PINCHERLE, Carlo
– Nacque a Venezia il 2 marzo 1863, da Giacomo, imprenditore, e da Emilia Capon, in «una famiglia ebrea numerosa che viveva sul Canal Grande» (De Ceccatty, 2013, p. 38) e che annoverava tra i propri avi Leone Pincherle, ministro della Repubblica veneziana proclamata da Daniele Manin nel 1848.
Carlo aveva tre sorelle e un fratello: Gabriele (magistrato e giurista, partecipò alla riforma del codice penale, fu presidente del Consiglio di Stato e senatore del Regno), Elena, Anna e Amelia, scrittrice, moglie di Giuseppe Emanuele (detto Joe) Rosselli e madre di Carlo e Nello, esponenti della Resistenza, assassinati il 9 giugno 1937 (ibid., p. 39).
Carlo conseguì la licenza tecnica a Venezia, quindi frequentò la Regia Scuola di applicazione annessa all’Università di Padova, laureandosi in ingegneria civile.
Nel 1885 si trasferì a Roma con la madre e la sorella Amelia presso il fratello Gabriele, il quale, dal 1881, dopo aver esercitato l’avvocatura, era divenuto segretario presso il ministero di Grazia e Giustizia.
Nel 1886, non ancora ventiquattrenne, prese parte al concorso Poletti in architettura, bandito dall’Accademia di S. Luca.
Il tema del concorso, indetto il 21 aprile 1886, prevedeva la redazione del progetto di una «grande sala da concerti, con sue dipendenze» (Roma, Archivio storico dell’Accademia di S. Luca, vol. 150, n. 23), atta a contenere millecinquecento persone, da rappresentarsi con disegni ad acquerello nelle scale di 1:100, 1:200 e 1:500. Alla data prevista per la scadenza presentò due progetti; il 16 dicembre, i concorrenti Pincherle e Giuseppe Mariani furono chiamati a eseguire la prova estemporanea, consistente nel progetto di un «faro per luce elettrica da erigersi nel centro di un giardino, con fontana nella sua base» (ibid., vol. 150, n. 45). Nella relazione del giudizio del concorso, tenutosi il successivo 19 dicembre, si legge che la commissione escluse uno dei progetti di Pincherle, quello contrassegnato dal numero 2, «perché non conforme alle condizioni del programma» (ibid.), che prevedeva un edificio di un solo piano; la pensione fu quindi conferita a Mariani e il premio in denaro a Pincherle.
I progetti recanti la sua firma, presentati al Comune di Roma per l’approvazione a far data dal 1886, farebbero risalire a questo periodo il vero e proprio inizio dell’attività professionale di Pincherle, residente già stabilmente nella capitale. Si trattava di un edificio da costruire in via Cavour (Roma, Archivio storico capitolino, Titolo 54, prot. 51351/1886) e di una scuderia in via Appia Nuova «oltre ponte Lungo» (ibid., prot. 43908/1886), elaborati per conto dell’impresa edile Belluni e Basevi, nonché del progetto di sopraelevazione della casa in via Madonna dei Monti 58-59 di proprietà di Filippo Gabbellini (1887, non realizzato); ancora per Belluni e Basevi, redasse il progetto di un fabbricato in via del Colosseo (1887). Nel medesimo anno ideò il villino per la contessa Di Cellere in via Boncompagni e, nel 1889, prese parte al concorso per la realizzazione del Tempio Maggiore di Roma.
A seguito dell’esproprio da parte del Comune degli edifici sede delle Cinque Scole, «luoghi di studio e di preghiera nei quali si ripartivano gli ebrei romani secondo i loro propri riti di appartenenza» (Ascarelli - Terracina, 2004, p. 41), l’università israelitica aveva pubblicato un «programma di concorso per un progetto di un tempio israelitico con accessori ed altri locali annessi da erigersi in Roma» (ibid., p. 41). All’articolo 8 del bando era specificato che l’edificio dovesse avere carattere «monumentale e severo». Al concorso presero parte ventisei gruppi di architetti; la commissione giudicatrice era costituita da Giulio Podesti, Enrico Panzacchi, Camillo Boito, Giuseppe Sacconi ed Edoardo Vitta. Due tra i progetti esaminati, uno di Attilio Muggia, l’altro di Vincenzo Costa e Osvaldo Armanni, furono giudicati egualmente meritevoli, ma nel 1897 gli autori furono invitati ad apportarvi alcune modifiche in ragione delle mutate condizioni, non ultima la differente ubicazione dell’edificio.
Del progetto presentato da Pincherle non è stato reperito nulla all’infuori di una relazione a stampa descrittiva dell’intervento, nella quale si firma “ingegnere architetto” e in cui afferma che l’edificio, da lui modernamente concepito con due ascensori per l’accesso agli ordini superiori delle tribune, sarebbe stato decorato tanto all’interno quanto all’esterno in uno stile definito «bizantino-italico», ritenuto il più consono in virtù della sua eleganza non disgiunta da una connotazione «spiccatamente locale», nell’intento di conferire «un’impronta sinceramente italiana all’edificio», oltre che per «escludere quelle forme decorative ora spesso invalse e di gusto puramente esotico» (Roma, Archivio storico della Comunità ebraica di Roma, Archivio contemporaneo, Comunità ebraica di Roma, b. 60, fasc. 5, alleg. n. 8: C. Pincherle, Progetto di tempio israelitico in Roma. Relazione, [1889], p. 2).
Nella Relazione era pure formulata un’offerta economica, redatta à forfait dall’impresa Rolli, Colombo & C., per un ammontare di seicentomila lire, inferiore del trenta per cento al limite di spesa stabilito dal concorso. La nota di Pincherle è stata conservata a motivo di tale offerta. Nel 1904, infatti, a lavori appaltati e quasi ultimati, il documento fu depositato tra gli allegati della seconda memoria dell’Università israelitica stilata nell’ambito dell’arbitrato istituito per dirimere la controversia tra quest’ultima e l’impresa Jacobacci, costruttrice del nuovo Tempio (ibid., alleg. n. 5: Relazione dei signori ingegneri Podesti e Burba, diretta all’avvocato Tabet): l’indicazione economica fornita dal concorrente sarebbe presumibilmente valsa a confermare l’inammissibilità delle richieste formulate dall’impresa.
Nel decennio successivo, l’Archivio storico capitolino registra due soli progetti presentati a suo nome: il primo relativo a due villini tra le vie del Castro Pretorio e di Porta S. Lorenzo per l’imprenditore Clemente Vanoni e per Enrico Formentini (1894), l’altro, ancora per Vanoni, che sarebbe divenuto uno dei suoi principali committenti, per un villino in via di S. Martino della Battaglia, ad angolo con via Sommacampagna (1898).
La crisi che investì la capitale a partire dal 1888 determinò una pausa forzata nell’attività edilizia, non risparmiando alcuno degli interventi di trasformazione urbanistica intrapresi, inclusa la lottizzazione di villa Ludovisi che, completata solo a partire dai primi anni del XX secolo, si configurò quale terreno di sperimentazione dei tipi edilizi moderni – istituti religiosi, alberghi, residenze unifamiliari e case da pigione –, «in un arco di espressioni formali che va dal corretto neorinascimento di G. Koch al gusto vagamente floreale di G. Burba» (Ferretti - Garofalo, 1984, pp. 172, 175).
Nel nuovo quartiere Pincherle realizzò, a partire dai primi anni del Novecento, numerose opere che ne consolidarono la fortuna professionale quale «interprete della affluent society ebraica di Roma […] di cultura – e talvolta di provenienza – internazionale» (Ascarelli - Terracina, 2004, p. 42). Si rammentano in proposito i villini edificati per le famiglie Spierer, Ascoli-Nathan, Levi, Mayer, Capon, Vivante, tutti ben articolati internamente e caratterizzati dalla sobria eleganza degli apparati decorativi.
Analoghi per connotazione gli edifici realizzati ancora nel quartiere Ludovisi tra il 1901 e il 1910 per Vanoni, su incarico del quale Pincherle seguì i lavori del villino Florio in via Sardegna ad angolo con via Abruzzi (1904), progettato da Ernesto Basile. In via Boncompagni, ad angolo con via Piemonte, realizzò il villino Rasponi (1901) e, in seguito, l’adiacente casa per domestici (1908); quindi, con l’architetto milanese Achille Majnoni, il bel villino Casati (1907), salotto della mondanità romana e attualmente istituto bancario, e, nel rione Prati, la palazzina in via dei Gracchi, oggi sede dell’ambasciata della Repubblica Ceca. Nel 1909 curò il restauro del teatro Manzoni in via Urbana per conto del nuovo proprietario, l’impresario Fiorentino Belloni.
Per sé stesso progettò i fabbricati di via Paisiello e via Sesia, oltre al villino di via Sgambati 9 (1911), nel quartiere allora detto Sebastiani, dove allestì il proprio studio e risiedette con la famiglia.
Nel 1903 aveva sposato con rito civile Teresa Iginia (detta Gina) De Marsanich; dal matrimonio nacquero Adriana (1905), in seguito pittrice di fama, Alberto (1907), Elena (1909) e Gastone (1914). Alberto, che, grazie all'aiuto di Carlo (Maraini, 2012, p. 37 s.) giovanissimo avrebbe dato alle stampe il suo primo romanzo, Gli indifferenti (1929), sarebbe diventato famoso con il cognome Moravia, già trasmesso al nonno Giacomo Pincherle da uno zio (De Ceccatty, 2013, p. 39), che lo aveva allevato dopo la morte precoce del padre.
Sebbene poco incline al ricordo, Moravia ebbe occasione di parlare della famiglia a Dacia Maraini e in alcune interviste rilasciate in età matura. In particolare descrisse Carlo come un uomo «piccolo, biondo, con gli occhi azzurri; e poi brusco, collerico, e timidissimo» (ibid., p. 44); altrove raccontò della sua passione per la città d’origine, nella quale si recava almeno due volte all’anno per dipingere – era pittore dilettante – e della professione che svolgeva. Giudicando il padre «più creativo in fatto di interni che di facciate, per lo più massicce e banali» (ibid., p. 46), in un’intervista del 1979 gli attribuì una definizione che suona come un bilancio della sua professione: «centoquaranta immobili e ville per la borghesia romana, costruzioni confortevoli ma completamente sprovviste di originalità: quello che si chiamava il Liberty, ma un Liberty molto addomesticato, convenzionale e borghese» (ibid., p. 62).
Dell’attività negli anni del regime fascista non si hanno notizie se non l’accenno del figlio Alberto a un precoce pensionamento. Lo scrittore ricordò quale ultima opera del padre la residenza di un giornalista, figlio di Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio, realizzata a breve distanza dall'abitazione di famiglia (Maraini, 2012, p. 8).
Nel 1937 la famiglia subì interrogatori e perquisizioni a seguito dell’assassinio dei figli della sorella Amelia. Nel 1941 fu ucciso in Libia il figlio minore Gastone. Il carteggio con Amelia è custodito presso l’Archivio della Fondazione Rosselli in Torino; il fondo Adriana Pincherle - Onofrio Martinelli dell’Archivio contemporaneo A. Bonsanti presso il Gabinetto scientifico-letterario G.P. Vieusseux a Firenze conserva diciotto sue opere ad acquarello.
Affetto da una grave forma di artereosclerosi, morì a Roma il 12 febbraio 1944, durante l’occupazione tedesca.
Fonti e Bibl.: P. Marconi - A. Cipriani - E. Valeriani, I disegni di architettura dell’Archivio storico dell’Accademia di San Luca, I, Roma 1974, schede 1278-1285; V. Fraticelli, Tipologia e stile dell’abitazione per i nuovi ceti emergenti, in Roma capitale 1870-1911. Architettura e urbanistica. Uso e trasformazione della città storica (catal., Roma), a cura di Ead - G. Ciucci, Venezia 1984, p. 169.; L. Ferretti - F. Garofalo, Un quartiere per la borghesia: lottizzazione e costruzione di Villa Ludovisi, ibid., pp. 172, 175, 178-180; I. De Guttry, Guida di Roma moderna. Architettura dal 1870 ad oggi, Roma 19892, p. 137; A. Moravia - A. Elkann, Vita di Moravia, Milano 1990, pp. 8-10; R. Catini, I concorsi Poletti. 1859-1938, Roma 1999, pp. 70, 111, 131; F. Coiro Cecchini, L’architettura liberty a Roma, Roma 2000, pp. 20-23; G. Ascarelli - S.A. Terracina, Un’architettura fra rappresentazione e tradizione, in Il Tempio Maggiore di Roma nel centenario dell’inaugurazione della sinagoga 1904-2004, a cura di G. Ascarelli et al., Torino 2004, pp. 42, 52; D. Maraini, Il bambino Alberto (1986), ed. digitale, Milano 2012, passim; A. Moravia, Lettere ad Amelia Rosselli con altre lettere familiari e prime poesie (1915-1951), a cura di S. Casini, ed. digitale, Milano 2013, pp. 220-233, 236 s.; R. De Ceccatty, Alberto Moravia, ed. digitale, Milano 2013, passim.