese da P. Vettori il giovane e da G. B. Doni, profondo conoscitore di lingue orientali. Fu anche allievo dei Galilei e del Torricelli, ma il maggiore interesse per le letterature umanistiche impedì al D. di approfondire gli studi scientifici intrapresi con maestri tanto celebri.
Per volere del padre il D., pur avendo ricevuto un'educazione letteraria e scientifica, imparò l'arte del battiloro, secondo l'usanza generalmete diffusa che non pregiudicava per i giovani delle famiglie nobili l'esercizio di un'arte o mestiere. Lo scarso entusiasmo dimostrato per l'attività commerciale non traspare dalla erudita "Orazione del battiloro" che egli recitò nell'Accademia fiorentina nel 1638, presentando un primo saggio del suo stile elegante e forbito.
In quegli anni il granduca Ferdinando II insieme con il fratello, principe Leopoldo, davano impulso alla vita culturale fiorentina favorendo la nascita di nuove accademie, e incoraggiando l'attività di quelle già esistenti. Il D. fu accolto in varie accademie dove ricoprì cariche onorifiche sempre più importanti. Nel 1635 fu iscritto, con lo pseudonimo anagrammatico di Currado Bartoletti, all'Accademia non ancora chiamata degli Apatisti, fondata da A. Coltellini; divenuto segretario dell'Accademia nel 1640, fu eletto apatista reggente con lo pseudonimo di Ardaclito il 13 ott. 1649. All'adunanza che elesse, nel 1639. il D. socio dell'Accademia degli Svogliati, partecipò il Milton, allora residente a Firenze e amico fraterno del Dati. Si ignora la data di ammissione dei D. nell'Accademia fiorentina dove, nel 1649, fu nominato console e prese possesso del suo incarico con una orazione in lode degli accademici. Membro dell'Accademia Platonica, ripristinata dal principe Leopoldo nel 1638, figurò anche tra i componenti dell'Accadernia de' Percossi, sorta dal fervido incontro del versatile S. Rosa con i più illustri scienziati e letterati fiorentini.
Ma il contributo del D. fu particolarmente significativo nell'Accademia della Crusca che., dopo un periodo di stasi succeduto alla seconda edizione del Vocabolario, riprese le sue adunanze nel novembre 1640. Il D. fu ammesso il 29 nov. 1640, su proposta del fratello Lionardo, già accademico; il 31 dic. 1641 fu eletto castaldo; il 23 marzo 1647 fu elevato al grado di arciconsolo e designato ad esercitare anche la carica di segretario. Il Diario dell'Accademia attesta l'opera instancabile dello Smarrito (pseudonimo assunto dal D.), che non solo fu tra i più attivi collaboratori della terza edizione dei Vocabolario della Crusca. ma promosse, inoltre, la compilazione di un dizionario etimologico della lingua toscana, mai pubblicato per l'incuria dei colleghi.
Nel 1648 il D. subentrò a G. B. Doni nella cattedra di lingue classiche dello Studio fiorentino, e iniziò un corso di lezioni sulla Vita di Pomponio Attico composta da Cornelio Nepote. Alla fine del 1651 intraprese un viaggio a Roma e a Napoli per accompagnare il fratello Lionardo che era stato eletto vescovo di Montepulciano. L'anno seguente, per ordine dei principe Leopoldo, il D. attese ad una preziosa raccolta di poesie di autori toscani da destinare in omaggio alla regina Cristina di Svezia, la quale varie volte lo aveva invitato a soggiornare presso la sua corte. Il volume non fu mai edito e il D. oppose diverse tergiversazioni ai ripetuti inviti della sovrana, finché l'abdirazione di Cristina nel 1654, lo liberò da una penosa incertezza. Nel giugno del 1656 sposò Lisabetta di Agnolo Galli, dalla quale ebbe quattro figli: Fiammetta, Clarice, Camillo ed Agnolo.
L'interesse sempre vivo del D. per gli studi linguistici trovò una stimolante applicazione nel Discorso dell'obbligo di ben parlare la propria lingua (Firenze 1657). Nato come introduzione alle Osservazioni intorno al parlare e scrivere toscano di G. B. Strozzi e alla Declinazione de' versi di D. Buommattei, riunite in un unico volume, il Discorso sicolloca assai bene nell'ambiente polemico della questione della lingua verso la metà del '600.
Superate ormai le dispute sulla lingua dibattutesi tra gli studiosi nel '500, l'Accademia della Crusca si era inserita con il suo Vocabolario in quel processo di codificazione che da un cinquantennio aveva cominciato a regolare e disciplinare l'uso della lingua. Il Discorso dei D. rileva la frattura esistente tra la lingua letteraria, esemplata sul modello dei tre grandi trecentisti, e la lingua parlata, spesso in conflitto con le norme coercitive della grammatica, non meno che della sintassi e del lessico. Non occorre, quindi, riconoscere il primato già acquisito della lingua toscana quanto, piuttosto, difendere la lingua dalle proprie, interne forze disgregatrici attraverso l'adozione di regole precise, "parte fondate sulla ragione, parte sopra l'antichità, parte sopra l'autorità e parte sopra l'uso" (op. cit., in C. R. Dati, Prose, a cura di E. Allodoli, Firenze 1911 p. 117). L'attenzione rivolta al duplice influsso esercitato sulla lingua dalla tradizione letteraria e dall'uso quotidiano, conferisce alla fisionomia del D. teorico un'ampiezza di vedute ed un'apertura, mal conciliabili con la sua tradizionale immagine di rigido esponente della Crusca.
Il 18 luglio 1658 il D. lesse nell'Accademia della Crusca la "veglia" Dissertazione suffiutilità e diletto che reca la geometna (Firenze 1658).
Il D. chiamò "veglie" una serie di composizioni di vario genere ed argomento, che intendeva riunire sotto il titolo comprensivo di Veglie fiorentine, ispirandosi alla formula di Aulo Gellio e attribuendo loro il carattere di dotte conversazioni intrattenute., durante le veglie notturne, su questioni della lingua, avvenimenti e scrittori fiorentini.
La Dissertazione prende spunto da una conversazione di Galileo in Arcetri con un giovane nobile fiorentino a proposito dell'utilità di studiare la geometria. Alla vivace introduzione seguono fitte e lunghe pagine di dimostrazione ragionata, in cui gli aneddoti, le esemplificazioni e le note erudite sono sorrette sempre da uno stile di elevata fattura.
Fedele agli ideali della scuola galileiana, il D. partecipò alle ricerche ed "esperienze" condotte dall'Accadernia dei Cimento, la quale privilegiò - in linea con il più ortodosso spirito galileiano - il metodo sperimentale nell'indagine scientifica, e pose in atto il programma di un lavoro comune, non relegato nell'ambiente universitario. Pronunziò, quindi, nell'adunanza del 7 ag. 1660, il Discorso sopra Saturno (Firenze 1660) che difende le ipotesi sul sistema di Saturno enunciate da C. Huygens, contro le inverosimili critiche del p. Onorato Fabry di Roma.
Il D. si dedicò anche ad una poco rilevante attività poetica, componendo una "selva" epitalamica intitolata La Pace (Firenze 1660) in occasione delle nozze di Luigi XIV con Maria Teresa d'Austria. L'opera, dedicata al cardinale G. Mazarino, risulta lunga, pedante, e assolutamente priva di immagini fantasiose che riscattino il monotono andamento dei versi. La raccolta delle Prose fiorentine (Firenze 1661) segnò il ritomo del D. ai prediletti studi linguistici, e confermò alcuni punti fondamentali del precedente Discorso dell'obbligo di ben parlare la propria lingua, proponendo una scelta ragionata di quegli autori fiorentini dei secc. XVI e XVII la cui prosa poteva fornire un valido modello per la perfezione dello stile, sapientemente equilibrato tra chiarezza dell'espressione ed eleganza della scrittura. Il D. pubblicò solo il primo volume delle Prose, che furono continuate da altri accademici della Crusca in diciassette volumi fino al secolo successivo.
Nel 1661 il D. aveva corninciato a pubblicare la prima parte delle Osservazioni sulla lingua italiana del Cinonio (M. A. Mambelli), ma, accusato ingiustamente dal Bartoli di volersi appropriare dell'opera altrui, sospese il paziente lavoro di correzione e restituì il manoscritto al Mambelli. In realtà l'accusa era stata mossa dagli accademici di Forlì, i Filergiti, ai quali il Bartoli aveva spedito i fogli già stampati dal Dati. Nella Difesa di Dante contro mons. Della Casa (in F. Fontani, Elogiodi C. R. D., Firenze 1794, pp. 176-187) il D. mostrò una più moderna flessione del gusto, ammettendo l'uso di forme e stilemi discordanti dalla tradizione letteraria, ma liberamente espressi nel momento creativo dei poeta.
La vastità degli interessi del D. appare dai numerosi scritti scientifici. Con lo pseudonimo di Timauro Anziate pubblicò la lettera ai Filateti Della vera storia della Cicloide e della famosissima esperienza dell'argento vivo (Firenze 1663).
La tesi che il D. intendeva dimostrare con questo opuscolo era duplice: rivendicare al Torricelli l'esatta misurazione della linea cicloidale, e la priorità nell'esperienza del vuoto compiuta con l'argento vivo. Manifestò acume e perspicacia nel riunire e disporre le varie prove, documentando come gli scienziati italiani e gli scienziati francesi che reclamavano il primato nella misurazione della linea cicloidale, fossero pervenuti indipendentemente ai medesimi risultati. Sull'esperienza dell'argento vivo compiuta dal Torricelli, l'opuscolo del D. non aggiunse nulla di nuovo, ma fornì tuttavia utili informazioni intorno all'attività del Torricelli e alla sua grande invenzione. Il D. scrisse pure una Lettera al priore Rucellai sulla natura del freddo (in F. Fontani, p. 213), in cui affermò essere il freddo una sostanza reale e positiva, non semplice privazione del caldo come sosteneva il priore. Tra le opere scientifiche si ricordano, inoltre, le "veglie" L'invenzionedegli occhiali (in G. Targioni Tozzetti, Notizie degli aggradimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana nel corso di anni LX del sec. XVII, II,Firenze 1780, p. 49) e Ilcedrarancio (in E. Falqui, Antologia della prosa scientifica italiana, I,Firenze 1941, pp. 396-398).
A Firenze nel 1664 diede alle stampe con il titolo Delle lodi del comm. Cassiano dal Pozzo l'orazione funebre pronunciata nell'Accademia fiorentina, nel 1657, per commemorare l'amico scomparso. Nello stesso anno gli accademici della Crusca decisero di concretizzare il progetto, avanzato dal D., di pubblicare un dizionario delle origini del toscano. Ma l'esasperante lentezza con cui procedettero, invano stimolata dal D., impedì loro di precedere nella pubblicazione lo studioso francese G. Ménage, ugualmente intento alla redazione di un vocabolario etimologico della lingua italiana. Nel 1666 il progetto fu abbandontato, tuttavia i criteri seguiti dal D. nel compilare le schede etimologiche, denotano l'affermarsi di un concetto più scientifico di etimologia che supera i limiti angusti della ricerca empirica ed include il complesso iter storico delle trasformazioni e modifiche subite dai singoli termini.
Il 26 marzo 1666 il D. ottenne una pensione annua da Luigi XIV, il quale desiderava mostrare con segni tangibili della sua regale munificenza, la stimae l'ammirazione che provava per i più illustri letterati del tempo. Riconoscente, il D. dedicò al sovrano Le vite de' pittori antichi (Firenze 1667), estratte da una più ampia opera sulla pittura antica che non condusse a termine.
Il D. affrontò notevoli difficoltà d'ordine tecnico nel descrivere le vite dei quattro grandi: Zeusi, Parrasio, Apelle e Protogene. Infatti, a differenza del Vasari che possedeva una esperienza personale di pittore, egli era poco esperto di tecnica pittorica e costretto, inoltre, a ricostruire con la fantasia le opere dei suoi pittori sugli accenni, vaghi ed indeterminati, dei testi antichi, per lo più suscettibili di varia interpretazione. Rivelatrici di una restaurazione classicistica nella storiografia artistica, le Vite tentano di imporre anche alla pittura l'ideale dell'antichità, amorosamente coltivato dal D., attento filologo e studioso delle lingue classiche. Stilisticamente l'opera, pur indugiando al gusto per le immaginose allegorie ed alla ampollosa sonorità secentesca negli arditi epiteti rivolti ai pittori, annovera pagine di ampio respiro in cui un'intensa sensibilità ritrattistica raggiunge il vertice massimo nelle animate descrizioni di scene pittoriche.
L'accordo stipulato tra Francia e Spagna nel 1668 suggerì al D. la composizione della "selva" Dice ed Irene gemelle della dea Temide (Firenze 1668) dedicata al Colbert, che si era vivamente interessato per il conferimento della pensione da parte di Luigi XIV. Nel 1669 il D. ultimò il Panegirico alla Maestà Cristianissima di Luigi XIV (ibid. 1669), nuova testimonianza della sua gratitudine al sovrano. Nominato bibliotecario del principe Leopoldo ed in seguito del cardinale Giovanni Carlo de' Medici, trascorse gli ultimi anni della sua esistenza nelle tranquille occupazioni di studioso ed erudito, che non aveva mai tralasciato. Il precario stato di salute che lo tormentò negli ultimi tempi, non impedì tuttavia al D. di raccogliere in una accurata edizione Iframmenti dei capitolari di Lotario imp. tolti da una carta ms. del sig. Capitano Cosimo della Rena e inviati al sig. Emerico Bigot da C. R. Dati (ibid. 1675).
Morì a Firenze il 1 genn. 1676. Il suo corpo venne sepolto nel chiostro della chiesa di S. Spirito.
Furono pubblicate postume: Veglie inedite, a cura di F. Grazzini, Firenze 1814; Lettere, a cura di D. Moreni, ibid. 1825; Lepidezze di spiriti bizzarri e cunosi avvenimenti, ibid. 1829, rassegna aneddotica di personaggi del tempo, più o meno noti, da S. Rosa a Ferdinando I, dall'Achillini a Curzio da Marignolle.
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