MONTI, Carlo
MONTI, Carlo. – Nacque a Rapallo, in provincia di Genova, il 4 maggio 1851 dal barone Alessandro e dalla nobildonna inglese Sarah Willshire.
Il padre, esponente di una delle più nobili ed antiche famiglie del bresciano, aveva partecipato alla campagna del 1848, al termine della quale era stato nominato colonnello di cavalleria nell’esercito piemontese. Nel 1849 fu inviato dal governo di Vincenzo Gioberti in Ungheria, dove organizzò una legione italiana che prese parte a tutte le fasi della guerra d’indipendenza.
La famiglia si stabilì a Genova nel 1854, dove Carlo ebbe modo di conoscere i marchesi Della Chiesa e in particolare il piccolo Giacomo, futuro Benedetto XV: compagni di collegio, frequentarono insieme anche l’ateneo della città ligure, laureandosi entrambi in Giurisprudenza.
Al principio degli anni Ottanta la parentela con Benedetto Cairoli – che aveva sposato una cugina da parte di padre – gli fornì un’importante entratura nel mondo politico romano. Inizialmente segretario particolare di Cairoli, nell’ottobre 1882 fu assunto come segretario di I classe al Fondo per il Culto, l’ente sorto nel 1866 (a seguito delle leggi eversive dell’Asse ecclesiastico) e operante nell’ambito del ministero di Grazia, Giustizia e Culti, con il compito di provvedere all’erogazione della congrua ai parroci e delle pensioni ai membri delle corporazioni religiose disciolte.
Nel 1887 sposò Emilia Aleandri; non ebbe figli e restò vedovo nel 1910. Si sposò una seconda volta nel marzo 1918 con Maria Caterina Lucchesi.
Stretto collaboratore di Giuseppe Zanardelli negli anni in cui questo fu ministro di Grazia e Giustizia e presidente del Consiglio (dal 1881 al 1903), Monti fu promosso nell’aprile 1902 ispettore, quindi vicedirettore del Fondo per il Culto nel luglio 1904. Giunse al vertice dell’ente quattro anni dopo, con la nomina a direttore generale, quando era Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando, con il quale Monti strinse buoni e duraturi rapporti. Gli anni della sua gestione – conclusasi praticamente alla vigilia della morte – furono improntati a tendenze mediatrici e conciliative con le autorità ecclesiastiche, che gli valsero discreti risultati nei molti ambiti propri del Fondo Culto: un effetto attribuibile alle doti e al temperamento di Monti ma anche al più disteso clima fra Stato e Chiesa caratteristico dell’età giolittiana. L’ascesa al soglio pontificio del suo antico compagno di studi e amico Della Chiesa (con il quale i legami si erano sempre mantenuti cordiali e costanti) lo portò a ricoprire un ruolo inusitato e di grande rilievo. Il 6 settembre 1914, a soli tre giorni dalla sua elezione, Benedetto XV indicò Monti al presidente del Consiglio Antonio Salandra come colui che, per la fiducia accordatagli dal governo italiano e dalla S. Sede, poteva fungere da tramite confidenziale fra le due rive del Tevere su questioni urgenti e di particolare rilievo. Salandra acconsentì e Monti iniziò a frequentare abitualmente il Vaticano come una sorta di «incaricato d’affari» ufficioso: un fatto impensabile ai tempi di Leone XIII e di Pio X.
Da allora Monti tenne un diario quasi quotidiano, nel quale annotava tutti i suoi incontri con il pontefice, il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri e i suoi più stretti collaboratori, fra i quali il sostituto Federico Tedeschini e il segretario della Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari Eugenio Pacelli.
La prima fase del suo operato coincise con i mesi della neutralità italiana, durante i quali riferì sulle proposte e sui tentativi compiuti dalla S. Sede per evitare l’allargamento del conflitto, attraverso la cessione concordata del Trentino e di altri territori da parte dell’Austria-Ungheria. L’intransigenza del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, unita alla più generale politica del gabinetto Salandra, vanificò ogni accordo e ostacolò la stessa opera di Monti, tenuto all’oscuro delle più importanti decisioni. L’entrata in guerra dell’Italia (che determinò fra l’altro la partenza dei diplomatici degli Imperi centrali accreditati presso la S. Sede) rappresentò un momento delicatissimo nelle relazioni fra Stato e Chiesa durante il quale Monti tentò in ogni modo di smussare l’intransigenza delle due parti.
Su richiesta del papa, si impegnò ad assicurare l’esenzione dal servizio militare per il personale incaricato della custodia e del funzionamento delle varie strutture in Vaticano. Per tutta la durata del conflitto grazie ai suoi buoni uffici poterono essere risolte questioni grandi e piccole fra due poteri che, formalmente, s’ignoravano. Anche dopo la caduta di Salandra, proseguì infatti la sua missione mantenendo un rapporto privilegiato con Orlando, che lo definì «nunzio e ministro nello stesso tempo» (La conciliazione ufficiosa... , vol. II, 1997, p. 410).
L’affetto e la simpatia nutrita dal papa nei suoi confronti, l’entusiasmo, la correttezza e la disponibilità di Monti favorirono un clima quanto mai proficuo. Sempre più numerosi erano i prelati interessati a procurarsi per il suo tramite la soluzione di varie questioni di carattere amministrativo con lo Stato italiano, tanto che in Vaticano fu soprannominato scherzosamente «il vice-papa» (ibid., vol. II, p. 247). Tra il 1917 e il 1918 riuscì a ottenere l’aumento della congrua per i parroci e l’approvazione da parte del Consiglio di Stato di nuovi criteri per la liquidazione degli assegni ai vescovi, nonostante il parere contrario espresso dalla Corte dei Conti.
Non mancarono però momenti di acuta tensione. Fu quanto avvenne, per esempio, nella seconda metà del 1916, dopo il sequestro e la confisca di Palazzo Venezia, sede fra l’altro dell’ambasciata d’Austria presso il Vaticano. Monti tentò di evitare l’esasperazione dei contrasti ma la situazione sembrò precipitare ai primi di ottobre, quando Sonnino di propria iniziativa rese di pubblico dominio la nota vaticana di protesta e la ferma risposta del governo. Ne derivò un’accesa campagna di stampa anticlericale, seguita da una durissima presa di posizione del ministro Leonida Bissolati, che accusò il papa di parteggiare senza ritegno per gli Imperi centrali. Il contrasto si risolse dopo estenuanti trattative, condotte con pazienza e abilità proprio da Monti. Il presidente del Consiglio Paolo Boselli accettò di tenere un discorso alla Camera in cui rese un fervido omaggio al contributo decisivo assicurato dai cattolici e dal clero allo sforzo bellico della nazione.
Un altro momento di crisi fu rappresentato dal caso di mons. Rudolph Gerlach, membro del seguito di Benedetto XV, implicato nelle attività di una rete spionistica tedesca in Italia e per questo processato e condannato. Monti si prodigò per evitare che l’inchiesta coinvolgesse anche altri esponenti vaticani e, su incarico del governo, avvertì il papa del mandato di cattura prossimo a spiccarsi contro Gerlach, consentendogli così di rifugiarsi in Svizzera. Il pontefice allontanò a malincuore il suo collaboratore, perché convinto che si trattasse solo di una manovra a danno della S. Sede; di questo risentì per breve tempo anche il rapporto con Monti, parzialmente incrinatosi. La collaborazione tornò a farsi proficua dopo Caporetto, quando il barone chiese e ottenne dal papa di agire sui vescovi perché sollevassero lo spirito delle popolazioni, invitando i fedeli a mantenersi calmi, uniti e fiduciosi e a partecipare con le preghiere e con le opere alla resistenza contro il nemico invasore.
Appoggiò poi gli sforzi di Benedetto XV e di Gasparri per migliorare la sorte dei prigionieri italiani nella Duplice Monarchia, agevolando la trasmissione di pacchi-viveri e intensificando le ricerche dei dispersi o il recapito della corrispondenza. Su tali questioni non esitò ad entrare in parziale contrasto con il governo, invitando più volte Orlando e i suoi colleghi ad essere meno intransigenti e a favorire le pratiche promosse dalla S. Sede. Ciò avvenne soprattutto dopo la ritirata dell’esercito italiano sulla linea del Piave, che comportò l’aumento esponenziale del numero di prigionieri, sottoposti a drammatiche condizioni di vita per la carenza di alimenti di cui soffriva tutto l’impero asburgico. I tentativi per un rimpatrio in massa degli uomini più provati naufragarono di fronte all’ostinazione di Sonnino, convinto che se ciò fosse avvenuto molti fra i combattenti avrebbero preferito darsi prigionieri piuttosto che esporre la loro vita in battaglia, contando di riacquistare prima o poi la libertà.
Anche nel dopoguerra Monti mantenne costante la sua attività di intermediario. Come ebbe a dire monsignor Tedeschini nel maggio 1920, i rapporti ufficiosi non solo esistevano ma risultavano ben noti anche agli altri Stati e il barone era «l’ambasciatore di fatto» (ibid., p. 540). Il suo ruolo chiave fu riconosciuto da tutti i presidenti del Consiglio succeduti a Orlando: Nitti, Giolitti e Ivanoe Bonomi lo confermarono nelle sue informali quanto importanti funzioni.
Tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919 si profilò, in virtù delle buone disposizioni di Gasparri e Orlando, la possibilità di aprire trattative dirette in vista della soluzione della questione romana. Notizie in tal senso pervennero alla stampa, che accennò anche al ruolo di Monti, particolarmente attivo e impegnato per agevolarle; tuttavia, come è noto, non si andò oltre i famosi colloqui parigini fra monsignor Bonaventura Cerretti e Orlando del maggio-giugno 1919.
Monti favorì poi la soluzione di vertenze delicate e difficili, da quelle relative alle circoscrizioni diocesane nei territori annessi, alla nomina di nuovi presuli in sostituzione di quelli austrofili. Altrettanto impegno dispiegò nella difesa delle prerogative italiane nella Custodia di Terrasanta, cercando di contenere le ingerenze francesi, da lui assai temute specie dopo il riavvicinamento di Parigi alla S. Sede.
Nel corso del 1921 diradò per ragioni di salute le visite in Vaticano e interruppe il diario. Riprese le sue normali abitudini nel gennaio 1922, ma la morte del papa, avvenuta il 22 dello stesso mese, pose fine alla sua missione. Monti gli sopravvisse poco più di due anni.
Morì a Roma, l’11 marzo 1924, per un’influenza degenerata in polmonite.
I manoscritti dei suoi diari, pubblicati nel 1997 da Antonio Scottà, furono ceduti nel novembre successivo insieme ad altre carte d’archivio dalla vedova alla S. Sede, che le corrispose la cospicua somma di 60.000 lire.
Fonti e Bibl.: I documenti di natura istituzionale prodotti nei lunghi anni della direzione del Fondo Culto sono in Arch. centr. dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale Fondo Culto; mentre le carte personali e riservate degli anni 1914-1924 (per lo più concernenti i rapporti con la Santa Sede) trattenute da Monti si conservano in Arch. segr. Vaticano, Fondo Culto (Carte C. M.).
Per la bibliografia: P. Guerini, Le nobili famiglie bresciane Monti e Della Corte. Ricerche araldiche e genealogiche, Brescia 1923, p. 23; In memoria di S. Ecc. il N.U. C. M., Brescia 1925; G. De Felice, Lettere di Benedetto XV al barone M., in Nuova Antologia, LXVIII (1933), 1460, pp. 161- 178; F. Margiotta Broglio, Italia e S. Sede dalla grande guerra alla conciliazione: aspetti politici e giuridici, Bari 1966, ad ind.; G.B. Varnier, Gli ultimi governi liberali e la questione romana (1918- 1922), Milano 1976, ad ind.; I. Garzia, La questione romana durante la prima guerra mondiale, Napoli 1981, passim; A. Scottà, La conciliazione ufficiosa. Diario del barone C. M. (1914-1922), 2 voll., Città del Vaticano 1997; N. Mancino et al., La conciliazione ufficiosa nelle pagine di diario di C. M., in Nuova Antologia, CXXXIII (1998), 2206, pp. 5-29; G. Procacci, I prigionieri italiani dopo Caporetto, Torino 2000, pp. 234-239; La Conferenza di pace di Parigi fra ieri e domani (1919- 1920), a cura di A. Scottà, Soveria Mannelli 2003, ad ind.; B. Paloscia, Benedetto fra le spie. Negli anni della Grande Guerra un intrigo tra Italia e Vaticano, Roma 2007, ad. ind.; G. Paolini, Offensive di pace. La S. Sede e la prima guerra mondiale, Firenze 2008, ad. ind.