PETRA, Carlo
– Nato a Vastogirardi il 24 novembre 1629 da Vincenzo e Settimia Filonardi, si laureò in utroque iure ad appena sedici anni. Nella professione forense conseguì subito notevoli successi, segnalandosi soprattutto nella difesa delle cause feudali. Dopo aver ricoperto la carica di uditore, nel 1665 fu promosso giudice di Vicaria e nel 1675 consigliere del Sacro Regio Consiglio. Nel 1697 completò l’ascesa ministeriale con la nomina a reggente della Cancelleria, conseguita conservando la carica di consigliere decano del Sacro Consiglio. Fu barone e dal 1689 primo duca di Vastogirardi.
Non mancò di ricoprire importanti uffici di natura economico-finanziaria: dopo essere entrato a far parte della giunta del vino a minuto, divenne delegato del relativo arrendamento e in seguito prefetto del Regio Erario. Significative le funzioni da lui svolte in seno all’ufficio del Cappellano maggiore, uno snodo fondamentale del sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa: dopo essere stato nominato avvocato fiscale del tribunale del Cappellano, divenne consultore di quest’ultimo.
Secondo Lorenzo Giustiniani (1788, p. 50) nel 1679 Petra avrebbe rifiutato la nomina a preside di Abruzzo Citra. Il biografo s’interrogava sulle cause del rifiuto senza riuscire a darne una spiegazione. Quel diniego potrebbe essere stato dettato dalla volontà di non fuoriuscire dai canoni consolidati delle carriere ministeriali accettando una carica, quella di preside, che era riservata a esponenti dell’aristocrazia. Ma non mancano biografi coevi secondo cui Petra sarebbe stato preside a Chieti e in Terra di Bari nella seconda metà degli anni Ottanta.
Dalla moglie Cecilia Pepi, figlia del consigliere e presidente della Sommaria Ortensio, ebbe Giulia, Margherita, Antonia Teresa, Giuseppe, Domenico, Anna Maria e Vincenzo, canonista destinato a una brillante carriera ecclesiastica.
Morì a Napoli il 15 luglio 1702.
Opere. Si dedicò fin dall’età di trent’anni alla stesura dei Commentaria luculenta et absoluta in universos Ritus M.C.V. Regni Neapolitani, che pubblicò a Napoli in quattro tomi, di cui il I e il II videro la luce nel 1664, il III nel 1680 e il IV nel 1693. Seguirono altre edizioni napoletane datate 1721, 1725 e 1774-1775. In quell’opera il giurista trasfuse il proprio sapere giuridico, affidandole probabilmente la speranza di una fama imperitura. Ma il trattato fu giudicato inferiore alle attese. Giannone (1971, V, p. 97) ne diede una valutazione molto negativa, scrivendo che quei tomi meritavano piuttosto il «nome di magazzini, che di commentarii»: l’autore vi aveva trattato numerose «altre cose affatto estranee dal soggetto che avea per le mani». Stroncatura ribadita da Giustiniani (1788, p. 51), che, riecheggiando lo storico dauno, giudicò anch’egli l’opera di Petra «un magazzino ripieno di erudizioni vaghe, e poco necessarie, e di materie, che nulla han che fare co’ riti, ch’ei intendea di comentare». In realtà, le materie disciplinate dai Riti della Vicaria si prestavano a considerazioni di ordine generale sugli assetti giuridico-istituzionali del Regno e sui rapporti tra i poteri e tra le fonti normative. Petra, però, non sempre si mostrò coerente nell’affrontare quei temi.
Nell’opera era pienamente sottolineata la larga base consuetudinaria dell’ordinamento. Nel ricostruire la genesi dei Riti, Petra scriveva che questi erano i «Mores» e gli «usus qui observari consueverant» nella Vicaria (Commentaria, 1664-1693, I, Ritus primus, n. 42, p. 37). Il «Ritus» non era che il «mos vetustior, & firmior» (ibid., n. 43, p. 38). Rilievi accompagnati dalla considerazione secondo cui la consuetudine non era che un’altera lex, fondata sul consenso non espresso, ma tacito del popolo. A ciò Petra aggiungeva che in materia feudale la consuetudine locale prevaleva sullo stesso ius feudorum (ibid., n. 46, p. 38).
Un posto cruciale occupava nell’opera la riflessione sulle peculiarità del patrimonio normativo meridionale. Petra puntualizzava che nel Mezzogiorno il diritto romano si applicava in virtù della consuetudine e del consenso tacito dei sovrani e richiamava la posizione di Andrea d’Isernia secondo cui questi ultimi potevano abrogare le leggi romane e derogarvi (ibid., IV, Ritus CCLXXXVIII, n. 109, p. 213). Ma nel contempo l’autore dei Commentaria affermava che le constitutiones del Regno, in quanto statuta specialia, dovevano essere interpretate in modo da ledere il meno possibile lo ius commune (ibid., I, Ritus primus, n. 45, p. 38). Coerenti con quel punto di vista erano i giudizi encomiastici sul diritto romano e quelli negativi sul diritto longobardo che Petra formulava nel suo trattato. L’Italia, in passato «Regina» che dava «Iura» agli altri popoli con un «dulcissimo dominatu», una volta soggiogata dai longobardi, era stata costretta a soggiacere a nuove e asperrime leggi. Petra non mancava al riguardo di evocare i consueti epiteti di «Asininum» e di «irrationabile» attributi al diritto longobardo. Cessata la tirannide dei longobardi, le loro leges erano andate in desuetudine in quanto «irrationabiles, ac asperae». Infatti, le leggi dovevano essere honestae, possibiles e conformi a ragione (ibid., IV, Ritus CCXCII, n. 1, pp. 257 s.). Erano posizioni ispirate a quel rifiuto del volontarismo che era saldamente radicato nell’ideario dei giuristi di antico regime. Il ragionamento si chiudeva recependo l’opinione di Roberto Maranta secondo cui, nel dubbio, a Napoli si presumeva trovasse applicazione il diritto romano e non quello longobardo (ibid., n. 4, p. 258).
Le posizioni di Petra rispecchiavano punti di vista molto diffusi nella respublica dei togati napoletana al momento del suo apogeo. Egli richiamava non a caso la critica rivolta da Giovan Francesco De Ponte all’opinione secondo cui i reggenti della Cancelleria erano semplici «Proregis assessores» (ibid., I, Ritus primus, n. 8, p. 23). Nel trattare del Sacro Regio Consiglio, Petra escludeva che fosse titolare di una potestas legis condendae, non essendo, fra l’altro, consentito emanare leggi al prefetto del Pretorio, che a quel tribunale era assimilabile (ibid., n. 15, p. 26). Ma nel contempo precisava che il Sacro Consiglio, a ruote riunite e previa licenza del viceré, poteva risolvere i dubbi di diritto «per modum legis in posterum semper servandae» (ibid., n. 16, p. 26). Inoltre, puntualizzava che gli orientamenti giurisprudenziali di quell’organo andavano osservati dai tribunali inferiori, se non «pro lege», quanto meno «pro stylo» (ibid., n. 17, p. 26).
Enfatici erano i giudizi sui magistrati che componevano il Sacro Consiglio: «Iuris Prudentiae Coriphaei, legum Antesignani, aequi, bonique studiosissimi». Essi erano tenuti a obbedire a Dio piuttosto che agli uomini e agli stessi principi (ibid., IV, Ritus CCLXXXVIII, n. 89, p. 204). Quel supremo senato, infatti, rappresentava Dio e giudicava come Dio (ibid., n. 26, p. 182). Nei Commentaria il richiamo alle tradizionali formule dell’autocelebrazione giuridica era molto insistito. Il Regio Consiglio – aggiungeva Petra – era detto Sacro perché vi operavano magistrati che erano «Assessores & Iudices Tribunalis Dei» (ibid., n. 176, p. 237).
Nell’opera non mancavano aperture in senso legicentrico. Petra affermava, per esempio, in maniera netta, che l’aequitas era da respingere quando fosse in contrasto con la legge scritta (ibid., III, Ritus CCLXXIV, n. 65, p. 509). D’altra parte, era riservato al principe «aequitatem inspicere» (ibid., n. 66, p. 509). Né, secondo la communis opinio, era consentita l’estensione di una pena quando non fosse chiaramente espressa la ratio della lex che la prevedeva e «plures rationes possunt considerari» (ibid., n. 86, p. 523). In generale, non era lecito «leges extendere […] sub aequitatis praetextu» né «a Iure scripto recedere ob aequitatem non scriptam» (ibid., IV, Ritus CCLXXXVIII, n. 132, p. 223). Ma andava chiaramente nel senso di un’apertura ai temperamenti equitativi tradizionalmente praticati dalle magistrature la successiva affermazione secondo cui la giustizia priva di misericordia era «crudelitas» (ibid., n. 177, p. 237). Inoltre, Petra chiariva che «aequitas specialis semper praefertur regulis generalibus Iuris Communis» e che la presenza di un’identica aequitas consentiva di estendere la disposizione ai casi simili «ex identitate rationis» (ibid., n. 143, p. 226). In contrasto con le precedenti aperture legicentriche, affermava poi a chiare lettere la mancata soggezione del Sacro Regio Consiglio ai Riti della Vicaria. Quel senato era tenuto all’osservanza della normativa regia come i francesi lo erano all’osservanza del diritto romano, ossia solo nella misura in cui fosse conforme alla ratio. Le leggi non andavano infatti osservate in quanto manifestazioni della volontà del detentore del potere politico, ma in quanto dotate di una ratio che «suadet». Ciò valeva per le costituzioni del Regno, per i Riti e per le stesse prammatiche (ibid., n. 83, p. 202). Quella logica portava Petra ad ammettere che laddove, come nel Regno di Napoli, si procedeva «sola facti veritate inspecta», le prove erano tutte arbitrarie e poste «in manu Iudicis» (ibid., n. 117, p. 217). Né l’autore dei Commentaria sembrava prendere le distanze da quell’estrema dilatazione dell’arbitrio giudiziale. Anzi, giustificava l’uso della formula «ex causis in S. C. discussis», che denotava l’essere quel supremo tribunale vincolato al solo fatto e non anche alla legge, in base alla considerazione secondo cui il Sacro Consiglio rappresentava il re. L’impiego di quella o di analoghe formule nei decreta e negli arresta dei parlamenti e delle curie supreme – precisava il giurista – era pienamente consentito. Al contrario la Vicaria, che non era un tribunale supremo, non poteva disattendere le leges. Petra faceva discendere anche il rifiuto del Sacro Consiglio di motivare le sentenze dall’assimilazione delle curie supreme al vertice del potere politico: era la titolarità della plenitudo potestatis che consentiva di non rendere conto del proprio operato. E, citando Géraud de Maynard, l’autore dei Commentaria non mancava di richiamare le sanzioni previste contro chi osasse chiedere ai magistrati di motivare le sentenze (ibid., n. 86, p. 203).
In Petra era nettamente visibile l’adesione ai canoni dell’ideologia ministeriale. Posizioni che egli tuttavia conciliava con la peculiare sensibilità che gli derivava dall’appartenenza al ceto aristocratico. Ad esempio, fra le dimostrazioni dell’effusiva munificentia di Alfonso d’Aragona citava l’aver attribuito ai baroni il merum e mixtum imperium (Excellentissimo Domino D. Petro Antonio de Aragonia Regni Neapolitani Proregi de transferendis Serenissimi Alphonsi de Aragonia eiusdem Regni primi regis cineribus a Neapolitana Urbe ad Basilicum Maiorum tumulum paraenesis, Neapoli 1668, n. 89, p. 59).
Nelle materie attinenti al conflitto giurisdizionale i Commentaria rivelano notevoli oscillazioni e cautele prudenziali. Petra ammetteva senz’altro la validità della donazione di Costantino, ponendo alla sua base il consenso dell’intero popolo romano, e riferiva la tesi secondo cui negarne la fondatezza era sostenere una tesi prossima all’eresia (1664-1693, I, Proemium, n. 21, p. 10). Inoltre, attribuiva al pontefice ancora un notevole potere di arbitrato e di mediazione politica: il papa poteva e doveva costringere i principi cristiani alla concordia e alla tregua (ibid., IV, Ritus CCLXXXVIII, n. 157, p. 231). Anche alla scomunica il giurista attribuiva un’ampia sfera d’incidenza (ibid., II, Ritus CCXXXVI, n. 4, p. 336), sostenendo che essa comportava una vera e propria esclusione dal consorzio umano. Infatti, non solo era vietato concedere benefici allo scomunicato (ibid., n. 7, pp. 336 s.), ma anche attribuirgli qualunque ufficio e potere giurisdizionale (ibid., n. 12, p. 337). Perciò, nel commentare il Rito LXI, che riservava, fra l’altro, alla Vicaria il potere di pronunciarsi sull’exceptio excommunicationis, precisava che quella norma solo «prima facie» sembrava «Ecclesiastico foro aliquid detrahere». Infatti, era da escludere che l’indagine affidata alla Vicaria e agli altri tribunali laici fosse diretta ad accertare la validità della scomunica, adombrando un sospetto di negligenza o imprudenza a carico dei magistrati ecclesiastici, perché ciò avrebbe significato «alienis manibus […] falcem immittere». La competenza dei tribunali laici era limitata ad accertare «incidenter» e «summarie […] si revera sit excommunicatus declaractus» (ibid., I, Ritus LXI, n. 1, p. 333).
Analoga strategia argomentativa Petra seguiva nel trattare del Rito CCXXXV, che attribuiva al giudice laico il potere di verificare la titolarità dello status ecclesiastico, previa esibizione delle bolle del chiericato. L’importanza di quella norma era tale che gli anticurialisti la designavano, per antonomasia, come 'il Rito della Vicaria'. Petra sembrava quasi giustificarsi di aver dovuto affrontare quel tema scabroso e precisava di esservi stato non indotto dalla propria voluntas, ma costretto dal compito di fornire un’illustrazione completa dei Riti. Egli teneva comunque a sottolineare che il Rito CCXXXV era solo apparentemente in contrasto con l’immunità ecclesiastica (ibid., II, Ritus CCXXXV, n. 1, p. 326). Infatti, la cognitio dello status clericale del soggetto competeva al giudice laico «non in modum probationis, sed instructionis, & summariae cognitionis» (ibid., n. 21, p. 330).
Connesso all’impegno di consultore è un testo manoscritto dedicato al Cappellano maggiore (Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, ms. XXIV.C.11, cc. 41-301), di cui una sintesi a stampa compare in una miscellanea manoscritta della Biblioteca Nazionale di Napoli (ms. XI.C.26, cc. 232-236). In quel testo Petra esaltava le antiche origini dell’istituto, risalenti all’epoca normanno-sveva, e sottolineava l’ampiezza della sua iurisdictio. Ma teneva a puntualizzare che l’ufficio era retto col consiglio e col voto decisivo del ministro regio che ricopriva la carica di consultore. Quest’ultimo, scelto fra i magistrati del Sacro Consiglio e della Sommaria, esercitava i relativi poteri giurisdizionali e sottoscriveva le relazioni da inviare al viceré, specie nella delicatissima materia del regium exequatur, di cui Petra rammentava la definizione di pupilla oculorum Regis. In un’opera manoscritta quale era il trattato sul Cappellano maggiore Petra riteneva evidentemente possibile abbandonare le cautele e i tatticismi adottati in quelle a stampa. La difesa delle regalie si accompagnava alla valorizzazione delle funzioni affidate alle magistrature regie nella lotta anticurialistica: era il ministero togato a dare corpo all’impegno dello Stato contro il particolarismo ecclesiastico.
Fonti e Bibl.: L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, pp. 49-52; P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, IV, Milano 1971, lib. XX, cap. VI, 2, p. 158, V, lib. XXV, cap. VIII, p. 97; M.N. Miletti, P., C., in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), a cura di I. Birocchi et al., II, Bologna 2013, p. 1560.